Bagliori d'estasi
Rammento assai bene un episodio dove... aspettate, provate a pitturarvelo anche voi nella testa. Chiudete gli occhi. Ci siete? Perfetto.
S'incamminano quieti per la via verso Bologna, Francesco e Leone. Frate Leone, tanto buono e dolce che Francesco l'ha soprannominato Pecorella di Dio.
Coniava soprannomi per chiunque, Francesco, e, prima di partire a diffondere la Parola nel mondo, se i frati erano indecisi sulla meta, li faceva sostare a un bivio e poi girare in tondo su loro stessi. Girare e girare, volteggiando fino a capitombolare a terra intontiti e col sangue al cervello e il punto in cui cascavano di testa indicava la meta verso cui la volontà divina li spediva.
Questa volta il Signore li manda a Bologna. Leone precede Francesco e ogni tanto si volta a controllarlo. Cammina a stento il suo confratello, passo strascicato, capo chino e ciondolante. Leone gli ha suggerito di fermarsi un poco e riposare, il colorito smorto di Francesco non gli piace. Scorge, siccome lo conosce, le avvisaglie di un malore e l'ultima cosa che vuole è vederlo stramazzare per strada.
L'altro, testardo quanto, se non più, di un bue, nega e lo rassicura, le ombre sotto gli occhi che si rabbuiano di ora in ora, sorridendo sul viso congestionato.
«Leone...» ode a un tratto dopo aver percorso un miglio di strada. Francesco, alle sue spalle, ansante, si curva sulle ginocchia, il sudore che gli riga la fronte, il cappuccio sollevato nonostante il sole splendente sui campi rigogliosi. «Leone, per carità di Dio, fermati un attimo. Frate Asino è pigro e stanco, reclama una sosta!»
Sempre cosi! Francesco, infaticabile, ostinato a marciare fino al collasso, ha soprannominato Frate Asino il suo povero, martoriato corpo. E siccome, sostiene, siccome è un guscio ostinato e pretenzioso, pigro e sempre affamato, afflitto dai malanni, è previdente punirlo, bisogna batterlo e lasciarlo digiuno.
«Frate Asino cattivello...» cantilena Francesco, rabbrividente, ancorandosi all'appoggio che Leone, prontamente, gli fornisce col suo braccio.
Lo fa sedere sul muricciolo che costeggia la strada, riarso dal sole.
Transita a cavallo un uomo ben vestito, un facoltoso cavaliere con il mantello cangiante, si accorge di questo straccione floscio che batte i denti e gli getta sulle spalle il suo mantello. Lo riconoscono un po' dappertutto, ormai, quel fraticello grigio, con la faccia smunta e gli occhi ardenti, che annuncia tante cose belle e soavi, e provano già, nei suoi confronti, un profondo e sincero affetto.
In una nuvola di polvere il cavaliere galoppa via, schioccando le redini.
Tossicchiando, Francesco si stringe nella lana calda, morbida, perché avverte, malgrado il tepore del primo sole, il ribrezzo della febbre che lo assale.
«Preferisci riposare un attimo Francesco?» gli pone Leone con delicatezza.
«No...» gracchia, la voce graffiante, avvolgendosi nel soffice abbraccio.
«Ti farebbe solo bene!» insiste Leone, disperato, per quanto ormai abituato ai ritmi impareggiabili e disumani di Francesco. «Solo poche ore, giusto per riprenderti.»
Francesco si scrolla di dosso il mantello come se l'avesse ustionato.
«Riprendermi da cosa? Io sto benone.»
«Francesco...»
Piega il mantello, dissipando i timori dell'amico con un sorriso fanciullesco.
«Andiamo.» gli propone, strizzandogli l'occhiolino, la stoffa tenuta sull'avambraccio a mo' di tovaglia. «I bolognesi non sono rinomati per centellinare il loro tempo.»
Leone tentenna un poco, indeciso. Francesco incespica spossato e non gli bastano le rassicurazioni a fugare i suoi dubbi.
A malincuore affretta l'andazzo, riprendendo il cammino verso Bologna, avvistandola, con le sue costruzioni torreggianti, in lontananza.
Accanto al torrione, proprio fuori le mura della città, bivacca un poveraccio che si scalda la schiena a ridosso del muro caldo. Non chiede nulla a quei due, più malandati di lui. Osa soltanto un cenno di saluto.
Ma Francesco si rivolge al compagno, tutto imbaldanzito, il malessere, per un secondo, volatilizzato.
«Frate Leone!» esclama angelico, trasfigurato dall'estasi giocosa dei bimbi quando implorano i genitori per un cruccio. «Rendiamo il mantello a questo povero?»
Leone non può astenersi dal sorridere. Quando a Francesco gli offrono qualcosa subito la cede ai poveri, anche i primi derelitti che incontra per strada, e sottolinea, con enfasi, tendiamo, noi due, io e te, perchè, per lui, la roba non appartiene a nessuno e qualunque regalo o elemosina spetta di diritto tutta ai poveretti.
Francesco, senza attender risposta, si toglie il mantello, e nell'avvolgervi dentro il poverello - sconvolto da quell'atto di carità inaspettato - amorosamente, lo abbraccia e lo bacia due volte sulle guance.
«Pace e bene fratello!»
S'inoltrano nelle vie di Bologna, spargendo il seme della Parola. A volte arringando folle colossali, altre ricevendo in cambio botte e minacce. Francesco accetta tutto con mansuetudine, fedele al concetto della Perfetta Letizia.
Ma Frate Asino non regge più. Una sera crolla di schianto, stremato, sulla pietra della strada, scivolosa di pioggia. Frate Leone lo raccoglie di peso, caricandoselo in spalla inerme, e lo porta nella prima casa che gli spalanca l'uscio e che gli offre un lettuccio candido, un minimo giaciglio da infermo.
«Oh Francesco...» geme rassegnato. «Non si maltratta Frate Asino!»
E per tanti giorni lo veglia Leone, l'esile e cereo Francesco premuto nel letto da una febbre terribile, sorbendosi i suoi vaneggiamenti.
«Maman... Maman... je ne sais... M-Maman... Chiara... Chiara ti prometto che v-verrai... s-sarai... tu seras a-avec... nous... Signore... Gesù...»
Un mattino, Francesco, spaesato, apre gli occhi. Mette a fuoco frate Leone, le mura calcinanti, le torri di Bologna che si stagliano nell'azzurro oltre la finestra, le lenzuola odorose, e, forse, profumate col lieve profumo di lavanda, e quella flebile traccia genera in lui il ricordo di Pica, sua madre. Si crogiola un istante, affondando il capo nel cuscino imbottito di piume.
Piume. Un cuscino.
Realizza, i sensi all'erta.
È disteso in un letto, sorretto da dei cuscini.
La nausea lo ghermisce.
Di scatto artiglia il cuscino, gettandolo a terra con disgusto.
«Levalo.» inveisce a frate Leone. «Levalo, disfatene, brucialo, fanne quello che ti pare, ma io non terrò più il diavolo sotto la testa!»
Sopporta le cure della lunga convalescenza con una specie di rassegnazione. Buono, paziente, ma imbronciato, ingollando di controvoglia il brodo servito da Leone.
«Frate Asino.» brontola ogni tanto. «Poltrone e goloso!»
Medita un bel tiro, a quel Frate Asino indisciplinato, per quando starà un po' meglio.
Francesco che si vendica? Strano, vi sorprenderete voi. Il rapporto con il suo corpo - un corpo che pretendeva di continuare a sfruttare fino allo stremo, fino all'ultimo briciolo di energia, e che lo ripagava, birbante, con acciacchi e febbri insidiose - era l'unico non propriamente idilliaco tra i tanti.
Francesco non conosceva riposo. Procedeva spedito, irrefrenabile, quasi come se un fuoco gli bruciasse dentro, incitandolo a peregrinare senza requie.
Quattro giorno dopo, ripresosi dal malore, Frate Leone bazzica per le vie di Bologna trascinando Francesco con una corda che s'è annodato al collo.
Una penitenza stravagante!
«Guardate.» grida ai passanti, benché preferirebbe astenersi da tanto, ma Francesco si è dimostrato irremovibile. O lo fai o lo fai. «Guardate il ghiottone, che ha mangiato per due e s'e ingrassato con carne di gallina!»
Sarebbe il brodo, come se ingollarne qualche cucchiaiata costituisse questo peccato capitale! Francesco però, dal canto suo, si vergogna d'aver indugiato in quelle piacevolezze quando là fuori, oltre le mura calde, masnade di poveri tremano dal freddo, con lo stomaco brontolante e dilaniato dai crampi della fame.
E lui, che ha scelto di vivere da povero, acconsente a quelle premure?
Ponetevi nella sua ottica: un controsenso alla vita abbracciata.
I bolognesi non ridono. Li occhieggiano commossi, turbati, inteneriti.
Allora Francesco, non avendo riscosso lo scandalo sperato, si leva in piedi, sul bordo d'una fontanella gorgogliante, e si batte il petto, a imitazione d'un penitente.
«Voi mi credere un santo!» ribecca alla gente. «E invece vi confesso di aver mangiato cibi conditi con il lardo, durante questa Quaresima...»
Ma ai suoi peccati non ci crede nessuno. Ne nutrono una grande, profonda e sentita venerazione. Il seme della sua parola e del suo esempio cadeva sulla terra assetata e dovunque egli passava sembrava rifiorisse la primavera in un tripudio di colori.
Tornava la pace, si placavano le liti, e l'amore rinasceva nel cuore degli uomini.
Quando lui e Leone imboccano la via del ritorno, si rivela un ritorno festile, Li accolgono, nelle città, lo acclamano, se la sua fama ha valicato monti e mari, penetrando in quella morsa di mura, in un rintoccar ininterrotto di campane, uno sventolio di palme benedette, un ondeggiar di rami d'ulivi, un delirio di grida.
«Ecco, ecco il Santo! Il Santo! Il Santarello!»
Oppure insulti, sputi, pugni, cazzotti a non finire. Li scambiano per squilibrati, per eretici, per sobillatori dei giovani come loro. Quanto adorava Francesco venire ricevuto in tal maniera! Nessuno li conosceva, la tabula era intonsa.
Poteva plasmarla a suo piacimento.
E, oh, credetemi, coglieva l'occasione giusta.
«L'amore è un uragano di gioia!» schiamazza, esibendosi in prediche esilaranti, comiche, vere e proprie farse all'insegna della sregolatezza. «Lasciate che la gioia di Dio, la gioia dell'amore, vi sommerga, annichilendo tutto il superfluo.» Una sera, in Toscana, saltella su un piede solo, si cimenta in giravolte, intervalla sofisticati termini francesi. Così, al fine di pepare un po' la scena. «Ti sia resa lode, Padre, per aver creato gli stonati, che strimpellano in tuo onore senza curarsi delle opinioni del mondo. Ti ringraziamo, Dio, per averci dato tanti, tantissimi dotti. E grazie per gli ignoranti, che afferrano dove dimori la vera saggezza molto prima dei dotti.»
Era - è, nel presente della mia storia - un artista a tutto tondo.
S'addentrava nella natura, ascoltando i bisbigli del vento, custodendo i segreti degli uccelli, calcando i suoi passi sciancati sulle pietre acuminate e aspre dei sentieri. Pregava con il rombo del tuono, assieme al mugghiare lento delle sorgenti sgorganti limpide e cristalline, in compagnia d'un rigoglio bucolico di papaveri, d'un fruscio di grano, di tappeti di fiordalisi e svolazzi di farfalle, di distese di colture e campi.
Viveva, Francesco.
Io non ero ancora entrata in scena del tutto.
Gli anni passano. I lupi si ammansiscono, le belve si affratellano. Tutte, tranne la più indomabile, tosta e crudele.
L'uomo.
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