II. La macchia sullo specchio

Si stava facendo buio e Jane era rimasta da sola nella sua stanza. Aveva già messo una foto dei suoi genitori sul comodino. Pensava che potesse essere l'unico modo per raggiungerli dato che era l'unica immagine che aveva di loro. La prese e la ammirò per un attimo, immaginando come sarebbe la sua vita se li avesse conosciuti. Non era la prima volta che lo faceva: quella foto gliel'aveva regalata il suo dottore a nove anni. In realtà, i suoi stessi genitori avevano voluto che il dottore gliela facesse avere in modo tale che lei potesse almeno sapere che aspetto avessero. Oltre l'aspetto fisico conosceva i loro nomi: Shay e Michael Carey.

Chi siete? In quale parte del mondo siete?

Toc

Un insolito rumore fece volare via i suoi pensieri.

Era come se qualcuno stesse bussando, ma non era la porta. Poi di nuovo...

Toc

Proveniva dallo specchio della toletta. Jane poggiò la foto dei suoi genitori sul comodino per avvicinarsi al misterioso toc. Quando si trovò di fronte allo specchio, il rumore cessò. All'improvviso un'ondata di dolore le attraversò la parte posteriore della testa, come se qualcosa cercasse di spingerla contro lo specchio. Ma era un dolore leggero. Cercando di ignorarlo, si concentrò sulla superficie riflettente, osservando con attenzione ogni lato: due o tre macchie ai margini, qualche lieve crepa e l'impronta di un piccolo dito proprio al centro. La sua stanza vi era riflessa, solo con delle piccole imperfezioni: le soffici coperte blu del letto, il cuscino lievemente ingiallito, il comodino, la lampada che emanava una luce fioca e l'armadio in cui la signora Thompson aveva appena riposto i suoi vestiti. Osservando profondamente la superficie lucida dello specchio, vide un'altra macchia più scura delle altre. Strofinò l'indice sopra, come per pulirla, ma notò che si fece più grande. Si avvicinò per guardarla meglio, e strofinò ancora. Ma quella continuava ad ingrandirsi.

Era apparsa una figura nera all'interno. Era lontana da lei, dietro il suo letto. Jane, invece, si trovava al lato opposto del letto, accanto al comodino.

Non può essere reale.

Era convinta che si trattasse di uno stupido scherzo prodotto dalla sua mente. In fondo, si stava annoiando. Era da sola. Tra poco si sarebbe fatta l'ora di cena. Presto sarebbe dovuta andare a dormire. Lei voleva stare con la sua nuova famiglia. Le sembrava molto simpatica e amichevole. Però quella figura aveva cominciato a muoversi. Sarà reale allora? Il suo collo, le sue braccia, le gambe... si stava davvero muovendo. Sentì dei brividi percorrerle la schiena ma si rifiutò di distogliere lo sguardo. L'avrebbe voluto fare però non se lo poteva permettere: doveva sapere di cosa si trattasse a tutti i costi. Voleva vedere di più. Aveva persino dimenticato quella lieve spinta che ancora la attirava verso lo specchio. Jane la guardò meglio, cercando di mettere a fuoco il più possibile per distinguere il suo volto – se lo aveva – e le sue membra. Sembrava avere dei capelli lunghi fino alle spalle e poteva essere alta più o meno quanto lei. La sua figura era snella e slanciata. Per quanto si sforzasse, non riusciva a distinguere più di questo. Non ne discerneva il volto. Appena si avvicinò di più allo specchio, quasi sfiorandolo con la punta del naso, la figura nera cominciò a sparire, pezzo per pezzo, fino a quando si smaterializzò completamente. Anche la spinta scomparve.

«Ehi, Jane!» La voce di Alison volò fino alla sua stanza dal piano di sotto. Stava salendo le scale.

Però Jane era rimasta con lo sguardo fisso sullo specchio, osservando il suo letto per vedere se riusciva a scorgere nuovamente quell'ombra; gli occhi erano quasi attratti da una forza superiore.

«Va tutto bene?» Alison si avvicinò a lei a passi lenti, quasi riluttanti, mentre lei stava ancora guardando profondamente nello specchio.

«Jane!» la chiamò, già spazientita.

«Cosa?» La sua voce era calma, benché il suo cuore minacciasse di uscire dal petto.

Jane si girò di scatto verso la ragazza bionda, cercando di apparire tranquilla, ma il suo respiro era troppo pesante. Si era accorta di averlo trattenuto per tutto il tempo. Sperava con tutta sé stessa che Alison non l'avrebbe notato.

«Perché guardi in quel modo lo specchio?» Alison aveva gli occhi sbarrati.

«In realtà non è niente. Pensavo ci fosse un insetto sopra ma a quanto pare era solo una macchia.» Una risata nervosa accompagnò la bugia, che le era venuta fuori in modo così naturale che lei stessa si era impressionata.

L'aveva detta con tale disinvoltura, senza balbettare. Sicuramente Alison ci avrà creduto.

Infatti, non solo l'aveva esposta con spontaneità e chiarezza, ma era riuscita a renderla più convincente senza esitazioni, con sicurezza. Ma la ragazza di fronte a lei, pur avendo imparato il suo nome da poco, stava già cominciando a credere che Jane fosse pazza. No, magari non proprio del tutto, ma solo un po' toccata. Non aveva mai visto qualcuno osservare con tutta quella attenzione e accuratezza uno specchio che ormai aveva raggiunto i dieci anni. Pazza. Odiava le persone così, non quelle affette da disturbi mentali però. Lei si riferiva alle persone felici, che non si curano dei giudizi e degli affari degli altri. Quelle che vivono la loro vita con libertà e vanno sempre d'accordo con tutti. Quelle che sono curiose di scoprire le bellezze del mondo, che si divertono. Quelle come Gabriel. Quel tipo di persone che le rubavano sempre i genitori e gli amici. Non può esserlo, pensò dopo qualche minuto di riflessione. Jane sembra diversa: forse è quel tipo diverso di pazza, il tipo di quando pianifichi la morte del tuo fratellino o quando vedi cose strane nello specchio.

«Sei sicura?» Alison era non poco irritata, perché si era resa conto che Jane non stesse dicendo la verità. Stava tremando.

«Sì, certo.» Jane continuò a mentire mentre si sforzava di mantenere uno sguardo pacato e sereno. Aveva perso il sorriso.

«Oh, adesso che ci penso», cercò di cambiare discorso, «Non credo che tu abbia incontrato Gabriel. Sai, lui è un po' timido, soprattutto con le persone che non conosce.» scrollò le spalle.

Gabriel? Un altro figlio?

«Credevo fossi figlia unica.» La sua voce rimase stabile, ma i suoi occhi si erano spalancati per la sorpresa.

«Già, lo dicono tutti. Mi scuso per il suo comportamento.» Le rivolse un sorriso sarcastico.

«Chi lo dice?»

«Ragazzini come te!» Alison rise di gusto, ma quelle note erano in realtà amare e malevole.

Tuttavia, Jane non lo trovò affatto strano, convinta che Alison stesse scherzando. Nemmeno si era soffermata su quella risata così cupa.

«Allora dov'è?» le chiese dopo qualche minuto di silenzio.

«È nella sua stanza. Passa davvero troppo tempo lì.» Scrollò le spalle, rassegnata, "Vieni con me."

Appena Ali se ne andò, Jane guardò dentro lo specchio un'altra volta, sperando di poter rivedere quella figura nera, ma non c'era più. È sparita. Smettila.

«Jane?» La voce acuta di Alison risuonò nel corridoio, «Che fai, vieni?»

Ali aprì la porta, che aveva stampata sopra una scritta che fece stranire Jane: State fuori a meno che non abbiate il permesso di entrare. La sua stanza era piena di poster delle sue rock band preferite; c'era una libreria che conteneva tutti i fumetti che più gli piacevano, un letto dalle coperte rosse e blu e il cuscino bianco per richiamare la bandiera americana, e un armadio con specchio.

Quando entrarono, lui indossava un paio di cuffie rosse mentre giocava a Venerdì 13 sulla Nintendo Switch. Non aveva la più pallida idea che la sua nuova sorella fosse arrivata. Non lo sapeva, tanto meno gli interessava. Perché avrebbe dovuto comunque? La sua vera sorella lo torturava da tutta la sua vita. Jane poteva essere anche peggio. Era un'altra ragazza, dopo tutto.

Quando aveva sette anni, Ali non lo lasciava mai da solo: lo spiava ogni volta che invitava i suoi compagni di scuola, quando leggeva Gli incredibili X-men – il suo fumetto preferito –, persino quando dormiva. Gabriel aveva paura di lei. Alla fine nessuno dei suoi amici volle più venire a casa sua, mentre lui finì per avere l'insonnia. A dieci anni, Alison provò a fargli di peggio. Era una notte pacifica e limpida e i Thompson erano andati a dormire. Verso le due, Gabriel aveva gridato a pieni polmoni. Presto la sua gola si era irritata per lo sforzo. Ali aveva visto mamma e papà correre verso la sua stanza.

«Che è successo, tesoro?» aveva chiesto la mamma.

Ali non riuscì ad afferrare tutto quello che si erano detti poco dopo, ma aveva capito che il suo povero tenero caro fratellino aveva avuto un incubo. Odiava come i suoi genitori gli dessero ogni possibile attenzione da quando era nato. Non vedeva l'ora che se ne andassero, lasciandolo solo. Quando finirono di abbracciare il loro figlioletto, di asciugare le sue lacrime e di rassicurarlo perché non c'era nessun nero mostro dagli occhi blu nello specchio del suo armadio, tornarono a dormire. A passi svelti e silenziosi, Alison raggiunse la porta della stanza di Gabriel: prima di entrare, si fermò sulla soglia al buio, osservandolo. La porta era socchiusa e lei riusciva a vedere una testolina piena di capelli biondi appoggiata sul cuscino e un corpicino interamente avvolto nelle coperte. Nell'immenso silenzio che copriva la casa come un velo, Ali udiva il suo respiro lento, poi rapido, poi affannato. Si girava a destra, poi a sinistra, poi a pancia in giù, poi lo trovava in posizione fetale. Era un sonno inquieto, spaventato, che fece scappare un sorriso dalle labbra di Alison. Uno squarcio roseo, illuminato dalla luce lunare, che spiccava nell'oscurità della notte.

Aspettava. Continuò ad aspettare per un'ora prima che il suo caro fratellino si trovasse in piena fase REM, quando il sonno è profondo ed è più difficile svegliarsi. In quel momento, Ali si avvicinò, e i suoi passi erano così leggeri che il soffice respiro di Gabriel sembrava fragoroso in confronto. I suoi occhi erano chiusi, contornati da lunghe ciglia chiare, e la sua testa stava riposando sul cuscino: aveva trovato pace. Le sue labbra erano socchiuse e lì i suoi respiri, ora rilassati, danzavano intorno alla stanza. Il suo tenero e piccolo collo era scoperto, leggermente inclinato verso destra, dove i suoi genitori lo stavano confortando poco prima. Il suo collo. Alison fece qualche altro passo avanti fino a quando era abbastanza vicina. Mi ha rubato mamma e papà, mi ha gettata nel buio, mi ha uccisa, li ha uccisi. Una lama sul suo tenero piccolo collo. Una lama per spegnere il dolore. Alison impugnava un coltello da cucina. Aveva alzato il braccio destro all'altezza del suo mento, pronta ad aprire uno squarcio rosso che odorava di morte. Lei l'avrebbe fatto. Lei l'avrebbe ucciso. Quella lama era terribilmente fredda e aguzza; morbida e calda era invece la sua pelle, così avida di essere tagliata. Alison non esitò, portando il coltello sul collo del fratellino, ma appena lo mosse di un centimetro, Gabriel si svegliò. Vide sua sorella, il suo largo sorriso terrificante e diabolico, il coltello che stava tenendo in mano. Che freddo! Si alzò di scatto dal letto, come se avesse appena avuto un incubo, e la spinse con la stessa velocità con cui delle perle d'acqua si formarono sui suoi occhi color nocciola.

«Vattene via!» Era terrorizzato, e strillò fino a quando sentì un insopportabile dolore alla gola.

Il coltello le cadde di mano. Lei rimase pietrificata, a bocca aperta; ma Alison non era stupida – non lo era mai stata. Per evitare che mamma e papà entrassero e vedessero quel dannato affare, lei lo nascose sotto il letto di Gabriel con un movimento secco. Dopo afferrò le sue spalle.

«Non dirglielo, ti prego.» Stava piangendo, «Non intendevo farlo. Mi dispiace. Non so cosa mi sia preso. Ti prego. Scusami.» Lo scosse mentre stringeva la maglietta del suo pigiama.

Gabriel rimase solo più confuso. Non aveva nemmeno idea di cosa pensare, ma sapeva con certezza che lo stava facendo perché lei lo voleva. Quel pensiero gli arrivò dritto nel petto come una fitta, così pesante da affaticare i suoi polmoni, così acuto da peggiorare il suo pianto. Mamma e papà corsero nella sua stanza di nuovo, più preoccupati che mai. Videro il visino di Gabriel arrossato per le grida, i suoi occhietti bagnati e il suo corpo fradicio di sudore. Accanto al suo letto c'era Ali, che piangeva in ginocchio nascondendo il volto dietro le mani.

«Cos'è successo?» chiese papà. I suoi occhi si illuminarono come due stelle nel cielo notturno.

I due abbracciarono Gabriel, cercando di consolarlo pur senza sapere il motivo del suo pianto così disperato. Non guardarono Ali finché parlò.

«Ha avuto un altro incubo.» Non esitò a mentire.

«Sì, vero.» Gabriel la coprì, proprio come sua sorella voleva.

Non seppe spiegarsi il perché. Lui avrebbe voluto dirglielo, così tanto! Mamma, papà! Alison ha cercato di uccidermi! Sì, aveva un coltello lungo e affilato in mano. Ed era freddo! Era terribilmente freddo! Io so che l'avrebbe fatto. Lei l'avrebbe fatto.

Ecco cosa avrebbe voluto dire. La verità. Nient'altro che la verità. Eppure sapeva che dire la verità avrebbe portato altri guai. E se Alison ci avesse provato un'altra volta? Magari avrebbe fatto più attenzione, magari mentre mamma e papà erano fuori per lavorare. Quella notte Gabriel capì le intenzioni di Alison. I suoi occhi pungevano mentre le lacrime minacciavano di uscire, come per sfondare una diga e inondargli il volto. Aveva imparato a trattenerle ormai, dato che Alison lo tormentava da tutta la vita. Però sapere che se solo avesse potuto l'avrebbe davvero ucciso era la fitta di dolore che lo travolgeva di più. Ne sarebbe stata capace e lui lo sapeva.

«Ali, perché stai piangendo?» chiese la mamma, ancora un po' confusa.

«L'avevo sentito gridare, allora sono corsa da lui. Non sapevo cosa fare! E lui non si svegliava! Avevo paura.» Singhiozzò, poi si coprì il viso con le mani e si asciugò le lacrime, ma non si rese per niente credibile agli occhi di Gabriel.

Quella sua sicurezza nel parlare non funzionava con lui. Era sempre stata così astuta, perspicace, sicura di sé, ma non aveva mai convinto suo fratello, benché fosse più piccolo di lei. Gabriel era un ragazzino sveglio, come diceva suo padre, e non si fidava facilmente degli altri. Aveva sempre mantenuto una certa diffidenza nei confronti di Ali, e se ne pentì un po' all'inizio, perché era pur sempre sua sorella. La notte del coltello però lo fece ricredere del tutto. Le aveva persino dato un nome dal dolore e dallo spavento. Esattamente. Lui aveva paura. Lui si era ritrovato un coltello alla gola. Cosa aveva lei da temere invece? Che i suoi genitori la cogliessero mentre era intenta a compiere il suo lavoretto?

Dalla notte del coltello la sua insonnia peggiorò: cercava di tenersi sveglio giocando ai videogiochi, ascoltando la musica e leggendo. Era veramente da maleducati, soprattutto quando un nuovo membro della famiglia era appena arrivato.

«Gabe, leva quello stupido gioco, per favore. Devi conoscere qualcuno.»

Ma non sentiva nulla, tranne le voci dei suoi compagni di scuola che si erano collegati con lui. Sua sorella continuò a chiamarlo per qualche minuto, voltandosi verso Jane ogni tanto con un sorriso che diceva scusalo, ti prego mentre scrollava le spalle. Scusa i suoi occhi fissi su quel dannato schermo.

«Gabriel, per favore!» gridò con rabbia, tirandogli la Switch dalle mani con un gesto inaspettato.

«Ali, ridammela!» Si girò, trovandosi di fronte una faccia mai vista prima, «Oh, ciao.» sorrise lievemente, poi si sistemò i capelli per l'imbarazzo, «Sei un'amica di Ali?»

«Si chiama Jane ed è appena arrivata. Comunque no, non è una mia amica, ma nostra sorella.» Lo corresse alzando il tono della voce, dando enfasi alle ultime parole, che risuonarono chiare nella mente del ragazzo.

Nostra sorella nostra sorella nostra sorella

Davvero?

«Ciao, piacere di conoscerti.» Jane gli sorrise con tenerezza.

«Ciao, Jane.» si inumidì le labbra, sentendosi terribilmente imbarazzato, «Sono Gabriel. Piacere mio!»

«Ehi, Gabe. Che ne dici di smetterla di giocare e conoscere un po' la nostra nuova sorella?» gli chiese Ali, con tono sarcastico.

Ma lo è davvero? Non mi sta prendendo in giro? Non ci posso credere...

E in effetti poteva anche avere ragione: non bastava già Alison a rovinargli la vita? Un'altra sorella? Sul serio? Si sarebbero alleate contro di lui per rendere la sua esistenza un inferno. Questa sì che è un'ingiustizia. Dovrei parlarne con mamma e papà ma no non mi ascolterebbero... se non l'avessero voluto non l'avrebbero portata qui...cavolo.

Nel frattempo, Gabriel non aveva fatto caso alla domanda di Alison e continuò a guardare le ragazze senza dire nulla, perso nei suoi pensieri.

«Gabe», lo chiamò un'altra volta con occhi fulminanti.

Era spesso disattento perché dormiva molto poco. Questo si poteva notare anche dai suoi limpidi occhi nocciola, contornati da palpebre doloranti e profonde occhiaie.

«Non preoccuparti, Ali.» intervenne Jane, cercando di evitare un eventuale litigio tra i due.

«No, anche lui deve parlarti. Non può ignorarti così.»

Ma Gabriel era rimasto immobile, con gli occhi vitrei e assenti. Come per trovare un rimedio, Alison spense la sua Switch e immediatamente attirò la sua attenzione.

«Ali! Era una partita online!»

«Sei un po' scortese, non trovi?» Ali indicò Jane voltandosi per un attimo verso di lei per ricordargli che non erano da soli.

Jane si sentì in imbarazzo, così in imbarazzo che le sue guance si infiammarono. Non è una cosa grave, pensò.

«Non lo so e non m'importa», rispose con durezza; le parole che rivolgeva ad Alison, spesso cariche di rabbia, riflettevano quella che in realtà era paura.

«Ali, non fa niente. Sul serio.»

Alison stava fissando suo fratello, e lui, con le braccia incrociate, evitava il suo sguardo.

Ci fu un momento di silenzio finché Gabriel, infastidito perché non poteva più giocare, chiese a Jane quali fossero i suoi videogiochi preferiti. Purtroppo, all'orfanotrofio non poteva giocarci però i suoi amici erano bravi ad inventarli per passare il tempo. Lui ne rimase un po' deluso. Dato che Jane aveva nominato l'orfanotrofio, ad Ali venne in mente di chiederle perché era orfana, cosa fosse successo ai suoi genitori...troppo presto. Forse sarebbe stato meglio chiederglielo un'altra volta.

«Jane, chi è il tuo cantante preferito?» le chiese alla fine.

«Adoro i Queen. All'orfanotrofio ci facevano ascoltare la musica ogni tanto ed è lì che ho conosciuto le loro canzoni.»

«Oh, abbiamo alcuni dischi dei Queen. Mio padre ne è ossessionato.»

E presto si ritrovarono a discutere di musica rock, anche perché a Gabriel piaceva molto. Finalmente erano riusciti a cominciare una conversazione senza la paura di entrare in argomenti troppo ostici.

Dopo un po' Alison uscì dalla stanza per poi tornare con dei bicchieri d'acqua. Nonostante ciò, continuava a pensare al passato di Jane e moriva dalla voglia di scoprirne di più. La osservò mentre parlava con suo fratello: osservò le sue ciocche scure che dondolavano con delicatezza, le sue mani che sistemavano la maglia nera a fiori, o che giocherellavano con la perlina della sua collana, i suoi jeans a vita alta, le sue sneakers bianche e nere. Lei rideva e si divertiva anche con Gabriel. Parlarono per ore, e lì Alison si rese conto che Jane era felice. Lo sapeva. Non poteva rovinare quel momento, eppure una punta di gelosia coprì i suoi occhi come una nera nuvola copre il cielo azzurro. Il bicchiere d'acqua che stava tenendo cadde sul pavimento. Fortuna che era acqua, roteò gli occhi. Ora Gabe sa che c'è qualcosa che non va in te, fantastico.

«Scusatemi, adesso pulisco.» Se ne andò di corsa.

Nel frattempo, il viso di Gabriel impallidì con violenza e i suoi occhi si spalancarono. Perché è così spaventato? Ha solo versato un po' d'acqua, pensò Jane. No, non era solo quello. Accadde solo un anno fa, ma Gabriel sapeva che quella notte l'avrebbe ricordata anche tra cinque, dieci, venti anni. Quel bicchiere era caduto sul pavimento come aveva fatto quel freddo coltello. Il coltello freddo, la notte del coltello! Quelle parole rimasero impresse nella sua mente da quella notte terribile. E Ali, lei si trovava sullo stesso identico punto. Lo giurava. Ma l'avrà fatto di proposito? Era una minaccia? Si spaventò ancora, come quella notte. Improvvisamente la stanza fu invasa dal silenzio e dal buio. Jane sparì. Gabriel stava tremando. Quei brividi erano così violenti che avrebbero potuto farlo stramazzare al suolo. Era rimasto solo e non riusciva a muoversi, figuriamoci a difendersi. Qualcosa di gelido si avvicinò lentamente al suo collo. Terrorizzato, guardò in basso per assicurarsi che fosse solo la sua immaginazione: non vide nulla.

Sei solo nella mia testa non esisti non esisti TU non esisti

Chiuse gli occhi e si portò le mani sul volto, come per scacciare quella visione.

Non esiste sono io che lo penso non esiste

Riaprì gli occhi con riluttanza e sentì nuovamente quella lama gelida. Vide dei capelli biondi di fronte a sé, la sua mano destra che teneva un coltello. Lei la alzò all'altezza del suo mento e in un attimo la lama sprofondò nella sua gola. Si sentì soffocare. Fiotti di sangue schizzarono dal suo collo. Vide un crudele sorriso allargarsi sul suo volto e poi...

«Ali!» urlò così forte che sentì la sua gola infiammarsi.

Il sangue correva sul suo petto, fino ai pantaloni del suo pigiama, poi raggiungeva il pavimento, macchiandolo di un rosso terribile. Gli occhi di Gabriel si spalancarono, il suo volto sbiancò. Cercò di prendere un profondo respiro ma fu uno sforzo troppo grande. Il suo collo bruciava, la sua gola gli impediva di parlare.

Perché l'hai fatto?! Alison! Perché?!

L'oscurità si posò sui suoi occhi. Un peso freddo come il ghiaccio spingeva sui suoi polmoni, impedendogli di respirare.

Perse i sensi. Si sentì morire.

Quasi non ci credette quando la sensazione di soffocamento, di morte, era svanita. Quando si ritrovò Jane davanti, e non Alison. Lei ne rimase attonita, non capendo la ragione di quelle grida così terribili. Sembrava davvero che stesse per morire!

Cercò di calmarlo, dandogli un colpetto sulla spalla. Non sapeva che lui non volesse affatto che Alison tornasse. Tutt'altro. Stava bene così. Avrebbe voluto che...

...morisse.

No! Non quello! Ma che almeno la smettesse, che fosse più gentile, lei che era sua sorella.

A volte Gabriel si chiedeva se lo fosse davvero, o se in realtà fosse stata adottata. Una vera sorella – o fratello – non potrebbe mai volere la sua morte: gli vorrebbe bene, lo sosterrebbe e soprattutto non lo osserverebbe mentre dorme. Eppure lei, a quanto pare, voleva eliminarlo. Non era riuscito a capire perché, e a volte ci pensava quando andava a dormire. Ci pensava così tanto che poi non dormiva più. La sua vita stava diventando un vero incubo, non solo perché Alison era diventata stranamente aggressiva nei suoi confronti ma anche a causa dei suoi sogni lucidi ad occhi aperti. O forse avrebbe dovuto dire incubi. Mai sentito parlare di sogni lucidi? Ecco, Gabriel li aveva anche quando era sveglio. Ogni volta che Alison faceva parte della sua vivida immaginazione lui finiva per spaventarsi a morte o per scoppiare a piangere, o entrambi. Stavolta dovette scegliere solo la prima opzione e trattenere le lacrime. Jane avrebbe potuto vederlo, o peggio, Alison. Pensò che non farle notare che ne fosse consapevole fosse la migliore cosa da fare.

Ma cosa avrebbe fatto? Poteva continuare così? A rivivere quell'episodio fino a quando qualcosa di peggiore l'avrebbe raggiunto?

Quando Alison tornò, pulì il pavimento con uno straccio, sorridendo ogni tanto a Jane. Gabriel cercava di fuggire dallo sguardo gelido della sorella ma accidentalmente incontrò quello della nuova arrivata. Lei vide paura. Molta paura. Forse era per questo motivo che Gabriel continuava a guardare altrove quando Ali si girava verso di lui. Maperché? Jane capì che c'era qualcosa che non andava fra loro due. Era perché Ali aveva spento la sua console? O perché aveva fatto cadere dell'acqua sul pavimento della sua stanza?

Non lo so, ma non ho mai visto così tanta paura negli occhi di un ragazzino.

All'orfanotrofio Jane era abituata a vedere bambini tremare, piangere, avere paura. La signora Collins aveva i suoi "Preferiti", come Emily, John, Vera e Liz. Erano anche i migliori amici di Jane, benché non potessero stare molto insieme: ogni volta che la signora Collins li vedeva dava uno schiaffo a Jane e portava via i suoi Preferiti. Era così che li avevano chiamati gli altri bambini.

«Non è di buona compagnia», ricordava a tutti loro, «Lei non è come voi.»

Ma Jane non aveva mai capito cosa lei intendesse. Era una semplice ragazza dopo tutto. Cosa c'è che non va in lei? Perché non ci fa stare insieme? Si chiedeva dopo, mentre piangeva sul suo letto. Il suo volto diventava rosso o perché la signora Collins la riempiva di schiaffi, oppure per le sue lacrime. Non era felice lì; non è un posto sicuro... un posto brutto e terribile. Quel posto era un inferno solo per alcuni bambini però, tra cui lei e gli altri Sfortunati, gli unici che avevano sempre paura per molte ragioni. Se mangiavano delle caramelle, lei faceva saltare loro la cena.

«Forse adesso capirete che non vi è permesso mangiarle! Non sono per voi!» E un altro schiaffo.

«Mi scusi. Non lo farò più.» Le stesse parole che ognuno di loro ripeteva ogni volta che succedeva un delitto del genere.

Solo ai suoi "Preferiti" era concesso mangiare caramelle. A loro era concesso tutto. Lei li trattava come se fossero i suoi figli, infatti non ne aveva. Jane pensava che lo facesse per colmare il vuoto, ma più probabilmente perché era una strega.

Bambini come Emily e John non avevano il coprifuoco alle otto e potevano restare alzati fino a tardi. Lei comprava vestiti di ogni tipo per loro!

«Quale preferite?» E loro, in risposta, indicavano l'indumento che più desideravano.

Ma Jane non li odiava. Lei odiava la signora Collins, ma la odiava soltanto perché era lei a odiare Jane e gli altri. Per questo motivo i bambini che non facevano parte del gruppo "Preferiti" iniziarono a chiamarsi gli "Sfortunati". In realtà lei non li odiava, o quasi. Così Jane sapeva che Gabriel fosse veramente spaventato quando l'aveva guardato negli occhi. Le ricordava sé stessa ogni volta che la signora Collins era nei paraggi, soprattutto se teneva in mano una scopa. L'arma della Collins, la chiamava John. Jane aveva provato quella paura all'orfanotrofio, vera paura, ma gli occhi di Gabriel erano molto peggio. Raccontavano chissà quale storia e lei voleva saperla.

Ali uscì un'altra volta dalla stanza per asciugare il pavimento umido, quindi Jane ne approfittò per chiedere a Gabriel la sua storia. Cosa sperava di fare? Credeva davvero che un ragazzino potesse fidarsi di lei nello stesso giorno in cui l'ha conosciuta e dirle tutto? Ma poi cosa si aspettava?

«Tutto bene?» gli chiese.

«Cosa?» la paura nei suoi occhi sparì all'improvviso, «Che vuoi dire?»

«Ti ha forse spaventato?» Forse era stata troppo diretta.

È il tuo primo giorno! Non puoi permetterti di chiedere cose come questa, non ancora!

L'aveva capito, ma la curiosità ormai l'aveva catturata nelle sue grinfie.

«Non ti capisco, mi dispiace. È mia sorella. Perché dovrebbe spaventarmi?» Stava sudando.

Jane rimase confusa dalla sua risposta: il suo corpo forse le stava raccontando qualcosa, eppure Gabriel con le parole diceva tutt'altro.

«Ti ho visto...»

«Non chiedermelo più, per favore. Mai più.» sbottò, guardandola dritta negli occhi stavolta.

Ma lei divenne soltanto più curiosa.

«Ragazzi! La cena è pronta!» Alison gridò mentre saliva le scale.

Era tornata ancora. Un pieno sorriso era dipinto sul suo volto. Quel sorriso rosso, rosso come il sangue. Gabriel cancellò quel pensiero scuotendo la testa. Non siamo soli, non può farti male.

«Arriviamo.» Gabriel sorrise di rimando, nel frattempo Ali era entrata nella sua stanza.

Che sorriso falso, pensò lei. Lo squadrò da testa a piedi e poi uscì, seguita da entrambi.

Quando cenarono Gabriel fece finta di nulla. Sorrideva, faceva delle battute, rideva molto.

«Quindi... cosa ne pensi?» le chiese la signora Thompson.

«Mi sento felice qui. Vi ringrazio.» Jane non riusciva a smettere di sorridere, tanto che le guance cominciarono a farle male.

«Questa è la tua nuova casa adesso. Noi vogliamo che tu sia felice, per questo sono lieta di sentirlo.» sorrise, ma poi un lieve dubbio colse la sua risata, rendendola più nervosa, «Ma come qui? Vuol dire che non stavi bene all'orfanotrofio? So che in realtà vorresti vedere i tuoi genitori e l'orfanotrofio non sembra per niente gradevole in confronto, ma cos'è successo lì?» chiese ancora.

Ci fu un momento di silenzio.

«Non preoccuparti di risponderle, Jane. Puoi dirglielo quando te la senti, voglio dire, sempre se te la sentirai. Non sei obbligata.» Anche il signor Thompson era curioso di sapere come aveva vissuto all'orfanotrofio, ma cercò di celarlo, evidenziando invece l'interesse della moglie. Non voleva mettere la ragazza a disagio.

«Era un brutto posto», disse lei, senza aggiungere altro.

«Cara, potremo parlarne più tardi. Non penso che questo sia il momento giusto.» Le sussurrò all'orecchio.

La signora Thompson voleva sapere a tutti i costi com'era la vita all'orfanotrofio. Come la trattavano, che rapporto aveva con gli altri bambini, se stava bene. Anche sua cugina, Daisy Lee, era stata in un orfanotrofio perché i suoi genitori erano morti in un incidente, ma dopo qualche anno anche lei morì, quando il lampadario della cucina le cadde addosso. La signora Thompson era piccola e non lo ricordava, ma nel momento in cui lo scoprì fu certa che la vita all'orfanotrofio fosse terribile. Lei non sapeva mai quando era meglio tacere, e se ne vergognò perché suo marito glielo aveva fatto notare. Eppure secondo lei Jane era in vena di parlare. In realtà, la ragazza voleva solo dimenticare il suo passato, se mai avrebbe potuto, e cominciare una nuova vita, una vita felice.

Dopo cena Jane andò dritta nella sua stanza.

Finalmente sola, pensò. Lei adorava la loro compagnia, ma sperava di rivedere quella strana sagoma. Si infilò il pigiama e si precipitò verso lo specchio, quasi eccitata. In effetti, la sua vita era stata abbastanza normale se non fosse stato per la signora Collins e la sua arma, ma quelli non erano bei ricordi, proprio per niente. Lei era convinta che fosse un gioco, benché quella strana ombra l'avesse inquietata all'inizio. Non vedeva l'ora di cominciare a giocare.

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