III. Occhi azzurri

Sperava davvero di vedere quella cosa nera perché era dannatamente curiosa. Inoltre Alison non era in giro. Non più, finalmente. I suoi occhi si concentrarono sullo specchio, sulla sua forma ellittica, la sua chiarezza. Di sera le sembrò nuovo di zecca, come se la sua nuova famiglia l'avesse comprato per il suo arrivo. Cominciò a pensare a loro tre e immediatamente la sua attenzione si spostò sul membro più interessante della sua famiglia. Gabriel Thompson. Pensò al suo comportamento a cena: rideva, la faceva ridere, le sorrideva come se la conoscesse da sempre. È dolce da parte sua, ma inaspettato.

All'inizio l'aveva ignorata dopo tutto. Perché? Si era posta quella domanda già molte volte quel giorno. Perché? E perché aveva cambiato atteggiamento così velocemente? Prima è stato maleducato, come aveva detto Alison, poi, quando i tre ragazzi erano insieme, lui si era divertito e aveva riso molto fino a quando lei ha fatto cadere il bicchiere. Dopo ha cominciato a spaventarsi per un motivo sconosciuto, ed era freddo. Infine, a cena, è cambiato completamente: sorrideva e scherzava come se non fosse successo nulla. Perché? Non lo sapeva – lo trovava il più interessante della famiglia per questo dopo tutto. Perché non lo conosceva e si nascondeva dietro un sorriso.

Lui è così diverso, ammise dopo averci riflettuto un po'.

Diverso dai suoi genitori, che sembravano persone semplici in confronto. Diverso da Alison, che non era semplice come i signori Thompson, perché anche lei era abbastanza interessante. No, non è la parola giusta. Misteriosa, esattamente. Gabriel era interessante, Alison era misteriosa. Lei era la versione oscura di interessante.

L'ombra nera!

La vide sullo specchio, dietro al suo letto. Riusciva solo a vedere il nero dell'ombra, non distinguendo le sue caratteristiche. Doveva aspettare che i suoi occhi si abituassero al buio della stanza. Quella figura...poteva vederla muoversi, contorcere quelle che sembravano essere due braccia sottili come serpenti. Vide il buio farsi più definito e dettagliato. Non c'era solo nero. La forma di un volto, occhi blu. Quegli occhi azzurri che perforavano l'oscurità e brillavano su quel viso cupo. Erano brillanti, come i piccoli zaffiri incastonati sugli orecchini d'oro della Collins, i suoi tesorini. Gli occhi di quel nonsocosa fissavano Jane. Non avevano pupille e sembravano duri e freddi come il ghiaccio.

Ma è un mostro?  si chiese; un mostro nero dagli occhi azzurri.

Era sul pavimento. Le sue mani stringevano le coperte del letto.

«Aiutami», sussurrò l'essere.

Aiutarti? Perché? Smettila, Jane. Pensa ad ascoltare.

«Aiutami, ti prego.» Implorò con mani tremanti.

«Cosa vuoi?» Jane sussurrò per non farsi sentire dalla sua nuova famiglia.

Non era sicura di cosa si potesse trattare. Come avrebbe potuto parlargliene? E se fosse un essere vivente che viene da un'altra dimensione? Potrebbe esserlo, certo. E se volesse ucciderci? Impossibile. No, non avrebbe chiesto aiuto altrimenti. Se volessi uccidere qualcuno non chiederei aiuto a quella stessa persona. Ma perché vorrebbe aiuto? Non lo so, ma io lo vorrei per capire cosa diavolo sei.

«Vita.» La cosa nera aveva appena aperto la bocca.

C'era nero puro dentro quella bocca, come un pozzo senza fine. Sembrava che il mostro avesse difficoltà a parlare, come se stesse per sparire.

«Cosa vuoi dire? Non capisco.» Solo un respiro separava Jane dallo specchio.

Si accorse che si era avvicinata a causa della lieve spinta. Riusciva ancora a percepirla, tra l'altro, ma non era leggera. Era più forte e Jane dovette sforzarsi per vincerla. Quella strana forza voleva condurla allo specchio anche se lei vi era quasi incollata. Ma poi ricordò che ascoltare le parole di quello strano essere era più importante e decise di occuparsi della spinta dopo, almeno mentre era possibile contrastarla.

«Come posso aiutarti?» chiese a voce alta.

Jane vide dei frammenti neri che abbandonavano il corpo del mostro per dissolversi nell'aria. Guardò ogni singolo pezzo sciogliersi come ghiaccio di fronte al fuoco. Rimase ipnotizzata da quella visione – è reale? Ripeteva a sé stessa.

Quando il mostro nero dagli occhi azzurri si smaterializzò completamente, Jane si voltò. Niente. Era come se non fosse accaduto nulla, come se quel mostro non fosse mai apparso. Sembrò quasi che il buio si stesse rischiarando. Ma quando Jane si girò nuovamente verso lo specchio...

Occhi blu!

L'ombra era in piedi davanti a lei. Era dentro lo specchio per fortuna. Aprì la sua bocca, poi la chiuse.

toc

La aprì un'altra volta, muovendo i muscoli facciali e la lingua.

toc

Stava...parlando? Ma Jane non riusciva a sentire.

Sembrava che stesse chiedendo aiuto con quelle lacrime che si formavano nei suoi occhi blu, o almeno lei ipotizzò che fossero lacrime. Erano a forma di sfera, luminose, di un colore bianco argenteo. Sembravano perle. Starà piangendo? E se è così, perché?

Jane concentrò lo sguardo sulla bocca dell'essere, osservando attentamente i movimenti delle sue labbra e della lingua. Finalmente riuscì a capire qualcosa.

«Aiutami. Riportami in vita», disse alla fine. Anzi no. Stava balbettando.

«Come?» Toccò disperatamente lo specchio, cercando di raggiungere l'ombra nera ma fu tutto inutile.

Jane stava sudando. I brividi l'avevano invasa e la scuotevano senza tregua. Era terrorizzata, ma voleva aiutare quello strano essere che chissà come l'aveva raggiunta e comunicava con lei.

«Jane, va tutto bene?» Alison aveva appena aperto la porta.

Jane la guardò per un attimo, ma quando si voltò verso lo specchio la cosa era sparita.

«Sì, certo. Perché?» Si voltò verso di lei e nascose le sue mani dietro la schiena, non riuscendo a tenerle ferme. Era davvero sconvolta e la paura stava prendendo il controllo della sua mente.

Sto sudando? Non voleva che Alison la vedesse in quello stato, quindi finse un sorriso per dare l'impressione di stare bene. Sto bene comunque, pensò, ma non credette ai suoi stessi pensieri. No, non stava bene. Era terrorizzata. Le domande nella sua testa erano innumerevoli ormai, come uno sciame d'api nell'alveare.

«Parlavi da sola?» Alison arrivò al punto. Sembrava infastidita; forse Gabriel aveva fatto qualcosa?

«Hai sentito tutto?»

Mi ha sentita? Cavolo, mi ha davvero sentita? Cosa le dico adesso?

«No. Ecco, ti ho sentita parlare ma non ho capito le parole.»

Jane sospirò sollevata e si accorse che aveva trattenuto il respiro da quando aveva visto il mostro nero. Di nuovo.

«Stavo parlando con la direttrice dell'orfanotrofio. Mi ha dato il suo numero così può comunicare con noi. Sai, tiene molto a ognuno di noi.» Si spostò una ciocca di capelli dal volto e si accorse che la sua mano stava ancora tremando.

È una bella bugia, signorina Carey. Era quello che la signora Collins le diceva quando Jane le assicurava di non aver aperto il frigo, e poi avrebbe usato la sua arma.

Stavolta ho mentito sul serio.

Si sentì un po' in colpa ma non poteva farci niente. Non avrebbe mai potuto dirle di aver visto un'ombra che le chiedeva di darle la vita nello specchio. Per prima cosa, non l'avrebbe mai creduta; secondo, avrebbe pensato che fosse pazza. Meglio evitare, meglio evitare. E poi, non voleva che Ali si preoccupasse. Avrebbe gestito la situazione da sola. Invece, riguardo la cosa del numero di telefono? Improvvisamente si sentì doppiamente colpevole. Così può comunicare con noi, molto intelligente. Jane avrebbe voluto dirle la verità in merito a quella cosa ma non sapeva come.

«So che domani ti porteranno via da me», le aveva detto la signora Collins la sera prima, accarezzandole i capelli con le sue mani schifose, «ma so come possiamo restare in contatto.» Sorrise compiaciuta mentre le porse un foglietto di carta. «È il mio numero di telefono. Quando mi chiami risponderò dal mio ufficio. Il cellulare che ti ho dato lo puoi tenere.»

Non ti chiamerò mai, aveva pensato Jane con sdegno.

Era felice di sentire che avrebbe lasciato quel posto terribile. Era davvero una bella notizia per lei. Figuriamoci se avrebbe avuto intenzione di chiamare la persona da cui tutto era cominciato. Manco per sogno.

«Promettimi che mi chiamerai», aveva detto con occhi speranzosi, stringendole le mani.

«Lo prometto.»

Una vera promessa si mantiene con i fatti, non con le parole.

Ma Jane sapeva che bastavano le parole per convincerla. Con un sorriso diventava anche più efficace. Lei continuava a pensarlo senza rimorsi o paure: non se ne sarebbe mai accorta dopo tutto... la signora Collins era una donna intelligente e attenta, ma non sempre. A volte si distraeva e potevi persino rubare una caramella dallo scaffale più alto del suo ufficio senza che lei se ne accorgesse. Il tipo di tesoro che meritavano solo i bambini più buoni. I "Preferiti", in altre parole. Dato che Jane non faceva affatto parte di quel gruppetto, la Collins non poteva assolutamente affezionarsi a lei, né volerle bene in alcun modo. Di conseguenza, come avrebbe potuto importarle che lei la chiamasse? Forse, quando era partita per Wineville alcune ore prima, se l'era già dimenticato mentre preparava i biscotti al cioccolato che ai suoi Preferiti piacevano tanto. Non poteva avere a cuore proprio lei. Se così fosse stato, l'avrebbe trattata diversamente. L'avrebbe trattata almeno decentemente.

Esatto! Ma è anche per questo! Per questo non avrebbe voluto che la chiamasse. E poi, aveva tanto altro a cui pensare durante le sue giornate, per esempio come vizierò oggi i miei piccolini? Li porto a comprare dei nuovi vestiti? Oppure offro loro dei dolci buoni per premiarli del loro comportamento impeccabile? Oppure posso farli uscire a prendere un bel gelato! Oppure... erano tanti, ma davvero tanti, i privilegi dei Preferiti. Ma quindi erano ben tre i motivi per cui non c'era da preoccuparsi se Jane non avesse chiamato la strega: 1. A volte si distraeva; 2. Jane non era tra i suoi Preferiti; 3. La maltrattava continuamente. Ecco qua! E avrebbe potuto continuare ad elencarne altri ancora se avesse evidenziato come lei adorasse Emily, John, Vera e Liz. Avrebbe potuto dire che Liz era più carina di lei, quindi si poteva permettere i vestiti più eleganti; che John faceva più attenzione di lei alla propria salute quindi si meritava torte, cioccolato e biscotti proprio perché non ne mangiava quasi mai; che Emily aveva dei capelli più morbidi e curati dei suoi quindi poteva farsi fare tutte le acconciature che desiderava; che Vera lucidava le sue scarpine nere tutti i giorni a differenza sua, allora si meritava un nuovo paio di scarpe ogni settimana. Con tutti questi motivi, la Collins non poteva ricordarsi di lei, tanto meno che dovesse chiamarla. La odiava s'intende. Perché avrebbe dovuto preoccuparsi se lei non le avesse fatto uno squillo? Aspetta un attimo! E se la Collins in persona venisse a Wineville? Ad ogni modo, è risaputo che ogni ragazzo che viene assegnato a una famiglia adottiva deve chiamarla una volta ogni tanto. Jane non voleva farlo però.

Ricordi cosa ti disse Jack quando era stato adottato e non aveva chiamato la Collins al telefono? Ma sì certo, come dimenticarlo...

«Chiamate la strega quando una famiglia vi adotta! E non chiedetemi altro!» Jack Lewis aveva così avvertito gli altri.

«Perché?» gli aveva chiesto.

«Te l'ho detto! Non vi dirò perché! Non mi fate domande.» Aveva gridato più forte come per farla tacere, non perché non la rispettasse ovviamente, ma perché era sconvolto.

In realtà, in quel modo lui stava cercando di zittire i suoi pensieri, che lo tormentavano come ostinati fantasmi giorno e notte. Quel giorno Jack Lewis era tornato all'orfanotrofio.

Joe, Amy, Billy e Amber lo guardavano a bocca aperta. Jane, pur essendo intimorita dalle sue parole, voleva scoprire più di ogni altro di cosa si trattasse. In quel periodo aveva undici anni, ma se lo ricordava bene. Ricordava le grida di Jack e come i suoi amici cercassero di calmarlo con dei teneri abbracci. Ricordava che Amber aveva avvicinato l'indice alle labbra per poi pronunciare un sonoro shh: nessuno doveva sentirli. Le lacrime di Jack. La stessa signora Collins che era entrata nella stanza da letto dei ragazzini per rimproverarli: alle undici di sera si dorme! E menomale che non aveva sentito di cosa stessero parlando. Jane ricordava il terrore nei suoi occhi scuri come la notte.

Cosa aveva fatto lei comunque?

«Non volete sapere cosa è successo.» Sospirò Jack, guardando in basso per la vergogna.

Sì, era un ragazzo molto sincero e disponibile ma quando si trattava della strega si ammutoliva del tutto. Da quel giorno. 13 dicembre 2016. Jack non l'avrebbe mai dimenticato. Il suo dolore fu così immenso da quel giorno che decise di non essere più adottato, ma era un'esagerazione. Bastò passare un'altra settimana in quell'inferno terrestre con la strega per fargli cambiare idea. L'avvertimento di Jack Lewis fu molto importante per tutti loro. Nessuno dimenticò le sue parole. Anzi, Amy, una dei più piccoli, ne era rimasta così segnata che ogni tanto chiedeva a qualche membro del gruppo di spiegarle meglio il discorso, come se non l'avesse compreso a fondo.

«Ecco cosa aveva detto: non volete sapere cosa è successo. Che vuol dire?» aveva sussurrato a Jane mentre tutti erano andati a dormire.

Nel letto, a luci spente, Jane le aveva risposto: «Non ne ho idea ma non suona affatto bene.»

Non ne aveva idea quattro anni fa e non lo sapeva neanche ora.

Jack era uno dei più grandi tra di loro; aveva diciotto anni precisamente. Nessuno sapeva cosa gli fosse successo, nemmeno la sua migliore amica Vera.

Qualunque cosa sia, lui era spaventato, come me e come Gabriel. Devo chiamare la signora Collins.

«Resterai con noi, vero?» Gli occhi blu di Alison si riempirono di paura.

Pensò che la direttrice dell'orfanotrofio volesse già portarla via. Potrebbe essere? Si chiese Alison. Non sapeva come funzionassero le cose lì, ma non voleva per nessun motivo che Jane se ne andasse.

«Certo che sì!» Jane riuscì finalmente a vincere i tremiti che avevano preso il controllo delle sue mani. «Voleva solo sapere se sto bene e che ne penso della mia nuova casa.»

«E cosa ne pensi?» Ali sorrise, ma stava soffocando una risata.

«È il mio primo giorno ma mi piace stare qui.»

«Davvero? Ti piace Gabe?»

«Non sto parlando di lui. Intendevo dire che la casa è un po' vecchia ma la adoro. I tuoi genitori sono molto simpatici e–»

«I nostri genitori.» Sorrise ancora. «Voglio che tu ti senta a casa.»

«Lo so, scusa.» Jane si inumidì le labbra. «E...e tu sei molto simpatica.» le sorrise di rimando.

«E cosa ne dici di nostro fratello?»

«Anche lui è carino. A proposito, come sta? È andato a dormire?»

Ali sussultò sorpresa. Come poteva Gabriel rubarle le persone a cui teneva in meno di ventiquattro ore? Lo odiava. Perché poi piace così tanto a tutti? È uno stupido ragazzino!

Jane notò il volto di Alison arrossarsi di colpo, ma non le disse nulla per non metterla in imbarazzo.

«Credo si stia lavando i denti.» Che si fotta! Pensò con rabbia Alison mentre un enorme sorriso brillava sul suo volto.

«Sta bene?»

Perché t'importa così tanto? le avrebbe voluto chiedere Alison.

«Sì, sta bene.» Alison continuava a sorridere.

Quel sorriso era rosso e sottile come un rivolo di sangue. Era finto, gelido, atroce. In quell'attimo Jane pensò che Alison si fosse trasformata in una bambola di ceramica, così immobile e dallo sguardo di pietra. Ma davvero, perché a Jane importava così tanto? Pensava che forse lui potrebbe aver visto lo stesso mostro, mentre Alison no. Ma se invece anche lei l'avesse visto? Poteva pure essere. Aveva uno sguardo un po' turbato in effetti. I suoi occhi limpidi come uno specchio d'acqua guizzavano qua e là senza posa e le palpebre si serravano di colpo per poi riaprirsi e rivelare una profonda stanchezza. Le sopracciglia erano chiare e rade e si avvicinavano di scatto agli occhi, come per permetterle di mettere meglio a fuoco l'obiettivo. Quell'obiettivo variava continuamente: l'inquieto viso di Jane, le sue mani tenere e spaventate, il suo collo sudato che brillava sotto la tiepida luce della lampada, una foto sul comodino. Quando Jane si accorse che Alison aveva lo sguardo fisso su di essa, decise di distrarla; non si sentiva ancora pronta a parlargliene, anche se lei stessa ne sapeva poco.

«Che dici? Andiamo a dormire? Sono così stanca», le disse con un tono quasi supplichevole.

Alison non rispose, lo sguardo ancora incollato sulla foto. Dopo però capì. Potevano essere i suoi genitori? O forse altri parenti? O forse è solo lei con un suo amico dell'orfanotrofio. Non è molto facile distinguere i volti da lontano.

«Sì, hai ragione. Anch'io ho sonno. Ti lascio in pace», disse lei, poi la abbracciò e uscì dalla stanza.

Non appena fu sola, Jane spense le luci e si infilò sotto le coperte, senza badare allo specchio della toletta. Si sentiva a disagio, ma erano le molle del letto che cigolavano come scariche elettriche oppure l'immagine dei suoi genitori perché avrebbe tanto voluto incontrarli?

Avrà capito che quelli lì sono i miei genitori?

Come per avere una risposta, prese in mano la foto e se la strinse al petto: aveva una cornice bianca ed era rotonda. Quali sono i loro nomi? Shay e Michael Carey, ricordò a sé stessa. Quella immagine le mostrava un momento felice della loro vita: appena sposati, si leggeva sopra. Lei indossava un abito in pizzo bianco e lungo e un velo trasparente che copriva i suoi lunghi capelli biondi e giungeva fino al suo petto. Sembrava davvero felice mentre teneva un bouquet pieno di rose, girasoli e margherite. Lui invece era l'opposto perché era vestito completamente di nero: giacca, camicia e pantaloni. Il vento aveva scombinato i suoi capelli castani. Si tenevano per mano e sorridevano di gioia. Shay e Michael. Volevano così tanto dei figli e quando hanno avuto Jane l'hanno perduta. Non passò nemmeno un mese o una settimana, o un giorno. Gliel'avevano strappata dopo la sua nascita come se fosse stata un debole fiore.

*Nota della scrittrice*
Ciao a tutti! Vi ringrazio per aver seguito la mia storia fino ad ora! Spero che vi stia piacendo. Fatemi sapere cosa ne pensate con una stellina e un commento!

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top