V. Vuoto
Jane aveva dormito profondamente. Stringeva ancora la foto dei suoi genitori al petto. I raggi del sole filtravano dalla finestra come petali di narciso e doravano la sua camera da letto. Erano le otto del mattino.
«Sveglia, Jane!»
Alison aprì la porta e la spinse con delicatezza per non farla cigolare, poi si avvicinò al letto della ragazza: i suoi capelli scuri spiccavano sul cuscino candido come i rami di un albero intrecciati tra le nuvole. Appena sentì la voce squillante di Ali, si spostò come per allontanare il suono, affondando il viso sotto le coperte.
«Buongiorno.» Aveva la voce stropicciata dal sonno.
Aprì gli occhi e vide Ali davanti a sé, vicino al suo letto. Improvvisamente le sovvennero i suoi veri genitori, poi in un rapido scatto i suoi nuovi genitori, Alison stessa e Gabriel. Non aveva certo dimenticato di pensare anche all'ombra nera. Ma che cosa era poi? E soprattutto era reale? Poteva essersi spaventata ieri, ma voleva vederla un'altra volta. Voleva capire cosa ci fosse dietro. Tanto per cominciare parla quindi forse può spiegare cosa caspita c'è che non va in quello specchio, oppure perché appare dentro lo specchio e non può essere vista altrove. Quei pensieri si erano riuniti in un turbine che le avvolgeva la testa.
«Tutto bene?» Alison aveva notato gli occhi pensierosi di Jane, fissi sulla toletta che c'è accanto al suo letto.
«Sì, è che quello specchio mi dà un po' i brividi. Sai, sembra che qualcosa mi stia osservando da dentro.»
Almeno stavolta non hai mentito. Ti senti ancora in colpa, vero? Del resto è successo solo ieri.
Jane ripensò alla bugia che aveva detto il giorno prima ad Alison e le venne in mente uno dei suoi amici dell'orfanotrofio. Nessuno ancora sapeva cosa fosse accaduto a Jack Lewis, quindi non era un problema dopo tutto. Che ne poteva sapere lei? Lei voleva solo aiutarlo. Quel suo caro amico che avrebbe voluto confortare con un abbraccio per inserisci delitto che ha commesso la Collins... diamine. Non l'ho chiamata!
Questa sì che è una bella notizia! Ora puoi scoprire che è successo a Jack!
Jane sbiancò al solo pensiero. La signora Collins era davvero potente, sì, così la chiamava Amy. Aveva solo nove anni, eppure certe cose le capiva alla grande. Non era solo potente però: era la strega delle streghe. Quando Jane e i suoi amici erano più piccoli le avevano dato persino un epiteto: la regina delle streghe. Lei conosceva tutti i sortilegi più terribili e le punizioni più dolorose. E commetteva tanti delitti. Delitto era una delle parole nuove che i ragazzi che lei detestava non si sa per quale motivo avevano imparato all'orfanotrofio. Solo pronunciarla emanava un'eco agghiacciante che portava i brividi nei cuori di ogni bambino. Quando la diceva Jack però era diverso: Jack era uno dei più grandi, allora se la diceva lui significava che erano davvero nei guai. Loro lo vedevano come il loro punto di riferimento e si fidavano di lui. Il 13 dicembre 2016, quella data ancora incisa nelle menti di ogni membro del gruppo, Jack aveva usato quella parola.
«Si tratta di un delitto penso, ma non so altro.»
Ecco cosa aveva detto a bassa voce prima di scoppiare in lacrime. E se invece sapesse altro? E se l'avesse persino vista? Ma non importano i dettagli. Doveva chiamare la signora Collins e basta. Jane avrebbe fatto finta di nulla ovviamente, come se fosse una semplice ragazza a cui mancavano gli unici amici che aveva mai avuto. In realtà era così, ma con una sottile differenza: lei voleva anche scoprire cosa fosse successo quella sera di dicembre.
«Ma hai dormito bene, no? Altrimenti sarà stato il letto. È parecchio rumoroso.» Alison mantenne lo sguardo basso. Quel letto era vecchio in ogni caso quindi poteva anche averla tenuta sveglia. Le sue molle scricchiolavano al minimo movimento e avrebbero infastidito anche la persona con il sonno più profondo. Ali pensò che forse mamma e papà avrebbero dovuto comprare un letto nuovo prima dell'arrivo di Jane, ma avrebbero dovuto risparmiare un po'. Il signor Thompson lavorava al supermercato, mentre la signora Thompson in biblioteca. Non erano ricchi, ma neanche poveri ed erano convinti di poter mantenere un'altra figlia. Meglio così comunque. Alison non voleva sostituire il vecchio letto rumoroso perché ci si era affezionata molto. Era lì che aveva pianto da bambina.
«Voglio dormire qui, mamma!» strillava.
«Ma staresti da sola. Perché non vuoi dormire nell'altra stanza invece? Quella vicino alla camera di Gabriel.»
«Io voglio dormire qui! Qui, qui e basta!»
Non voglio stare vicino a lui, mamma. Io non lo sopporto.
Voleva starci lontano il più possibile. Non riusciva a capire il perché da piccola, ma col tempo le venne tutto più naturale. Capì persino che dormire vicino alla sua stanza o giocare insieme a lui erano obblighi e non semplici scelte. Perché doveva imparare a piacerle? Non le era mai piaciuto stare in sua compagnia, tanto meno lui. Gridava ogni volta che sbatteva contro un mobile o cadeva per terra, poi se si trattava di mangiare, sporcava sempre la tovaglia o i suoi vestiti, o i vestiti di Alison. Sembrava che ce l'avesse con lei. Da quando era nato non aveva fatto altro che rovinarle la vita. Tutti davano attenzioni solo a lui perché era il nuovo arrivato, invece lei passava in secondo piano. Cosa aveva fatto di male? Si poneva sempre questa domanda senza mai trovare risposta. Credeva che la odiassero. I suoi genitori, i suoi zii, persino i suoi cugini e amici. Tutti loro. Che cosa poteva avere Gabriel più di lei? Era solo uno sporco moccioso che a dieci anni non sapeva spiccicare parola nemmeno davanti a mamma e papà. In effetti sì, suo fratello, così amato da tutti, non aveva imparato a parlare molto velocemente. Quando aveva due anni le sue parole erano un pasticcio di sillabe incerte e confuse. A tre anni combinava pasticci anche con le mani, oltre che con la bocca. La infastidiva in ogni modo possibile, e piaceva così tanto agli altri!
«Perché, tesoro? Questa stanza è in fondo al corridoio. È al buio ed è così distante!» La risposta della mamma non mutava di una virgola ogni volta che Alison protestava.
«Non m'interessa! Mi piace di più.» E lei metteva il broncio.
«Alison, basta. Torna a letto.»
«E va bene! È proprio quello che farò!»
Alla fine Alison si slanciava verso la porta della sua camera da letto, piena di polvere, e la sbatteva. Quella stanza così buia e fredda era stata il suo riparo da bambina. Un modo per allontanarsi dalla sua famiglia e da chiunque altro. Una specie di bolla. Molto spesso aveva versato lacrime di rabbia e solitudine lì dentro. Anche quel periodo era finito però, dopo qualche anno. L'abitudine l'aveva piegata alle regole dei suoi genitori, infatti una sera si convinse a dormire nella stanza appiccicata a quella di Gabriel.
In quel momento, dopo tanti mesi di grida, ordini e qualche schiaffo, capì che doveva farlo. Ma ormai Gabriel aveva compiuto quindici anni e non le macchiava più il maglione a righe bianche e nere che tanto adorava indossare in inverno. Inizialmente ci aveva fatto l'abitudine, poi quel periodo infernale passò. Nonostante tutto, ormai grande, dormì più spesso in quella stanza buia e lontana. Alison lo faceva per non incontrare suo fratello.
Lo detestava davvero. Le cose cambiarono quando mamma e papà avevano deciso di adottare Jane.
«Sì, ma non è eccessivo. Ogni tanto fa rumore.»
Jane ammise fra sé e sé che quel letto era parecchio rumoroso in realtà: le sue molle cigolavano non appena ti sedevi sopra. Non voleva essere troppo onesta però, perché non aveva la minima intenzione di offenderla. Perché menti di continuo? Non intendeva certo farlo per una brutta ragione.
«Già, dovremmo necessariamente cambiarlo.» Alison le lanciò uno sguardo che diceva non posso farci nulla. Lei però non lo avrebbe cambiato per niente al mondo.
«No, non fa niente, sul serio», disse Jane.
Alison la portò dabbasso a fare colazione, poi, forse per l'energia mattutina o per aver parlato molto con i Thompson, cosa che le diede sicurezza di sé – infatti Jane solitamente cominciava a tremare e le si formava un nodo alla gola quando si trattava di parlare con chi conosceva poco o con chi la intimoriva – decise di chiamare la signora Collins. Si spostò in soggiorno, dove sapeva che sarebbe rimasta sola. Era un sabato grigio e le nuvole coprivano il sole, impedendogli di illuminare gli alberi e le case di Wineville. Jane pensò che presto avrebbe piovuto. I Thompson erano usciti poco dopo la colazione per andare a lavorare, mentre Alison, nonostante avesse un po' ostacolato l'intento di Jane, alla fine l'aveva lasciata in pace. Invece Gabriel si era rinchiuso nella sua stanza per collegarsi online con i suoi amici.
Nel soggiorno c'era un enorme tavolo rotondo che spiccava al centro della stanza, circondato da sedie lucide. Sopra vi era un vaso di fiori che donava un raggio di colore al legno scuro. Un tappeto bordeaux si estendeva lungo il parquet e sopra di esso, si trovava un altro tavolo, un po' più basso e rettangolare. Di solito i Thompson vi appoggiavano il telecomando del televisore o il piatto pieno di pop-corn. Un televisore di medie dimensioni si trovava di fronte ai due tavoli. Ai lati del tavolo basso ci si poteva sedere su ben due divani. Avevano anche un telefono a disco rosso e nero, probabilmente degli anni ottanta, ed era proprio accanto al telecomando.
Jane chiamò la signora Collins con il suo cellulare e rimase in attesa.
«Pronto? Chi parla?» domandò una voce.
«Buongiorno, sono Jane Carey. Vorrei parlare con-»
Subito la segretaria chiamò ad alta voce: «Hanna! Al telefono!»
«Chi è?» Chiese Hanna Collins, precipitandosi nel suo ufficio. Si era appoggiata all'uscio della porta per la fatica: aveva salito le scale con fretta, come se già sapesse chi la stesse chiamando.
«Jane Carey. È la ragazza che hanno adottato proprio ieri pomeriggio.»
Hanna trattenne un sorriso compiaciuto mentre la segretaria le passò il telefono.
«Pronto?» La sua voce fredda la fece irrigidire.
«Salve...signora Collins?»
Improvvisamente tutte le sue sicurezze che si erano formate poco prima si frantumarono.
«Sono io.»
«Volevo chiamarla per dirle che va tutto bene. Mi trovo benissimo nella mia nuova casa, e...ho due nuovi fratelli davvero simpatici e gentili, e i miei nuovi genitori sono–»
«Cosa vi ho sempre detto? Quando vi adottano non dovete chiamarli "nuovi". Sono la vostra famiglia.»
«Sì, mi scusi», rispose lei mortificata, «Comunque va tutto bene.»
«Ne sono felice, piccola.»
Mentre discutevano, si sollevò una baraonda in sottofondo: Jane aveva capito tutto, e non poté fare a meno di sorridere.
«Sono loro?»
«Sì, manchi molto a tutti loro.»
«Posso parlarci un po'? Vorrei tanto salutarli.» La timidezza si impadronì della sua voce.
«Certo, solo cinque minuti però. Abbiamo delle faccende da sbrigare.»
«Grazie mille!»
«Non ti ci abituare.»
Il sorriso le morì in volto, ma non ne rimase tanto sorpresa: al suo comportamento di certo era abituata. Hanna Collins guardò gli amici di Jane con disprezzo e sospirò, ma dopo aver detto che la ragazza aveva chiamato e chiedeva di loro, tacque del tutto.
Jane, come stai? Che stai facendo? Com'è casa tua? E i tuoi genitori? E i tuoi fratelli? Si mangia bene lì? Wineville? Mai sentito questo nome. È lontana da Barkley?
Ognuno di loro faceva domande, quasi lei fosse stata un'importante attrice in un'intervista. Si sentiva a casa, lei che non l'aveva mai avuta.
«Mi mancate tanto.» Fu tutto quello che riuscì a dire dopo aver risposto alle loro curiosità.
«Vorrei che foste tutti qui con me.»
«Anche tu ci manchi», disse con malinconia la piccola Amy.
Che brutto dover dire addio alle persone che ami. Non era il caso di Jane però, perché i ragazzi – non i "Preferiti" di quella strega – le avevano fatto una promessa: ci incontreremo di nuovo prima o poi. L'avevano promesso. Ecco, e immediatamente Jane ebbe la vaga sensazione che niente si sarebbe avverato. Ogni tanto quei piccoli presagi spuntavano nella sua mente per distruggere le sue speranze. Era sempre stato così, ma perché? Forse perché aveva paura di perderli dato che erano lontani da lei? Oppure temeva che l'avrebbero esclusa perché ormai aveva una famiglia? Possibile. Tutto era possibile a quel punto. Le sarebbe bastata solo la certezza di poterli rivedere almeno un'ultima volta.
«Basta così.» Hanna Collins spezzò l'atmosfera allegra della stanza con la sua voce impassibile.
In quel momento Jane si ricordò del 13 dicembre.
«Posso chiamare ogni tanto per tenermi in contatto con loro?» Jane sentì che quello era l'unico modo per raggiungerli ormai.
«Buona giornata, Jane. Ti auguro il meglio, piccola.» Ma la Collins sembrò ignorarla, limitandosi a ripetere le solite frasi che diceva agli orfani adottati da poco.
Jane stava per ripetere la stessa cosa, ma fu interrotta dal telefono: la signora Collins aveva riattaccato.
Che fretta c'è? pensò, mentre sospirava.
Guardò l'orologio appeso al muro: erano le nove in punto.
Ali sembrava essere sparita, eppure poco fa erano state insieme. E poi faceva tanto freddo. Jane giurò di aver sentito il vento sfiorarle il pigiama, gelido come la morte. Però era lento e scorreva come un fiume, quasi impercettibile ma tagliente. Jane fece qualche passo: il pavimento era così soffice che pareva essere coperto di piume. Le sue pantofole non facevano rumore. Quel vento così strano sfiorò la sua pelle e la fece rabbrividire. Dove si trovava? 3760 Bloomfield Way, sempre quello era l'indirizzo. Però le sembrò di trovarsi in un luogo completamente diverso. Osservò le pareti, bianche come le nuvole, poi tornò in cucina, stralunata. Un ronzio colpì le sue orecchie. Le sembrò di vivere un sogno ad occhi aperti.
Chiamò i suoi nuovi fratelli, sperando vivamente in una risposta.
La mia voce!
L'eco risuonò implacabile in tutta la casa, alterando quello stato di equilibrio che sembrava esserci stato da secoli. Quella casa sembrava esserci stata da secoli.
Jane notò le pareti, ora grigie e impolverate, i mobili imbiancati dalle ragnatele, le luci fioche e lampeggianti dei lampadari. Dove diavolo era finita? Stava sudando, con le labbra tremanti. Non riusciva più a parlare, però voleva scoprire cosa ci fosse dietro. Era convinta che, se fosse andata avanti, avrebbe trovato un modo per liberarsi. Liberarsi? E perché mai dovrebbe trattarsi di una prigione? Potrebbe essere la vera casa questa. La casa in cui dovrà vivere almeno per i prossimi due anni. Non era giusto rifiutare quel posto con sdegno, non dopo che i signori Thompson l'avevano ospitata. Certo, non sembrava per niente che quel cottage avrebbe resistito per un altro mese. Cottage? Era una catapecchia! Ma come aveva fatto a vederla diversamente solo ieri? E quando esattamente si era accorta che le cose erano diverse? Dopo la telefonata si suppone. E come mai? La risposta migliore che Jane trovò tra gli scaffali della sua mente fu non ci sono abituata. Ma certo. Lei era abituata a dormire in una grande stanza con almeno altre dieci ragazze, ad essere rimproverata a colpi di scopa o a schiaffi, a piangere sotto il cuscino. Le bastò un pomeriggio in quella nuova casa per capire che la sua vita aveva preso una svolta. Non era abituata, tutto qui.
«Ali, sei qui in giro?» Quando riuscì a riordinare i suoi pensieri, trovò il coraggio di parlare.
Prima o poi doveva pur rispondere qualcuno...giusto?
Ma nessuno rispose. L'unica voce che udiva oltre la sua era l'eco, così monotona ma anche sinistra nella sua immutabilità. Jane pensò che fosse necessario andare da qualche altra parte della casa. Cos'altro poteva fare comunque? Stare ferma non le avrebbe certo permesso di uscire di lì.
Basta con questa prigione! Non c'è nessuna prigione, questa è casa tua.
«Casa tua», ripeté qualcuno, quasi come se avesse letto le ultime righe dei pensieri di Jane.
Il sangue raggelò nelle sue vene e lei rimase impietrita. Sembrava...Alison?
«Sì, sono io. E tu invece chi sei?» continuò quell'essere invisibile.
Finalmente qualcuno, Jane si rincuorò ed ebbe la speranza di ottenere un'altra risposta. La sua voce era vaga e imprecisa come in un sogno ed echeggiava ovunque. Jane la sentì scorrere persino nel suo cuore. Per questo non capì da dove potesse venire.
«Dove sei, Alison?» Si strofinò gli occhi e fece qualche passo in corridoio.
Non udì altro, solo la sua eco.
Perché ogni volta che ci spero davvero tanto non succede?
Realizzò di sentire ancora freddo, ma la paura cominciò a dare spazio alla curiosità. Si trattava di una voce amica, o almeno così sperava. Ad ogni modo la rassicurò, come se fosse tutto a posto. Almeno così le sembrava.
Jane avanzava con gli occhi attenti, ma quando poggiò il piede sul parquet vicino alla stanza da letto di Alison, questo si piegò in avanti e la fece scivolare. Non cadde sul pavimento però. Cadde nel vuoto. I mobili erano scomparsi, e insieme a quelli le foto di famiglia incorniciate e appese al muro, i lampadari, il tappeto, le porte delle stanze, tutto. Galleggiava nell'aria, poi in fondo al mare, in un abisso senza fine. Il battito del cuore accelerò bruscamente, la testa le pulsava. Cosa stava succedendo? Dove poteva mai essere? Per lo spavento volle gridare, ma era come se tutta la sua voce fosse inghiottita dal vuoto, dal buio. Si sentì fuori dalla sua realtà. Fuori dal mondo.
Poi si ritrovò davanti gli occhi di Alison, azzurri come un cielo sereno al mattino.
«Jane, cosa fai?»
Era caduta davvero, ma... le stanze, il tappeto pulito, le luci accecanti, le foto di famiglia in ordine, i mobili lucidi...
Tutto era tornato come prima.
Jane si strofinò gli occhi per assicurarsi che fosse tutto vero, poi li spalancò.
«Ehi, che è successo?» continuava a chiederle Alison, scuotendola dalle spalle.
«Niente», rispose di scatto Jane, non trovando le parole.
«Non sembrerebbe.» Il suo sguardo era molto preoccupato. «Sei caduta.»
«Sono inciampata. Deve essere stato il tappeto.»
«Quello è in soggiorno, non qui.» Sorrise Ali divertita.
«Sì... certo.» Il cuore minacciava di uscire dal petto. «Intendevo dire il pavimento. C'è una tegola fuori posto proprio...» Si voltò per mostrarle il punto in cui era inciampata ma non riuscì a trovarlo; le parole le morirono in bocca per lo spavento.
«Come?»
«Niente, scusa. Pensavo che qui il pavimento fosse rotto, ma evidentemente mi sbagliavo.»
«Già, infatti è tutto in ordine.»
Decise a questo punto di cambiare argomento: «Torno a studiare. Non è una cosa molto eccitante da fare di sabato, ma purtroppo ho un'interrogazione lunedì.» Sbuffò.
«Sì, certo. Vai pure», le rispose, non facendo effettivamente caso alle sue parole. Il suo sguardo era ancora fisso sul punto in cui era convinta di essere caduta.
Quel vento sinistro che spirava solo qualche minuto fa si era spento. Il freddo era passato. Ma quella voce...di chi poteva essere? Era davvero Alison? E se invece non fosse stata lei? O magari era stata solo la sua immaginazione. Non c'era mai stato nessuno. Tutto un sogno ad occhi aperti.
Nel frattempo Gabriel aprì con forza la porta della sua stanza e si precipitò dalle ragazze.
«State bene? Ti ho sentita urlare.»
Jane rabbrividì quando capì che si stava rivolgendo a lei.
«Sono solo inciampata. Non è niente.» Sorrise, come per non farlo preoccupare.
«Gabe, torna a giocare. Siamo un po' impegnate e non vogliamo avere tra i piedi un ficcanaso come te», sbottò Alison.
«Agli ordini, vostra altezza!» disse Gabriel abbassando il tono della sua voce. In realtà stava cercando di mascherare la sua paura. Ogni volta che mamma e papà andavano via Alison aveva carta bianca per rovinare la sua esistenza. Fu più che grato che ci fosse Jane con loro. Poteva essere una potenziale testimone nel caso in cui sua sorella avesse tentato di farlo fuori, dunque era un buon modo per impedirglielo.
Jane capì lo scherzo e si mise a ridere, ma Ali non lo fece affatto, anzi, quelle labbra rosse arricciate in una smorfia di disgusto spezzarono il sorriso del ragazzo.
«Comunque», si schiarì la voce Ali, «Jane, lunedì io e mio fratello andiamo a scuola. Tu vieni con noi, non è vero?»
«Sì, anche se... insomma, non ho mai studiato in una vera scuola.»
«Magari possiamo incontrarci all'ora di pranzo», le propose.
Gabriel era rimasto lì a guardarle, immaginando come potesse essere vedere Jane tra i corridoi, agli armadietti, anche solo per salutarla. Ali cominciò a fissarlo con occhi indagatori: scrutò le sue forme e i suoi gesti, cercando di capire cosa cercasse di nascondere, ma non ci riuscì.
«Come si chiama la scuola qui?» chiese Jane.
Lei si voltò per guardarla e le rivolse un brillante sorriso.
«Wineville High School.» Gabe e Ali risposero insieme.
Quando poi se ne andarono entrambi, Jane ebbe un po' di spazio per sé stessa. Esplorò meglio la casa: nel soggiorno c'erano due porte scorrevoli in legno: entrambe portavano in un lungo corridoio dove si trovavano la cucina, un bagno, lo studio dei Thompson, munito di libri, lettere e macchina da scrivere, poi delle scale un po' ripide per salire al piano superiore: lì c'erano le stanze da letto, il ripostiglio, così piccolo da far venire la claustrofobia, e più avanti un altro bagno. In cucina c'era una porta finestra che portava al giardino. Il giardino circondava tutta la casa, era pieno di piante, fiori e c'erano persino uno stagno e un divano ad altalena.
Spesso Jane si perdeva ad osservare i quadri appesi in corridoio: cornice dorata, in legno intarsiato, in plastica. Rappresentavano luoghi quasi incantati, con laghi di un azzurro misterioso, fiori di colori mai visti, alberi altissimi. Le sembrava persino di entrarci in quei quadretti così precisi e perfetti, e di scoprire un mondo nuovo, estraneo alla sua realtà. E mentre girava per la casa dei Thompson, Jane sentiva che la realtà che aveva sempre conosciuto era svanita in un soffio. Sentiva l'aria appesantirsi e la luce affievolirsi continuamente fino a spegnersi e a ritrovarsi nel buio più totale. Era come se le cose non andassero bene come pensava, come se, nonostante i Thompson l'avessero accettata come figlia, la vedessero come un'estranea.
Non è proprio così.
Quella voce...chi poteva mai essere? Possibile che la sentisse solo lei? Per un secondo pensò di chiedere spiegazioni ai Thompson quando sarebbero tornati a casa, ma poi cambiò idea. E se l'avessero considerata pazza? Oppure li avrebbe spaventati. Forse Alison le sembrava un po' diversa. Forse era proprio lei che le stava facendo uno scherzo. Sicuramente! Gabriel invece non sembrava coinvolto. Ma tutto questo rimaneva nei suoi pensieri. Erano solo vaghe supposizioni. Passerà, pensò scrollando le spalle. È questione di tempo.
*Nota dell'autrice*
Ciao, ragazz*! Come state? Spero che vada tutto bene. Perché secondo voi Jane ha avuto quella "caduta" nel vuoto? Ha a che fare con gli scheletri nell'armadio della casa oppure è stata quell'ombra dagli occhi azzurri di cui abbiamo tanto parlato? O forse sono entrambe? Vedrete che a poco a poco tutto si spiegherà. :) Spero che vi stia piacendo la mia storia. Vi ricordo che se vi va potete commentare per farmi sapere le vostre prospettive a riguardo. Ci vediamo al prossimo capitolo!
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