L'ombra di Sabhali
«Jahir, di sotto c'è una donna che ti sta cercando» aveva detto Liria, dopo aver sbattuto per tre volte il pugno sulla porta della mia stanza alla taverna. «Le ho detto che non c'eri, ma non so come ha capito che mentivo». La sua voce era attutita dal legno, innervosita.
Il mio cuore aveva fatto un salto, proprio come un animale che balza sul ciglio di un burrone.
Mi ero alzato frettolosamente dal materasso.
«Smettila di prenderti gioco di me!» fischiai a denti stretti contro il mio navigatore. La sbattei forte contro un masso, scheggiandone il bordo grigio, ferendomi un polpastrello. L'ago nero fece un giro impazzito sopra la rosa dei venti, e poi riprese quella direzione, mentre mi infilavo il dito in bocca.
Ero convinto che la mia bussola si fosse rotta quando aveva cominciato a puntare verso Est e mi aveva condotto oltre il deserto, verso Sabhali, l'ultima città al confine estremo della Piana D'oro, l'ultimo baluardo di eterna luce nel mondo.
L'avevo già colpita svariate volte, sussurrandole antiche formule, affinché cambiasse direzione, ma era rimasta ostinata a condurmi laggiù, dove nessun Tasair Sgàilean, domatore di ombre, aveva mai messo piede.
Dopotutto chi cercherebbe mai un'ombra in un posto dove non scende mai la notte? Era impossibile che ce ne fosse una laggiù.
Avevo le mani sudate e il sudore mi colava lungo la schiena, sotto la tunica scura, facendomi appiccicare i granelli di sabbia e il tessuto alla pelle. Detestavo il sole e la sua luce abbagliante e il vento che vibrava bollente, creando malsani miraggi.
Non ero mai stato a Sabhali, ma ero abbastanza sicuro che non fosse una città fantasma. Eppure era deserta, come se tutti fossero fuggiti all'improvviso. Nessun guardiano mi sbarrò la strada. Non era un villaggio molto grande, ma variegato. Le leggende narravano che i suoi abitanti fossero nati dalla luce e il solo pensiero di vederli mi stomacava, minacciandomi di farmi vomitare sulla quella strada cocente e lastricata la colazione che avevo consumato soltanto quella mattina.
Frugai le porte e i balconi sui muri immacolati degli alti edifici, che terminavano in cupole di vetro verde o blu per lasciar penetrare il sole nelle case, alla ricerca di qualche paio di occhi che mi stessero osservando. Ma solo la polvere del deserto mi faceva compagnia mentre attraversavo un mercato stracolmo di bancarelle in legno, coperte da vari tendaggi colorati: rosso, verde, arancione, giallo, blu; nelle quali erano state lasciate le merci più disparate in bella vista e senza alcuna custodia. Mi sarebbe bastato allungare la mano per rubare uno scacciapensieri, una conchiglia che racchiudeva melodie proibite, pozioni curative, cibo speziato, foglie di tè dagli aromi che non avevo mai gustato, abiti più adeguati dei miei per girovagare nel caldo torrido del deserto.
Avevo capito che la mia bussola non si era rotta quando avevo spinto le porte dell'antico tempio, facendo irruzione, trovando tutta la popolazione radunata fra quelle quattro mura. Gli occhi dei presenti si girarono verso di me, i brusii si arrestarono. Anche il gorgoglio della fontana che ornava il giardino di pietra del tempio sembrò fermarsi, mentre le pesanti ante ricamate da pietre preziose si richiudevano dietro di me, cigolando su cardini vecchi di millenni.
Abbassai istintivamente il cappuccio che avevo usato per ripararmi dal sole e il bavero della giacca che mi ero sollevato sul collo, come a dimostrare di non avere cattive intenzioni... Almeno per ora.
Draghi di sabbia scodinzolavano sulle volte del soffitto, nubi di tempesta simili a grandi serpenti con ali, nel cui corpo si agitava il deserto. Fluttuavano sopra le teste dei presenti e uno di loro si abbassò verso di me, mentre percorrevo la sala a grandi passi, infilando la bussola al sicuro in tasca. Mi sfidò con i suoi grandi occhi gialli e le corna inconsistenti.
Un piccolo goblin del deserto, con la pelle screpolata sotto al turbante di stoffa variopinta e gli occhi scuri, mormorò qualcosa che assomigliava tantissimo a un insulto mentre gli passavo accanto. Potevo sentire i cuori degli elfi del fuoco, con le loro vistose chiome rosse, martellare nei loro esili petti color d'ebano, muovendosi al ritmo dello scalpitio dei miei passi sul pavimento. Le punta delle loro lunghe orecchie era coperta da un triangolo metallico scintillante ai bagliori del sole che penetravano dalla cripta. Avevo letto che quel tipo di elfi non morivano se si trapassava il loro petto, ma soltanto se si tagliavano via quelle loro delicate orecchie.
Continuai a procedere, drizzando le spalle, con i muscoli tesi e la mano che sfiorava le else dei pugnali legati alla mia cinta.
Potevo immaginare i flebili bisbigli delle ninfe d'oasi con le loro ampie gonne azzurre e i capelli sbiancati dalla troppa luce solare. Le occhiate incuriosite delle affascinanti sirene dei flutti di vapore che galleggiavano a qualche centimetro da terra, con le code tramutate in piedi grazie a pozioni magiche. Il fiato trattenuto dai devoti della luce che convivevano con quelle creature potenti e rare, per proteggerle dall'avvelenamento dell'oscurità.
Nessuno tentò di fermarmi, erano tutti increduli, con i piedi incollati a terra. Non erano preparati alle minacce; che io sapessi nessun straniero arrivava lì da secoli.
Alla fine della navata, proprio davanti all'altare decorato con un enorme sole d'oro, era inginocchiata una ragazza. Era l'unica persona che non aveva girato il capo verso di me, ma continuava a tenerlo chino sul mosaico sotto di sé, stringendosi le mani al petto in segno di preghiera. Ancora non l'avevo toccata e iniziavo a sentirmi attratto da lei. Era sicuramente ciò che stavo cercando.
Era diversa dal resto dei devoti: pelle candida e capelli color bronzo, non neri come l'inchiostro o bianchi come l'alba, o cremisi come quelli degli elfi, che le ricadevano appena sopra le spalle. Accanto a lei quella che doveva essere la sacerdotessa del tempio disse qualcosa rivolta a me, alzando il mento con aria autoritaria, ma non capivo il sabhaliano. Poteva avermi dato il benvenuto, come ordinato di restare fermo e non avrei saputo tradurlo in ogni caso.
Un orco con le corna di cervo, una lunga barba verde muschio allacciata in una treccia e la pelle bianca, si frappose davanti alla ragazza, lasciando scivolare a terra una donna che stava trattenendo e che aveva il volto rigato di lacrime. Mi urlò qualcosa e il suo alito puzzava come l'inferno. Si puntò le mani sui fianchi muscolosi.
Qualcuno sussultò alle mie spalle e ne approfittai per estrarre il mio pugnale. La lama d'argento emise un lungo sibilo.
«Levati di torno e lasciami fare il mio lavoro» gli risposi, sapendo che non poteva capirmi, ma volevo intimorirlo.
L'orco disse qualcos'altro prima di attaccare, e notai che dietro di lui la sacerdotessa aveva afferrato per il polso la ragazza, la mia ombra, per condurla lontano. La folla rumoreggiò, qualcuno si mosse verso l'uscita per evitare di assistere al combattimento e l'orco si gettò alla carica verso di me. Lo evitai, abbassandomi e rotolando sotto il suo gomito. Al mio confronto era un colosso. Li avevo colti alla sprovvista ma sapevo che non dovevo ferire nessun Sabhaliano se volevo uscire di lì tutto intero.
La gente scappò via correndo e urlando nel panico che avevo provocato. Uno dei draghi ruppe il vetro del soffitto sfondandolo con uno schiocco, facendo cadere sugli ultimi fuggitivi una pioggia di schegge trasparenti.
«Dorchadas tha gad iarraidh» pronunciai l'invocazione sottovoce e le tenebre che avevo già catturato e domato apparvero in mio soccorso, oscurando la vista dell'orco che cominciò a sbattere i grandi i piedi, infuriato, facendo tremare le pareti. Avvolsero le loro lunghe dita scheletriche intorno alla sua montagna di muscoli, bloccandolo. Ne afferrai una facendola scorrere anche su di me, fino ad attirarmi in un'aura nera e fredda come il ghiaccio.
Rabbrividii di piacere.
Avanzai dietro l'altare, dove la sacerdotessa aveva condotto la ragazza per metterla al riparo. Ci sfidammo con lo sguardo e allungai una mano verso ciò che stava proteggendo. Nei suoi occhi scuri guizzò qualcosa che le fece comparire un sorriso sulle labbra e poi, con mia sorpresa, spinse la ragazza verso il mio corpo. La strinsi forte a me, mentre nascondeva il volto nella mia spalla. Tremava, terrorizzata fino alle ossa. L'avevano bendata con una stoffa bianca e non stava capendo cosa stava accadendo attorno a lei.
Ordinai alle tenebre di portarci via da lì e loro esaudirono la mia richiesta, trasportandoci lontano dalle guglie di Sabhali, tra le dune del suo deserto. Le mie due ancelle preferite mi fecero un gestaccio dopo aver creato il varco che ci aveva permesso di attraversare lo spazio, facendomi capire che non avevano gradito essere evocate in un luogo contaminato da una luce così forte. Quando scomparvero mi ritrovai con il mio nuovo trofeo a diversi chilometri dalla conca dove avevo costruito l'accampamento quella mattina. Una piccola vendetta.
Sorrisi cordiale, amabile, come se quel battibecco mi divertisse e tolsi la benda alla ragazza, sciogliendo il nodo fin troppo stretto, che le tirava qualche ciocca di capelli. Sbatté le palpebre confusa, barcollando all'indietro.
«Chi diavolo sei? Cosa è accaduto?» farfugliò. I suoi occhi di un particolare colore violaceo mescolato a bagliori argentati, mi scandagliarono dalla testa ai piedi.
«Va tutto bene» le risposi, decisamente a corto di idee, ma cercai di sorridere rassicurante.
«Tu... Tu...» continuò a indietreggiare con i piedi che affondavano nella sabbia: «Tu mi hai rapita!».
Incrociai le braccia al petto. «Ah sì? Perché io ho la sensazione di averti salvato. Che cosa voleva quella gente da te?» le domandai ancora schifato dall'essere entrato nel tempio della luce.
«Quella gente?» sbottò arrabbiata; i suoi occhi si tinsero di scintille d'ambra: «Quella è la mia gente! Sono la figlia di Mesta, una delle sacerdotesse del tempio e mi occupo insieme a loro di salvaguardare il popolo».
«Quella donna in lacrime?» le chiesi corrucciato. «Quella donna non è tua madre, tu sei un'ombra e le ombre non sono generate, semplicemente si formano da sole» le rivelai.
Si coprì le orecchie con le mani e socchiuse gli occhi. «Smettila! Tu stai mentendo».
«Ascoltami» dissi più dolcemente, facendo un passo verso di lei, mostrandole le mani come se avessi a che fare con un animaletto indifeso. «Se guardi dentro di te sai benissimo che ho ragione. Probabilmente quelle sacerdotesse volevano soltanto sfruttare i tuoi poteri».
«Loro mi facevano curare l'insonnia, quando le persone non riuscivano a dormire» cominciò a raccontare: «Dicevano a tutti che era grazie ad un'alga speciale. In realtà ero io che ci infondevo il mio desiderio di essere utile e così le alghe riuscivano a donare bei sogni a tutti». Sorrise come se quel ricordo la rendesse particolarmente fiera di sé: «Dovevo restare nascosta. La gente mi avrebbe fatto del male se mi avesse scoperto; ma ho sbagliato, ho tentato di disturbare lo spirito della luce che vive nel tempio. Loro, mia madre e le sacerdotesse, mi avevano detto di non farlo. Mi volevano proteggere e poi... la città ha cominciato a tremare e si sono tutti riuniti per votare se fosse giusto uccidermi... oppure no».
Protesi le mani e le accarezzai le guance fredde, sussurrandole una parola arcana nel linguaggio delle tenebre. Lei non si scostò ma emise un sospiro leggero, quasi impercettibile, rinvigorita dal mio tocco.
«Le ombre sono curiose di natura, non è colpa tua se hai voluto toccare quel simbolo. Non dovresti stare in pena per una madre che non è tua madre e per un popolo che voleva mettere la tua testa su un ceppo» le sussurrai dolcemente all'orecchio. «Ho percepito la tua paura ma adesso sei al sicuro».
Lei mi posò le mani sul petto e mi spinse via, lontano da lei. Aveva una forza esagerata per un corpo così minuto. «Io non sono un'ombra, ti sbagli».
«Certo che lo sei» ridacchiai di fronte al suo volto ostinato. «Io non capisco il sabhaliano eppure noi due stiamo riuscendo a parlare perfettamente e vorrei sottolinearti che non hai altra scelta che stare con me. Se ti lascio qui fuori» le indicai le dune assolate della piana: «Potrebbero rapirti i predoni, o i mercanti di schiavi, e se riesci a tornare indietro probabilmente voteranno per farti fuori. Nessun essere di tenebra deve inquinare Sabhali, quelle sacerdotesse sono state delle pazze assetate del denaro dei loro poveri devoti».
In tutta risposta lei si sedette sulla sabbia rovente, incrociando le gambe e mordicchiandosi le labbra.
«Lascia che ti spieghi perché esistono i domatori, quelli come me che aiutano quelle come te. Se non mi seguirai diventerai un pezzo di cielo notturno o peggio, ti attaccherai all'ombra corporea di qualche passante nascondendoti per sempre. O ancora peggio, la tua anima diventerà un Divoratore, uno spettro maligno che mette al fuoco innocenti e si nutre delle loro emozioni. Se mi seguirai, io sognerò il tuo vero nome e quando te lo dirò diventerai parte della mia collezione di ombre personali, rendendo conto soltanto ai miei ordini. Ma non sarai cattiva e non farai del male a nessuno, te lo prometto».
«Io ce l'ho già un nome» rispose come se avesse seguito solo l'ultima parte della mia rivelazione: «È Aryn!». Forse non voleva pensare al tradimento di quella donna che considerava come una madre. Probabilmente quella sacerdotessa aveva capito cos'ero e l'aveva spinta tra le mia braccia per salvarsi la reputazione.
Era consapevole che non sarebbe potuta tornare indietro.
«È molto bello ma non è davvero tuo» ammisi: «So che puoi percepire il potere, le potenzialità che ti scorrono nelle vene, le senti come le sento io. Nessuno a Sabhali è come te, probabilmente ti sentivi un'estranea, non è vero?».
«E se io non volessi seguirti? So che cosa vuoi fare, stai cercando di intimorirmi, imbandendo storielle da quattro soldi solo per trovare il modo di convincermi».
«Testarda e curiosa» sorrisi: «Sei proprio un'ombra e per mia fortuna esistono svariati modi per piegarne una». Mi accucciai di fronte a lei e ci sfidammo con uno sguardo. Senza che lei potesse avere il tempo di reagire avvicinai il mio viso al suo e le intrappolai le spalle lasciate scoperte dal vestito. «A molte piacciono le canzoni sconce» le sfiorai la punta del naso con il mio in una leggera carezza: «Altre si sciolgono con il calore umano». Le mie labbra incontrarono le sue. Aveva un sapore inaspettato e dolce, come quello di un frutto maturo.
Le sfiorai la bocca con la punta della lingua, lentamente, come schiuma sulla riva del mare. Finché lei schiuse le labbra, attirandomi su di sé. La schiacciai con il mio peso, consapevole della magia arcana che attirava i nostri esseri, le nostre esistenze. La baciai, spinto dalla fretta di una passione irrefrenabile e incolmabile, stringendole un fianco fra le dita e premendole una mano sulla schiena per appoggiare il suo petto al mio. La strinsi a me, con il suo corpo che mi tremava contro e i nostri respiri che diventavano affannati. Le mie labbra scivolarono dalla sua bocca al suo collo, baciandone la pelle delicata, mordicchiandola dolcemente fino alla clavicola, lasciando una scia del mio desiderio. Le feci il solletico con la barba e lei rise felice nel mio orecchio. Il suo aspetto umano rendeva tutto così facile. Non mi era mai capitato di sentirmi così coinvolto.
Mi scostai, mentre lei affondava le dita nei miei capelli, trattenendomi a sé, esigendo di essere scaldata non soltanto sul volto e sul collo. Le sorrisi contro la bocca. «Vedi? Sei attratta da me, come io da te, è un legame predestinato. Non possiamo farne a meno».
Aryn tentò di colmare la piccola distanza che avevo creato fra le nostre bocche, ma mi ritrassi di nuovo, giocoso, causandole un cipiglio divertito.
«Sarà meglio andare, prima che faccia buio».
«Qui non scende mai il buio».
«Lo so, per questo motivo te lo mostrerò per la prima volta. Dopo non potrai farne a meno».
Incuriosita dalle mie parole si alzò insieme a me, le tesi una mano per aiutarla a ritrovare l'equilibrio. Si comportava esattamente come un'umana, nonostante il sole non le scottasse la pelle e non lo sentisse bruciare fin dentro la gola. Mi guardai attorno, mentre lei si sistemava i capelli arricciandoseli attorno alle dita, le guance imporporate da un lieve imbarazzo.
Quelle dune sembravano così maledettamente tutte uguali, ma mi sembrava di ricordare dove avevo lasciato la tenda. Non eravamo lontani. Mi misi il cappuccio del mantello in testa e presi un avido sorso dalla mia borraccia, prima di farle un cenno verso quella strada invisibile tracciata dentro la mia testa.
Raggiungemmo la tenda soltanto verso sera, grazie al mio spiccato senso dell'orientamento. Ci eravamo persi due volte ma non glielo avevo detto.
Era come se sopra il deserto, esteso a perdita d'occhio, ci fosse una cupola magica che racchiudesse il sole, imprigionandone la luce. Ma dopo pochi passi, al limitare di montagne rocciose impolverate dalle sabbie del confine occidentale, l'incantesimo svanisse, lasciando scurire la terra con le tenebre della notte.
La mia tenda e il mio cavallo erano ancora lì, accanto ai resti del falò.
Il vento ululava come un branco di lupi affamati, sibilando tra le grandi rocce, mentre preparavo la cena. Dovevo portare Aryn lontano da Sabhali, nel caso qualche sacerdotessa tornasse a cercarla e dovevo sperare di sognare al più presto il suo nome per renderla parte di me.
Non avevo mai visto un'ombra simile a lei, con le sembianze di un'umana. Di solito sceglievano le sagome di spettri o di fumo e la luce non le dava nessun fastidio. Sembrava giovane, ma poteva essere soltanto un'apparenza, e dopo aver vissuto molto tempo lontana dal buio probabilmente aveva maturato una sorta di immunità al sole. Una volta rotta la sua forma originaria, sarebbe diventata un'ancella davvero molto potente.
«La notte è sempre fatta così?» mi domandò indicando luci verde smeraldo e azzurre che si inseguivano in linee luminose e vortici nel cielo punteggiato da stelle.
«No» le risposi, fermandomi ad ammirare il panorama: «Quella è l'aurora di Sabhali». Laddove la notte sfiorava la cupola di sole eterno, si creavano giochi di luce enigmatici e meravigliosi, che correvano nel cielo, proiettando riflessi rossi sul deserto.
«Sembra unica» mormorò senza fiato.
«Come te» aggiunsi, ricominciando a sfregare due legnetti per accendere il fuoco.
Lei ridacchiò, dandomi le spalle e riempiendosi gli occhi di quelle luci cristalline. «Non pensare che essere gentile basterà per piegarmi al tuo volere» sussurrò piano, ma riuscii a sentirla lo stesso: «Ti seguirò, ma solo per trovare un posto dove cominciare una nuova vita». Decisi di non controbattere, per lasciarle credere di poter essere ancora libera; dopotutto come diceva il mio maestro "la speranza non si annega a nessuno".
Da quella notte cominciammo a viaggiare insieme, diretti verso Nordema, il mio villaggio preferito.
Scoprii che Aryn era piuttosto strana. Non solo aveva completamente assorbito le abitudini umane: voleva mangiare e bere a tutti i pasti, nonostante non ne avesse bisogno; ma le piaceva anche parlare. Mi poneva quesiti di continuo, tanto che ormai avevo imparato ogni cadenza di suono della sua voce.
«Che cos'era quello?».
«Uno scoiattolo».
«E questo?».
«Un iris, è un fiore».
«E quella?».
«Questa è la pioggia, Aryn».
«Per quale strano motivo l'acqua dovrebbe cadere dal cielo?».
Guardava il mondo con gli occhi di una bambina estasiata che lo vedeva per la prima volta. Ci eravamo lasciati il deserto alle spalle, per ritrovarci al riparo della fresca ombra di rigogliose foreste; luoghi di cui lei aveva soltanto letto nei libri.
Le piaceva raccontare storie sullo spirito della luce, che aveva appreso al tempio dove era cresciuta, o anche inventarsele. Si divertiva a interrompermi quando meditavo e quando mi allenavo con il druido antico per ripassare gli incantesimi. Sospettavo che lo stesse facendo per ripicca, visto che io la prendevo sempre in giro per quella sua innocenza.
«Le ombre amano il silenzio e stanno zitte» avevo protestato, dopo l'ennesima volta che mi aveva fatto perdere la concentrazione mentre levitavo sulla superficie dell'acqua di uno dei laghi di Anshead. Ero caduto, infradiciandomi le braghe e schizzando anche la sua gonna.
«Allora forse ti sei sempre sbagliato e non lo sono» mi aveva sfidato.
Non le dissi che le bussole nere non potevano sbagliarsi e che lei era un'ombra, anche se non taceva per nessuna ragione al mondo, anche se mangiava e anche se, quando calava il buio, si metteva a dormire nella tenda accanto a me.
Una notte mi svegliò di soprassalto. Stava piangendo e si dimenava nel sonno. Lacrime d'acqua sporca le bagnavano le guance, coprendole di strisce scure. Assomigliavano molto alla fuliggine. Non avevo mai visto un'ombra piangere.
Rotolai al suo fianco e l'abbracciai da dietro. Era la prima volta che la tenevo stretta da quando ci eravamo avvinghiati e riempiti i vestiti di sabbia del deserto.
«Aryn, stai avendo un incubo, devi svegliarti» cercai di calmarla.
Lei aprì gli occhi e la tenni stretta. Non avevo ancora sognato il suo nome e il suo tempo terreno era agli sgoccioli ormai, se non la legavo a me sarebbe scomparsa o avrei dovuto ucciderla prima che diventasse un Divoratore.
Quel giorno avevamo superato le rovine della foresta di pietra delle Streghe d'Ossa e aveva visto dei pesci morti a causa del veleno, che galleggiavano dentro un fiume, trasportati da una pigra corrente.
Mi aveva chiesto che cosa succede quando si muore, come se sentisse vicina la sua fine, come se ne fosse consapevole. Non avevo saputo risponderle.
Mi aveva chiesto se le sarei rimasto vicino, e in tutta risposta avevo fatto lo sbruffone, promettendole che appena saremo arrivati a Nordema le avrei offerto un bicchiere dell'idromele della taverna di Liria. Il miglior idromele di tutta la contea.
Non sapevo con esattezza che cosa le sarebbe accaduto una volta che fosse scomparsa, né dove sarebbe andata. Non sapevo se conoscessi solo leggende, oppure la realtà, ma non volevo dirle una bugia, non di fronte a quella sua amara rassegnazione.
Il solo pensiero di vederla morta, però, mi aveva provocato una fitta dolorosa al petto e aveva spaventato anche me, fin dentro le fibre della mia anima. No, non volevo vedere la sua fine.
«Le ombre possono avere paura?» mi domandò con un filo di voce, tenendo lo sguardo dritto verso il tessuto color pergamena della tenda.
«Che io sappia no» risposi sicuro: «Ma tu sei anomala».
Cominciai a sollevarle la manica del vestito, per poi tracciarle con le dita sulla pelle le rune che mi avevano insegnato i druidi e che formavano gli incantesimi per contenere le ombre, cercando di distrarla.
«Ti insegno a leggere le rune, ti piacerebbe imparare?» sussurrai nel suo orecchio, prima di baciarne il lobo. Il mio tocco non la calmò, ma lei annuì e cominciai a pronunciare parole sottovoce, come una cantilena, mentre ne disegnavo il contorno sul suo braccio salendo dall'incavo del gomito verso l'alto.
Mi sembrò di sentire il suo battito cardiaco, ma era impossibile. Le ombre non hanno un cuore e probabilmente era l'eco del mio attraverso il suo petto, che tentava di trarmi in inganno. Non mi ero accorto di quanto fosse accelerato, finché lei non si era girata e rannicchiata contro di me per riaddormentarsi nel mio calore.
Quella stessa notte, stringendola tra le mie braccia, sognai il suo vero nome.
Stava per spuntare l'alba e Aryn ancora dormiva, un'espressione beata dipinta sul volto e le labbra incurvate in un sorriso grazioso.
Le scostai una ciocca di capelli dalla fronte, con quella parola che mi premeva contro la bocca per essere detta e sigillare la sua essenza.
Avvicinai il mio viso al suo, con la consapevolezza che l'avrei trasformata in una delle mie serve nere, legando la sua volontà ai miei comandi, ma anche con la certezza che non avrei mai più rivisto i suoi occhi, né quel sorriso e non avrei più udito la sua voce.
La sua forma, l'umana che aveva scelto di essere, si sarebbe sgretolata al mio richiamo, rendendola ciò che era per diritto di nascita: uno spirito del buio.
Mi morsi la lingua fino a sentire il sapore metallico del sangue. Posai la mano sul fondo della tasca, tirando fuori la bussola nera e la posai al mio posto, sulla coperta accanto al suo volto. La freccia continuava a puntare verso di lei e lo avrebbe fatto finché non l'avessi resa mia.
Uscii dalla tenda, sgattaiolando via senza fare alcun rumore. Presi il mio cavallo e partii al galoppo, lasciandomi Aryn alle spalle, ripetendomi in testa quel nome invece della verità; e mentre il vento mi schiaffeggiava violento la faccia, capii che non avrei permesso a nessuno di portarla via da me, nemmeno a me stesso.
Non avrei mai potuto mettere fine a tutto ciò a cui teneva di più, a tutto quello per cui aveva lottato nel deserto, la sua libertà.
Avevo sceso le scale in fretta e furia, sentendomi leggero a ogni gradino, come se potessi spiccare il volo. Non so per quale assurdo motivo pensai che la donna di cui mi aveva avvisato Liria potesse essere Aryn.
Non era lei.
Erano passati troppi giorni e l'avevo abbandonata in un luogo che non conosceva.
Il suo tempo doveva essere scaduto da un pezzo.
Zafeili, una domatrice con cui avevo un conto in sospeso, le avevo rubato la bussola che mi aveva condotto a Sabhali, mi attendeva seduta allo sgabello davanti al bancone, facendo roteare l'idromele ambrato nel suo bicchiere.
Mi fermai, chiedendomi che cosa avrebbe fatto lei con Aryn, al mio posto. Probabilmente l'avrebbe già catturata.
Mi sedetti sullo sgabello libero al suo fianco, mentre con un'occhiata riferivo a Liria che andava tutto bene. La padrona del Calice Verde mi guardava preoccupata da un tavolo dove serviva birra scura a dei nani parecchio rumorosi che stavano giocando a carte.
«Chi non muore si rivede» Zafeili alzò il bicchiere in saluto. Una lunga treccia bionda le ricadeva ordinata dietro la schiena e i suoi occhi erano glaciali come sempre.
«Che cosa vuoi?» le dissi brusco, intrecciando le mani sopra il bancone.
«Soltanto salutarti» mi rispose: «Giorni fa ero in giro per i villaggi gemelli di Darna e ho trovato una cosa che mi ha ricordato te». Estrasse dalla tasca una bussola nera e me la spinse davanti agli occhi. «A quanto pare non solo sei un domatore, e un ladro maldestro, ma sei anche capace di rompere le bussole sacre».
La freccia continuava a girare impazzita sotto al vetro, indicando qualsiasi direzione. Riconobbi il bordo scheggiato. Era la bussola che avevo lasciato ad Aryn.
«Dove l'hai trovata?» le domandai confuso e incredulo.
Mi lanciò un'occhiataccia: «A Darna, te l'ho detto. Dove tu l'hai gettata via». Allungai una mano verso la bussola, ma lei fu più svelta e la riprese con sé. «Non serve più a nulla, ma magari posso rivenderla a qualche allocco».
Un sospiro frustrato mi uscì dalle labbra. Se la bussola si era rotta significava che l'ombra di Sabhali era spirata. Volevo credere che fosse così, non potevo pensare che Aryn fosse diventata un Divoratore a causa mia.
«O magari la rivuoi tu. Allora sappi che questa volta è in vendita» mi sorrise malefica.
«Sei venuta qui solo per prendermi in giro?» la guardai dubbioso, evitando di spostare gli occhi sulla bussola che stava mettendo al sicuro dalle mie intenzioni.
«Dei Divoratori sono a Nord, sono tanti. Hanno già messo a fuoco la foresta dei Cinghani, mi chiedevo se questa volta ti andava di lavorare insieme. Ho convinto anche Proteo a venire con me».
«Sei saltata nel suo letto per convincerlo?».
«Cosa te lo fa pensare?» ridacchiò così forte che attirò l'attenzione di tutti gli avventori.
Mi stiracchiai le spalle intorpidite: «Non credo di esservi utile. Sono mesi che non lavoro».
«Proprio per questo dovresti ricominciare». Attirò il mio sguardo nei suoi occhi grigi: «Potresti raccontarmi, lungo il viaggio, che cosa ti rattrista così tanto. Potrei aiutarti».
«Taci» le intimai, scacciando una mosca invisibile.
«Lo prendo come un no?» rimarcò insistente.
«Ci penserò». Mi sollevai dallo sgabello per uscire a prendere una boccata d'aria. Le posai una mano sulla spalla per congedarmi, mentre l'altra scendeva veloce nella sua tasca e ne afferrava il contenuto.
«Non c'è più molto tempo, Jahir. Sarà una missione pericolosa e dobbiamo fare in fretta. Io e Proteo partiamo domani» mi avvisò decisa, senza accorgersi di nulla.
La notte era sempre gelida.
Osservai la bussola impazzita, stringendola forte nel palmo. Udii un ricordo, una parola. Il mio nome pronunciato da quella voce.
Sollevai lo sguardo su quel tappeto di stelle scuro e silenzioso, sopra i tetti del villaggio e il fumo che s'innalzava dai comignoli; quel cielo che osservava immutabile ogni nostra mossa e mi chiesi come sempre se Aryn fosse finita lassù, sperando di incrociare il suo sorriso nella notte.
Mi chiesi se mi avesse perdonato, anche se era più probabile che fosse ancora arrabbiata con me. Non avevo mantenuto la promessa, non le avevo fatto assaggiare l'idromele.
Un brivido mi percorse la schiena, come una carezza gelida, ma mi costrinsi a tenere lo sguardo incollato alla notte. Mi appoggiai ai mattoni ruvidi della taverna.
«Dove sei?» sussurrai, stringendo più forte la bussola, la scanalatura che premeva sui miei calli, come se potesse riportarmela indietro. Deglutii prima di pronunciare il suo vero nome, soltanto per rivederla un'ultima volta. «Kalime, dove sei?» riprovai titubante.
Non era possibile, non esisteva quel tipo di magia, ma la speranza non si annega a nessuno.
Non si era mai sentita da nessuna parte la storia che un'ombra fosse riuscita a domare un Tasair, eppure Aryn aveva saputo comandare i miei pensieri e i battiti del mio cuore, soggiogandoli a lei.
Non aveva usato rune antiche o incantesimi, ma soltanto sé stessa.
Tenebra formata in un luogo di pura luce.
Un'ombra che aveva gli incubi ma aveva creato sogni.
Una donna che mi aveva fatto innamorare.
Non avevo ancora la certezza di che cosa succedesse quando si spirava da questo mondo. Se si diventasse davvero un pezzo di notte, oppure cenere, o fumo, ma qualunque cosa fossi diventato giurai a me stesso che avrei cercato di ritrovare Aryn e farmi perdonare.
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