TROPPI PERICOLI
La mattina dopo mi sveglio che ancora non è giorno. Qualcosa di fastidioso mi ha fatto riemergere di soprassalto da un sonno agitato ma non ricordo affatto di aver sognato. Frastornata cerco l'orologio-sveglia nascosto sotto il cuscino. Sono le quattro e mezza del mattino.
Sbadiglio, mi stendo su un fianco nel tentativo di trovare una posizione abbastanza comoda, sistemo l'elastico del pigiama un poco più in basso sul fianco e chiudo gli occhi. Ieri sera, di ritorno dalla cascina, avevo detto a mia madre di non aver fame e mi ero chiusa a chiave in camera mia a ripassare il programma per gli esami di metà corso. Perciò ora il mio stomaco non fa altro che brontolare e mi tiene sveglia. Mi metto a pancia in giù e attorciglio i capelli in una specie di chignon per togliermeli dalla faccia. Devo aver sudato molto perché le punte sono umide e incurvate verso l'alto.
Cambiare posizione comunque non è servito a niente. Di riaddormentarmi non se ne parla proprio e non certo per via della fame o di un sogno che non ho fatto. So benissimo cos'è quel qualcosa di fastidioso che mi ha svegliata e che continua a tenermi sveglia. Il problema è affrontarlo.
Butto giù le gambe dal letto e strizzo gli occhi. Da dietro la porta sento il respiro pesante e regolare di mia madre ma non riesco a capire se anche mio padre è ancora addormentato. Socchiudo piano la porta, facendo il minor rumore possibile, pregando di non incontrarlo sul pianerottolo. Se non avessi l'urgenza impellente di andare al bagno non mi sarei mai avventurata fuori dalla mia stanza. Dopo quello che è successo ieri non ho nessuna voglia di ritrovarmi faccia a faccia con lui, per lo meno non finché la rabbia non gli è sbollita.
Ed eccola lì, di nuovo, quella sensazione sgradevole e fa-stidiosa. Quell'ondata di desolazione che si è abbattuta su di me da quando sono entrata nella cascina e che ancora non sono riuscita a scrollarmi di dosso.
Mi infilo sotto la doccia e sollevo il volto verso il forte getto d'acqua, trattenendo il respiro il più a lungo possibile. Quando una lacrima mi si intrufola nell'angolo della bocca, capisco di essere scoppiata a piangere. A far bene avrei dovuto farlo già da diverse ore, esattamente da quando ieri ero rientrata a casa. Invece avevo rimandato, ancora, e ancora, solo per la mia incapacità di gestire e affrontare il dolore.
Ritornare alla cascina era stato come rivivere gli ultimi i-stanti con Deniel. Avevo guardato all'interno, solo per qual-che secondo, ma nel momento esatto che i miei occhi si erano scontrati con i fasci di luce, per la prima volta avevo permesso ai ricordi di invadere la mia testa e di riempirla con le loro immagini. Ed ora non riesco a ricacciarli indietro, a farli tornare in quell'angolo buio e nascosto dove sembrava facessero meno male. Se ne stanno lì, avidi, bramosi di nutrirsi di ogni mia lacrima. E poco importa se la leggenda è vera. Posso ripetere per decine, centinaia di volte che Deniel in realtà è vivo, ma questo non cancella il male che gli ho fatto. L'ho pugnalato, il suo stomaco si è spaccato in due parti, ma sarò io a portare la cicatrice per sempre. E il ricordo del suo sangue sulle mie mani non potrò mai lavarlo via con dell'acqua.
Ricaccio in gola un singhiozzo e per qualche attimo resto senza fiato. E' troppo. E' insopportabile. Allora mi impongo di riversare tutta la mia concentrazione su qualcosa di stupido, prima di sbriciolarmi dal dolore. Per un po' sembra funzionare. Mi friziono bene i capelli, provo a contare le doppie punte presenti in una ciocca, leggo per due volte tutti gli ingredienti del balsamo che usa mia madre. Poi purtroppo l'acqua calda si esaurisce prima che i mie nervi si distendono. Frugo nel disordine del cassetto dei trucchi che divido con mia madre e ritrovo un barattolo di crema al muschio verde che avevo comprato per far piacere a Luke quando ancora stavamo insieme. Impiego una dozzina di minuti a spalmarmela per bene, anche se di solito me ne bastano la metà. Infine mi infilo l'accappatoio e torno in camera mia, gettandomi sul letto a faccia in giù.
L'acqua della doccia ha spazzato via tutto il sudore e un po' di quella sensazione sgradevole che per tutta la notte mi ha tormentata. Ma i ricordi sono ancora tutti lì, ancor più avidi di prima. Mi rigiro di scatto, annaspando sul comodino alla ricerca delle cuffiette e schiaccio <<play>>. La musica è un po' alta ma mi accorgo che una volta superato il primo impatto mi aiuta a non pensare. Dalla finestra comincia a entrare un po' di luce perciò tiro su la coperta e resto nascosta là sotto finché mi addormento.
Riapro gli occhi al suono rassicurante e familiare dell'aspirapolvere e del fischiettio di mia madre. Nel sonno devo aver scaraventato a terra la coperta perché ho i piedi freddi e un raggio di sole mi centra in pieno la faccia. Strizzo gli occhi per abituarmi alla luce abbagliante e mi stiracchio. Appena controllo l'ora, lancio un grido e scatto giù dal letto col cuore in gola. Dato il mio stato d' animo, questa notte non mi ero preoccupata di caricare la sveglia, supponendo che non sarei riuscita a chiudere occhio. Maledizione!
Mi preparo in fretta e furia, senza stare a perder tempo a truccarmi e mi precipito al piano di sotto. Appena entro in cucina mia madre mi viene incontro con una tazza di caffè.
"Ben alzata. Avevi proprio sonno, eh".
"Perché non mi hai svegliata?", urlo, tentando di cammi-nare e allacciarmi una scarpa contemporaneamente.
"Non mi hai chiesto di farlo".
"Avevo un'importantissima lezione questa mattina", pia-gnucolo, allargando le braccia. "Tutte le madri svegliano i propri figli quando è mezzogiorno. Perché tu no? Perché?".
Mi sventola la tazza di caffè sotto il naso. "Bevi".
"Non mi va". Sono talmente agitata che ingurgitare caffè non è proprio una brillante idea. "E poi non ho tempo. Se mi sbrigo, forse riesco a non perdere anche l'ultima lezione del pomeriggio".
"Vuoi che ti accompagni? Così non devi perdere tempo a cercare un parcheggio".
"No". M'infilo la giacca e controllo se nella tracolla ci sono tutti i libri che mi servono. "Prendo la mia macchina così poi non devo tornarmene a piedi".
"Dovresti fare più movimento, sei troppo sedentaria. Tieni", mi allunga la patente, "l'avevi lasciata sopra il tavolino del soggiorno".
"Ah, grazie", mugugno distratta, richiudendo la tracolla.
"Perché non vieni in palestra con me e le mie colleghe?".
"Ehm... ci penserò. Promesso... Ma dove diavolo le ho messe le chiavi della macchina?".
"La prossima settimana iniziamo il corso di difesa personale", continua a ciarlare, inseguendomi per casa.
"Dove sono? Dove sono?", brontolo tra me e me. "Ah, eccole qua". Acciuffo le chiavi da sopra la scrivania di mio padre e punto la porta. "Ci vediamo più tardi".
"Ci verrai?", mi rincorre. Dalla tazza si rovesciano alcune gocce di caffè.
Sollevo la testa, improvvisamente attenta. "Dove?".
"Al corso di difesa personale, insieme a me".
La fisso a lungo, presa in contropiede, cercando una scusa decente per rifiutare senza il rischio di offenderla. Chissà come la prenderebbe Andrew se frequentassi un corso simile?
"Sarebbe divertente", mi sorride.
Sgrano gli occhi, immaginando me e lei a combattere contro un sacco nero da box. O meglio, lei che cerca di combattere ed io che cerco di fingere di non saperlo fare.
"Non ne dubito", farfuglio.
Il suo sorriso si allarga mentre mi prende sotto braccio e mi accompagna con tutta calma verso l'ingresso. Come se avessi tutto il tempo del mondo.
"Riesco quasi ad immaginarci", esulta come una ragazzina, dando per scontato che io abbia intenzione di accettare. "Noi due insieme ad imparare a tirare un calcio o un pugno. Tu riesci ad immaginarlo?".
"Fin troppo bene", sorrido rigida. "Però, a dir la verità, ho molto da studiare in questo periodo. Non me la sento di prendermi ulteriori impegni".
In un lampo la delusione rimpiazza la sua espressione eccitata. "Sarebbe solo per qualche ora alla settimana".
"Lo so, ma non mi ci vedo proprio a lottare...", faccio una smorfia di insofferenza, accorgendomi della sua espressione. Infine tiro un lungo sospiro. "Ci penserò su, d'accordo?".
"Okay".
"Ora lasciami andare, per favore, sono in ritardo sul mio ritardo".
Mi infilo in macchina e abbasso i finestrini, lasciando che all'aria fresca mi svegli del tutto. Rimpiango quasi di aver rifiutato il caffè, mi avrebbe tenuto compagnia lungo il tragitto. Quando sto per arrivare al piccolo parcheggio davanti all'Aims Community adocchio un posto libero subito prima dell'ingresso e mi ci infilo senza pensarci. Entro in aula un po' in ritardo e mi siedo velocemente accanto ad Irene, nell'ultima fila. Il professore sta citando alcuni versi di un poema di Aristotele e non sembra fare caso a me. Estraggo dalla tracolla un block e una penna e tento di inserirmi nella lezione. Dopo qualche attimo Irene mi passa un bigliettino piegato in tre parti.
Ti ho aspettata tutta la mattina. Dove sei stata? Nemmeno Anne me l'ha saputo dire.
Sbircio verso Anne, seduta tre file davanti a noi, accanto a Nick. Si sforza di guardarmi solo con la coda dell'occhio, ma si vede che ha un disperato bisogno di parlarmi. Abbasso lo sguardo, giro il biglietto verso la parte bianca e scrivo velocemente la risposta.
Ieri sera ho fatto tardi e non sono riuscita a dormire molto bene.
Irene fa un sospiro e per un po' prestiamo attenzione alle parole del professore. A cinque minuti dal termine della lezione posa un altro biglietto sulle mie ginocchia e resta ad osservarmi mentre lo leggo.
C'è stata un'aggressione nel campus ieri notte. Una ragazza è stata uccisa. Questa mattina la polizia ha fatto domande un po' a tutti. Meno male che tu sei arrivata tardi. Ti sei risparmiata un mucchio di seccature.
Appallottolo il foglietto e lo lascio cadere all'interno della mia tracolla. Poi affino lo sguardo, nervosa, in cerca di Anne e Nick; li trovo voltati verso di me, intenti a lanciarmi un messaggio usando il labiale. Faccio un segno con la testa per far capire loro che voglio incontrarli davanti alla mensa, ma proprio in quel momento suono la campana di fine lezione e mi si parano di fronte le schiene degli studenti seduti davanti a me.
"Per me è stato uno dei professori," ipotizza qualcuno alle mie spalle.
"Vuoi scherzare?", replica un altro. "Quella ragazza è stata ridotta quasi a pezzetti. Io credo sia stato qualche ragazzo della squadra di football. Alex, magari! Bisogna avere dei muscoli così per picchiare in quel modo...". La frase prosegue ma non riesco a captare altro.
Riprendo a cercare con lo sguardo Anne e Nick ma sembra che siano stati inghiottiti dalla folla, perciò esco in fretta e furia dall'aula e attraverso quasi correndo il corridoio, fino a fermarmi davanti al prato del campus. Mi sollevo sulla punta delle scarpe e fisso attentamente tra le tante teste che mi passano davanti.
"Chi stai cercando?". Irene mi si ferma accanto e cerca di seguire la traiettoria del mio sguardo.
"Anne", le rispondo, voltando la testa a destra e a sinistra.
"Siete molto amiche, vero?", indaga.
Osservo alcune ragazze allontanarsi verso il parcheggio, a braccetto con i propri fidanzati.
"Direi di sì", le rispondo distratta, cercando di mostrarmi tranquilla per quanto mi è possibile.
Alzo il braccio in segno di saluto ad un ragazzo dal volto familiare, sforzandomi di apparire il più normale possibile. Non è divertente restare impassibile e fingere di essere una studentessa mite e indifesa, quando esiste la possibilità che quell'aggressore stia camminando vicino agli altri studenti, scegliendo probabilmente la sua prossima vittima.
"Se sei qui in macchina mi daresti uno strappo fino a ca-sa?", mi chiede Irene, strappandomi ai miei pensieri.
Annuisco e la prendo sottobraccio. Attraversiamo il prato e con una scusa assurda la trattengo per qualche minuto all'interno del parcheggi per accertarmi che nessuno sia in pericolo. Ancora nessuna traccia di Anne e Nick.
"Andiamo?", mi chiede tranquilla, ignara.
Stringo il volante con tanta forza che temo di vederlo sbriciolarsi sotto la pressione delle dita. Irene finge di giocherellare con le stazioni radio ma è abbastanza evidente che mi sta studiando: sembro sull'orlo di una crisi isterica.
Merda! Non posso trattenermi ancora con Irene accanto.
"Ti va un gelato?", mi propone.
Avvio il motore e imbocco Thompson Street.
"Ahm... sì. Gelato? Sì, sì". Agguanto il cellulare e compongo frenetica il numero di Anne.
"O se preferisci potremmo andarcene al centro commerciale".
"Come vuoi", le rispondo distratta, contando sottovoce il numero degli squilli.
Al decimo, Anne mi risponde in un sussurro. "Hai sapu-to?".
"Sì. Dove sei?".
"Dietro uno scaffale della biblioteca, al secondo piano. E-sattamente tra il vocabolario di spagnolo e quello di greco. E' l'unico nascondiglio decente che ho trovato. Tu dove sei?".
"Sto andando a prendermi un gelato".
"Cosa stai facendo?", gracchia.
"Sono con Irene", mi giustifico, guardando la mia amica di sbieco per controllare ciò che sta facendo. Mi fissa. "Hai già informato Andrew?".
"No. Temo che non approverebbe questa mia iniziativa e onestamente non ho tempo di sorbirmi una delle sue prediche. L'aggressore potrebbe essere ancora all'interno del campus e non ho intenzione di farmelo scappare perché Andrew pensa che come donna dovrei starmene a casa a cucire calzini".
"Sei sola?".
"C'è Nick qua con me. Tu preoccupati di Irene, tienila lontano dal campus".
"D'accordo. Senti...", mi interrompo, guardando Irene di sbieco. "Ehm... ti ricordi di quei ragazzi che avevamo incon-trato io ed Andrew?".
"Pensi che siano loro ad aver aggredito la ragazza al campus?".
"Aaah non lo so", rispondo, impostando la voce su un tono falsamente allegro. Irene mi fissa senza capire, mimando con le labbra che succede?. La ignoro. "Cosa ti ha detto Andrew di loro?".
Dall'altra parte c'è un attimo di silenzio. "Che potrebbero essere gli assassini che stiamo cercando. E che hanno uno strano tatuaggio accanto alla tempia. Forse sono una specie di setta o...".
"Venti, Anne", la interrompo brusca. Penso a Nick e per poco il cuore mi sale direttamente in gola. "Sono almeno in venti".
"Ah!".
"Vieni via da lì, ti prego".
"Ahm... Còrin...", farfuglia. "Non lo so se... vuoi aspettare un attimo?", parla a qualcun altro senza staccare le labbra dal telefono. "Se solo ti sforzassi di essere più gentile...", la voce si affievolisce e da lontano la sento imprecare contro qualcuno. "Restituiscimi subito il telefono!".
Dopo un' altra pausa mi raggiunge una voce diversa: "Promettimi che non ti fidanzerai mai con un collega".
Aggrotto la fronte, fissando per un secondo il cellulare. "Nick? Sei tu?".
"Sì, sono io. Ascolta, qua la situazione è davvero tranquilla. Non c'è niente di cui debba preoccuparti. In ogni caso ti assicuro che userò Anne come scudo umano... lasciami finire!".
"Non ti ho interrotto", obietto.
"No scusa, stavo parlando con Anne. Tu occupati di Irene".
"Nick...", sbotto. "Ho il vago sospetto che tu abbia origliato la mia conversazione con Anne, perciò suppongo non ti sia sfuggita la parte in cui dicevo di andatevene via di là".
"Perché?", dal tono di voce che usa capisco che non mi sta prendendo sul serio.
Perdo la pazienza. "Ripassami Anne!".
"Scordatelo!".
"NICK!".
Lo sento sbuffare. "Senti, credi davvero che se fossero entrati in venti dentro questo campus nessuno se ne sarebbe accorto?".
Ci penso sopra. "Magari sono entrati dal retro, dove c'è quel piccolo lago".
"Sul retro ci sono gli alloggi degli studenti. Qualcuno a-vrebbe dovuto vedere qualcosa", mi contesta.
"Beh, allora dal davanti", non mi do per vinta.
"Dall' entrata principale? Non scherzare".
Contorco le labbra. "Dall'ala est?".
"Piantala, Còrin. Andrà tutto bene. Ti terrò aggiornata".
"Non lo so Nick... nick?... NICK?". Impiego un attimo a capire che sto parlando al segnale muto del telefono. La comunicazione è stata tolta prima ancora che avessi il tempo di pronunciare l'ultima frase.
"Ma porca miseria!!!!".
Scaglio il cellulare sui sedili posteriori tenendo lo sguardo fisso sulla strada nel vano tentativo di ignorare le occhiate perplesse di Irene. So benissimo che tra qualche istante formulerà a voce alta la domanda che le sta frullando nella testa, perciò alzo il volume dello stereo per scoraggiarla. Attraversati due incroci, fermo la Renault davanti al bar sotto casa sua e con un sospiro apro la portiera. Irene mi segue ammutolita fino all'interno del locale e si siede sullo sgabello accanto al mio, dopo aver ordinato due cioccolate calde alla ragazza dietro il bancone.
"Allora?", attacca ad un certo punto. "E' da un po' che noi due non parliamo".
"Già". Apro una bustina di zucchero e verso metà contenuto nella tazza. Non riesco a concentrarmi in una conversazione col pensiero pressante di Anne e Nick all'interno del campus. Sono quasi tentata di chiamare Andrew, e al diavolo le sue polemiche.
"Ti ha più cercata?", mi chiede.
Irrigidisco i muscoli delle spalle. "Chi?".
"Deniel". Si ficca in bocca un cucchiaino di cioccolata, cercando le parole giuste per non ferirmi. "Mi hai detto che da quando è partito non si è fatto più sentire, perciò mi chiedevo se nel frattempo l'avesse fatto".
Il desiderio soffuso eppure inesorabile di confidarmi con qualcuno di normale mi coglie impreparata.
"L'ho rivisto", mi lascio sfuggire una smorfia. "Cioè, credo di averlo visto. Ma non ci siamo parlati e lui non si è avvicinato a me".
"Non sembri contenta", azzarda, notando la mia espres-sione nervosa.
"Lo sono invece. E molto. Solo che...", mi blocco per deglutire un sorso di cioccolata. E se Nick ed Anne dovessero aver bisogno di un rinforzo? Mi chiedo di nuovo se non coinvolgere Andrew sia proprio una brillante idea.
"Solo che è pericoloso?".
Concentrata come sono, la domanda di Irene mi fa trasalire. Un pezzo di bigné mi cade sui pantaloni. "Come hai detto?".
"Se non ricordo male, Nick non faceva che ripeterti di la-sciarlo perdere per questo motivo", prosegue. Poi increspa le sopracciglia, come se qualcosa non la stesse convincendo del tutto. "Davvero è pericoloso?".
"No, non lo è", mento. D'altra parte, la parola "pericoloso" è alquanto riduttiva per un ragazzo senz'anima.
"Io l'ho visto una sola volta e mi è sembrato un ragazzo apposto e", fa una pausa ad effetto, strizzandomi l'occhio, "incredibilmente bello. Ma cattivo? Naaa".
Non ha nemmeno la vaga idea di quanto si stia sbaglian-do. Abbasso lo sguardo sul braccio. I segni sono del tutto scomparsi, ma il ricordo di lui che mi colpisce è ancora molto vivo.
"Alle volte, si comportava come se non sapesse il vero significato di amare", farfuglio tra me e me, fissando la tazza davanti al mio naso. "Come se non riuscisse a provare gran parte dei sentimenti umani".
Irene mi guarda per un lungo momento, confusa, senza aggiungere nulla. Chissà cosa e quanto le ha raccontato Nick? Poi allunga una banconota alla cameriera e una volta fuori dal bar riprende il discorso.
"Però è tornato a Loveland per te. E questo dovrà pur si-gnificare qualcosa. Ti ha contattata?".
Abbasso gli occhi e scalcio un sassolino. Parlare di Deniel con la mia amica del cuore non è semplice come fare la stessa cosa con Anne. "Diciamo che sarebbe più giusto dire pedinata".
"Dio che cosa romantica!".
"Romantica?". Sono incerta. Se non fosse che Deniel ha difficoltà a lasciare in vita le persone, e che quasi sicuramente è rimasto a Loveland solo per vendicarsi... sì, potrebbe essere una cosa romantica.
Irene mi da uno spintone. "E dai! Ho già pronto il copio-ne".
"Quale copione?", chiedo, ancora più incerta.
"Quello della tua vita! Cerca di seguirmi". I suoi occhi si perdono sognanti nel vuoto. "Un ragazzo scarica la propria fidanzata senza un'apparente ragione...".
"Magari una ragione ce l'aveva", mi sento in dovere di di-fenderlo.
Mi lancia un'occhiataccia. "Le motivazioni dei ragazzi non sono mai valide. Un mio ex mi ha lasciata dopo un mese perché sosteneva che avevo l'alluce del piede troppo piccolo".
Scoppio a ridere, avviandomi lungo il marciapiede, in direzione di casa sua. Irene mi segue tenendo lo sguardo sempre fisso nel vuoto, parlando a raffica.
"Quindi, il copione prevede che qualcuno colpisce Deniel alla testa...".
La interrompo ancora. "Dubito che qualcuno possa colpire Deniel alla testa".
"La smetti di interrompermi?".
Mi tappo la bocca con una mano.
"Dopo che questo qualcuno l'ha colpito alla testa, il ragazzo si rende conto di amare alla follia la fidanzata che aveva lasciato, solo che non sa come dirglielo né come farsi perdonare, perciò decide di pedinarla per poter in qualche modo starle accanto".
Resto in silenzio per un po'. "Uhm! E cosa c'è di tanto romantico in questo copione?".
"Vorrai scherzare?".
"Io credo che questo sia profondamente drammatico. Nella tua testa Deniel mi pedina perché mi ama ma, oltre a non sapere come dirmelo, ha paura di farlo?".
"Esattamente! E qui entri in ballo tu".
Mi fermo davanti al cancello bianco del suo viale, spalan-candolo come invito per farla entrare in casa prima che di-venti completamente buio.
"Perché?", chiedo.
Resta ferma dov'è, ignorando il cancello aperto.
"Tu potresti aiutarlo a farlo parlare".
"Non posso andare da Deniel e chiedergli il perché non se ne è mai anda...", mi mordo la lingua giusto in tempo, "volevo dire... perché è tornato a Loveland".
"Perché no?".
"Perché ho paura della sua risposta", mormoro, tornando a farmi seria.
"La risposta la sai".
"So la risposta che c'è nella tua testa, ma non conosco quella che c'è nella sua".
"Una ragione in più per andare a parlargli, ti pare?".
Alzo gli occhi su di lei, pronta a ribattere, ma un movimento sopra le sue spalle mi blocca il respiro.
"Oddio abbassati!", le urlo, sgranando gli occhi verso l'uomo che la sta per colpire alla schiena.
"Cosa?", mi chiede senza badare al mio avvertimento.
L'afferro per un polso e la trascino da parte. Il bastone mi colpisce alla fronte e scivolo all'indietro sul marciapiede. Un rigagnolo di sangue mi scorre velocemente lungo la tempia e mi copro il viso con le braccia per impedire all'uomo di colpirmi una seconda volta.
"Scappa", le grido.
Ma Irene resta paralizzata a fissarci con gli occhi colmi di lacrime.
Irrigidisco i muscoli dello stomaco e con uno scatto mi sollevo da terra. Raggiungo la mia amica e, scalciando dietro di me, riesco ad allontanare l'uomo di un paio di passi.
"Corri".
La strattono per un braccio e la trascino con me lungo la strada. Ci gettiamo lungo le vie della periferia, prendendo per dei vicoli che conosco a memoria. A metà corsa, Irene si blocca e si piega in avanti, posando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.
"Còrin", singhiozza, "non ce la faccio più".
Un rumore secco dal fondo della via mi fa sobbalzare. Scatto verso Irene e la trascino con foga dietro l'angolo di una casa.
"Che vuole quello là? Che cosa facciamo?", si lagna, asciugandosi le guance e lanciando occhiate terrorizzate in fondo alla via.
Un altro rumore secco mi paralizza e cerco di capire da che punto provenga.
"Ascoltami", dico, afferrandola per le spalle. "Resta nascosta. Non ti muovere. Non respirare. Io torno subito".
"No, no, no", scuote la testa, tremante. "Non lasciarmi da sola".
"Devo farlo, Irene. Non allontanarti da qui. E fai in modo che io possa vederti in ogni momento".
Alzo la testa in tempo per accorgermi che il tale sta per raggiungerci. Una seconda ombra in fondo alla via appare e scompare così in fretta da non permettermi di capire la direzione che ha preso.
Irene mi tira per un braccio. "Non potremmo continuare a restare nascoste come farebbe qualunque altra persona normale del mondo?".
"Il muro perimetrale di una casa non è un nascondiglio".
Libero il braccio bruscamente, voltandomi per un breve istante verso di lei. Le lacrime hanno ripreso a scorrere sulle sue guance arrossate.
"Ma ti farà del male!".
"Molto male", aggiunge in un sibilo l'uomo dietro di me.
Piego le labbra in un ghigno con la testa che mi brucia per la preoccupazione.
"D'accordo", lo sfido, allontanandomi di scatto da Irene. "Fammi vedere".
Quando fa per colpirmi con un calcio, agguanto la sua caviglia approfittando del suo sbilanciamento e la spingo all'indietro. Faccio un salto evitando che un altra sua pedata a raso terra mi colpisca agli stinchi e atterro direttamente sul suo fianco. Dalla bocca gli parte un sordo gemito. Gli sferraglio due colpi secchi alle tempie, poi mi tuffo nel vuoto per schivare le sue braccia che stanno per immobilizzarmi i fianchi ma all'ultimo una sua spallata mi fa rotolare sull'asfalto. Qualcosa di terribilmente duro si schianta contro la mia fronte, lasciandomi paralizzata a terra, senza fiato.
"No, ti prego. Aiuto!".
Appena sento la voce di Irene rotolo su un fianco e impunto un gomito a terra in un goffo tentativo di rialzarmi. Alcune gocce di sangue creano una patina davanti ai miei occhi e per qualche secondo riesco solo a distinguere i contorni delle cose. Strizzo gli occhi, impianto a terra anche l'altro gomito e faccio leva sulle braccia.
In quell'istante esatto, un'ombra mi si para davanti, avvi-cinandosi con movimenti lenti ed eleganti. Sbatto le palpebre tre volte per metterla a fuoco ma, con la stessa rapidità con cui è apparsa, si lascia inghiottire dalle altre ombre per ricomparire un istante dopo ad una decina di passi da me.
"Scappa. Ora!", dice in un soffio.
I muscoli mi si paralizzano nel momento in cui riconosco quella voce familiare, profonda, bellissima. E questa consapevolezza trasporta con se un dolore nuovo, forse ancor più reale.
"Deniel?", sussurro.
Nel preciso istante che pronuncio il suo nome, la sagoma scompare completamente dalla mia visuale, evaporando come se fosse stata un sogno.
"Còrin, aiuto! Qualcuno mi aiuti!!!".
"Irene...", biascico, incapace di muovermi.
Per qualche secondo ancora resto a fissare il punto in cui ho visto scomparire quella sagoma, ma al suo posto c'è solo la via buia, attraversata da un sottile raggio di luna che si riflette su una pozzanghera. Assurdamente scelgo di dar ascolto alla parte meno razionale di me che si rifiuta di credere sia stata una banalissima allucinazione e giro frenetica su me stessa, puntando lo sguardo in ogni angolo della via in cerca di un indizio che mi possa far credere che non ho sognato tutto.
Ed eccola di nuovo. La stessa figura nera. Talmente maestosa da riempire la via.
Altre gocce di sangue mi colano dentro gli occhi fungendo da barriera tra me e la sagoma perciò cerco disperata di toglierle passandomi il dorso della mano. Tuttavia non sono in grado di distinguere altro se non due mani pallide attorno al collo dell'uomo che mi stava aggredendo.
Il rumore sordo di un osso spezzato mi fa accapponare la pelle. Sento un urlo fortissimo e impiego un attimo a capire che viene da me. Poi l'uomo cade a terra in una posizione innaturale e l'altra ombra scompare dalla mia visuale, tanto velocemente che non riesco a rendermi conto di dove sia andata. Mi volto di scatto e vedo Irene rannicchiata dietro il cassonetto, con la testa nascosta tra le ginocchia. Balzo in piedi, recupero la sua borsetta da terra e le corro incontro. La devo scuotere per le spalle per una decina di secondi prima che si convinca a sollevare la testa.
"Dov'è?". Sta tremando dalla testa ai piedi.
"E' svenuto", mento, "qualcuno è intervenuto in nostro aiuto, colpendo quell'uomo alla fronte".
"Chi?".
"Non lo so. Tu come ti senti?".
"Bene... tutto sommato. Oh, hai recuperato la mia borsetta", nel dirlo si riprende un attimo. Fa per voltarsi verso l'uomo a terra ma le blocco la mascella.
"Non guardare". Anche un cieco si accorgerebbe che è morto. "C'è del sangue".
"Ce n'è anche sulla tua faccia". Allunga un dito sulla mia fronte, accanto alla ferita.
"Sì", sospiro, pulendomi gli occhi con la manica della giacca. L'unico mio pensiero è di allontanarmi da qui prima che qualcuno ci veda. "Vieni, andiamocene".
L'aiuto a rialzarsi tenendola fissa per i fianchi, poi la spin-go velocemente in fondo alla via. Attraversata la strada, l'assisto fino a quando arriviamo davanti all'ingresso di casa sua.
"Ho preso un bello spavento", commenta pallida, aprendo la porta. "Se non ci fossi stata tu sarei morta di paura. E' incredibile quello che hai fatto. Hai affrontato quel tale senza un minimo di esitazione. Senza nemmeno pensarci su". Mentre parla le sue guance riprendono un po' di colore. Controlla la mia fronte insanguinata. "Penso che dovrai metterti dei punti".
Mi passo il dorso della mano sulla tempia e la pulisco dal sangue strofinandola sui jeans.
"E' solo un brutto graffio", mi sforzo di tranquillizzarla. Almeno è quello che spero, considerando che sento il sangue scivolarmi lungo il collo fin sotto il colletto della giacca.
"Non è un graffio! E' un taglio bello profondo. Potresti morire!".
Uhmm... come riassunto della mia vita non è niente male.
Sento il sapore metallico e salato del sangue in bocca e stringo i denti per non vomitare. Non è niente, non è niente!, mi ripeto, giusto per non cadere totalmente nel panico. Infondo, quante altre volte mi è capitato di essere ferita in testa? Non serve a niente fare la martire. Irene è salva, io non sto affatto morendo e, oddio!, quell'uomo è stato ucciso da un'ombra. E anche se il mio cuore si rifiuta di crederlo, la mia testa gli ha già attribuito un nome.
"Ti porto all'ospedale", sentenzia. "Poi chiameremo la polizia".
"Ospedale?", trasalo, cercando di togliermi di dosso la sua mano. "Non ce né bisogno, te lo assicuro".
Ma lei mi ha già trascinata fino alla mia auto ed ha spalancato la portiera del passeggero.
Ammutolita e frastornata dalla botta in testa mi raggomitolo sul sedile, fissando la strada che porta all'ospedale, stringendo tra le mani un fazzoletto intriso di sangue. Solo a metà percorso mi rendo conto di cosa significa entrare in un ospedale dicendo che un uomo mi ha aggredita. Spalanco gli occhi verso Irene, trattenendo il respiro e costringendomi a non guardare la scritta PRONTO SOCCORSO alla mia destra.
"Magari entro da sola, ok?", balbetto. La nausea è aumentata.
"Non se ne parla".
Parcheggia accanto ad un'ambulanza e balza giù dal sedile per correre ad aprirmi la portiera.
"Ma io sto bene", mi dimeno, quando cerca di aiutarmi a farmi scendere.
Gira la chiave nella toppa e mi afferra per un polso, come se avesse paura di vedermi scappare. Cosa tra l'altro che sto valutando seriamente da qualche minuto. Quando entriamo, l'odore di medicinali aumenta la mia nausea e alcune persone si fanno da parte per lasciarci passare. Brutto segno! Questo vuol dire che la ferita è peggio di quel che mi sembrava quando l'avevo osservata nello specchietto retrovisore della mia Renault.
"Irene?", la chiamo, appena mi accorgo che un'infermiera ci ha puntate. "Potremmo evitare di dire che siamo state aggredite?".
Mi guarda stralunata. "E perché mai?".
Distolgo lo sguardo, inventando a raffica una scusa plausibile. "Non me la sento di avere attorno dei poliziotti... magari, Luke. Mi capisci?".
Il suo sguardo si accende di comprensione. Annuisce lentamente con la testa, come se fosse arrivata sol ora ad un'importante intuizione.
"Luke! Dio mio, scusami. Non ci avevo pensato. Ah, quanto sono stupida. E' chiaro che non vuoi vederlo, dal momento che anche lui ti ha lasciata".
"Già", bofonchio. Sembra che gli uomini facciano a gara per lasciarmi. Ma forse Irene ha un buon copione anche per Luke.
La vedo far cenno all'infermiera che si sta avvicinando.
"La mia amica ha sbattuto la testa contro il fanale della macchina qua fuori", le spiega a voce alta. Troppo alta.
Alcune persone si voltano a guardarci, poi distolgono lo sguardo divertiti. Sicuramente staranno pensando che sono ubriaca.
L'infermiera affretta il passo ed esamina da vicino la ferita prima di condurmi verso la sala ambulatorio.
"Lei aspetti pure qua fuori". Fa un gesto con la mano verso Irene, continuando a fissarmi la fronte. "Ma... non vedo pezzi di vetro", nota all''istante, continuando a rivolgersi a lei. "E' sicura che abbia sbattuto proprio contro il fanale di un aiuto?".
Irene annuisce innocente. "Della sua auto. Certo".
"Potrei vederla?".
Io ed Irene sussultiamo nello stesso preciso istante.
"La mia auto?", boccheggio, lanciando un'occhiata furente verso Irene.
"Ehm... certamente". Irene risponde alla mia occhiata con uno sguardo che sta a significare non uccidermi.
L'infermiera annuisce con aria saggia, continuando a spingermi verso la sala. "Faccio sdraiare la sua amica sul lettino e la raggiungo subito. Mi aspetti qui".
Da dietro la porta sento la voce squillante e ansiosa di I-rene. "Ma certamente. Come no? L'aspetterò proprio qua davanti. Non mi muoverò di un passo, resterò proprio...". Il resto della frase viene sovrastata dal rumore della porta che l'infermiera ha chiuso con fin troppo slancio.
Mi sdraio sul foglio di carta azzurra che copre l'ultima branda della sala, separata dagli altri lettini da una tenda dello stesso azzurro, infine chiudo gli occhi, cercando di calmarmi e di non immaginare in che modo Irene sta distruggendo il fanale della mia Renault. Una volta uscita di qua, avrò tutto il tempo per fargliela pagare.
Dopo qualche minuto, sento avvicinarsi dei passi e dalla tenda compare il camice bianco di un dottore sulla quarantina.
"Allora? Cosa abbiamo qua?". Si china sul lettino, piegan-do la testa prima a sinistra e poi a destra per studiare l'entità del danno. "E' una bella botta in testa".
"Sto bene".
Stringo i denti quando le sue dita mi tastano il taglio.
"Nausea?".
"No", mento.
"Giramenti di testa?".
"No, no".
"Dovrò darti dei punti", passa al tu nel darmi la notizia.
Si siede su uno sgabello e s'infila dei guanti in lattice. Poi lo vedo estrarre dalla confezione una siringa sterile.
"Sta scherzando, vero?", strillo. La stanza si è trasformata in una trottola impazzita. "Non vorrà usare quella cosa su di me?".
Abbozza un sorriso, inviandomi una veloce occhiata. "Questa è solo l'anestesia".
"Nel senso che poi l'ago che userà sarà molto più gros-so?".
Abbozza ancora nell'afferrarmi le dita. Mi rendo conto solo ora che gli ho immobilizzato un polso.
"Rilassati ora. Sentirai solo un lieve bruciore".
Deglutisco.
"Non lo faccia, la prego", farfuglio spaventata.
Improvvisamente la stanza smette di girare e il buio mi inghiotte prime ancora che l'ago riesca a forarmi la pelle.
Alla fine la ferita era veramente meno preoccupante di quello che sembrava; niente commozione celebrale, solo tre punti. O almeno così mi è sembrato di capire dal momento che il medico non ha avuto l'accortezza di aspettare che rinvenissi del tutto prima di riferirmi l'esito.
"Vado a chiamare la tua amica. Ma mi raccomando... ora devi riposare, quindi niente forti emozioni almeno per qualche ora. Siamo d'accordo?".
Questa è stata la frase con la quale si è dileguato in fretta e furia per andare ad accogliere altri pazienti in condizioni più gravi della mia.
Mi stiracchio sul lettino e mi metto a sedere troppo in fretta, col risultato che perdo l'equilibrio e per poco non finisco distesa a terra. Devo avere un aspetto terribile; sento i capelli appiccicaticci -probabilmente per via del sangue- e la pelle della fronte tirare. Mentre aspetto Irene mi guardo attorno alla ricerca di uno specchio, senza osare sbirciare aldilà della tenda azzurra per paura di imbattermi in qualche paziente moribondo. Dopo un po' mi arrendo, torno a sedermi sul lettino tenendo le gambe penzoloni e mi concentro sui macchinari addossati alla parete e sulle bottigliette di medicinali allineate ordinatamente su un carrellino.
Sento aprirsi la porta. Smetto di dondolare le gambe.
"Irene? Sono qua. Giurami che non ti metterai a ridere quando mi vedrai".
I passi si avvicinano. Tiro un lembo del camice per coprirmi un ginocchio e atteggio le labbra ad un broncio.
"Mi hanno fatto indossare anche questo schifo di camice a pallini".
Altri passi, ancora più vicini. Non vedo l'ora di dirgliene quattro per aver demolito parte della mia macchina. Cono-scendola non si sarà limitata ad un fanale.
Infine la tenda si tira e i miei occhi smettono automaticamente di registrare qualunque dettaglio della sala. Il respiro inciampa, il cuore prende a singhiozzare, le mani cominciano a tremare e a sudare. Tutti i miei sogni, tutti i miei ricordi, si sono materializzati davanti a me.
Deniel!
E per quanto nitidi, non gli avevano reso giustizia.
Se ne sta a lato della tenda appena tirata, le braccia incrociate, la fronte lievemente aggrottata. Mi fissa immobile, con le labbra chiuse e un'espressione confusa ma composta. Perfettamente identico all'ultima volta che l'avevo visto, tranne che per una cosa: l'espressione degli occhi. Quella minuscola parte di umanità che lo rendeva meno spietato è completamente scomparsa, trasformandosi in una malignità che mi fa rizzare i peli delle braccia.
Il terribile sospetto che sia qui per uccidermi si insinua nella mia mente prima ancora che abbia il tempo di respin-gerlo. Ma riesco a scacciarlo quasi subito, lasciando posto ai ricordi che, per quanto confusi, assumono un completo controllo sulla mia mente. Certo, una parte minuscola della mia testa è intenta a captare ogni sua possibile reazione e ad interpretarne le intenzioni, ma è davvero difficile concentrarmi su questo mentre i suoi occhi si stanno insinuando dentro ogni mio pensiero, riportando a galla momenti solo nostri.
Quando si avvicina di due passi, vedo irrigidirsi i muscoli delle sue braccia, quasi a volersi preparare ad uno scontro. Automaticamente faccio lo stesso. Eppure non ho paura. Mi sento leggera, libera da un peso morto che mi schiacciava il cuore, forgiandolo in una gelida morsa di dolore costante. Finalmente sento di avere una ragione per cui far battere il mio cuore, ed è la stessa ragione per cui cesserei di vivere.
"Deniel...", dico, e poi improvvisamente scoppio in sin-ghiozzi. "Mi dispiace...". Un altro fiume di lacrime mi impedi-sce di continuare.
Devo tirare un profondo respiro per recuperare la voce, e tuttavia non riesco a blaterare più di poche parole.
"Mi dispiace tanto. Ti ho fatto una cosa orribile... IO sono orribile. Devo, devo...". Non so come concludere la frase, non so più nemmeno cosa sto dicendo. Così comincio da capo, sparando fuori le parole a raffica: "Mi dispiace tanto, Deniel. Ci sarebbero milioni, miliardi di parole che potrei dire, ma nessuna di queste mi farebbe sentire meglio perché so di meritarmi ogni singola punizione che hai in mente di infliggermi. Io voglio star male. Io... voglio darti la possibilità di prenderti la tua rivalsa".
Solleva un sopracciglio. "Stai cercando di scusarti o di suicidarti?".
La sua voce splendida e incantevole.
"Non sono brava a chiedere scusa. Di solito commetto delle gaffe".
"Che coincidenza, io non sono bravo a perdonare. Di solito commetto una strage".
Abbasso lo sguardo sulle mie mani. E' insopportabile il modo in cui mantiene le distanze, malgrado ne abbia tutto il diritto.
"Ferendo te ho ferito me stessa", sussurro piano.
"Quindi non c'è bisogno che mi vendichi di nulla, ci hai già pensato da sola a punirti. Immagino di non dovermi sorprendere di trovarti in questo ospedale".
Per un brevissimo istante il suo sguardo si tramuta in quello di un folle assassino. Osserva gli stessi macchinari che avevo guardato mentre aspettavo Irene. E pensare che il dottore aveva detto niente forti emozioni per qualche ora.
"Solo non osare mai più infliggermi simili torture", aggiunge. Lo sguardo fisso sul mio volto.
"Non voglio infliggerti altre torture".
"Allora piantala di piangere".
"E' un sogno vero? Sono ancora svenuta?". Quando apre la bocca per protestare mi correggo: "E' impossibile credere che tu sia qui, vivo".
Gli faccio un pizzicotto sul braccio per assicurarmi di non vederlo scomparire. Poi deglutisco. "Non sembri particolar-mente arrabbiato con me".
"Sono furioso con te", mi contraddice gelido. Poi abbozza. "E per quanto riguarda il fatto che sono vivo, ti avevo avvertita che la leggenda non era una... leggenda".
Comincio a contorcermi le dita per il nervosismo. I suoi occhi attenti e preoccupati seguono il mio movimento.
"Già! Tu, in teoria, non muori", farfuglio.
"Sai quel che si dice dell'erba cattiva...".
"Dire che tu sei cattivo sarebbe già un buon passo avanti".
"Hai paura?".
Comincio a scuotere la testa prima ancora che finisca la frase. "Non di te però".
Deniel incrocia il mio sguardo, sembra ci sia una dose infinita di tenerezza dietro la facciata indifferente e distaccata che si è cucito addosso.
"Di cosa allora?", mi incalza.
Faccio un respiro profondo.
"Ho paura per te".
"Per me?". Il suo tono, accompagnato da uno sguardo altrettanto duro, mi convince ad abbassare gli occhi sulle sue mani. Accanto al polso una vena gli pulsa veloce, tradendone la calma.
"Ti hanno tolto l'anima per renderti immortale. Ma a cosa ti serve vivere per sempre se dentro di te non c'è nulla?".
Tace, lo sguardo fisso davanti a sé. La sua espressione è vuota e fredda.
"Mi hai detto di avere imparato l'amore da me", proseguo, "ma senza un'anima come puoi provarlo? Puoi solo limitarti ad imparare, ma non puoi vivere le emozioni che impari".
Da sotto le lunghe ciglia mi invia una sguardo letale e allo stesso tempo dolce. E' impossibile abituarsi alle contraddizioni che lo tormentano.
"Così la vita è più semplice", dice.
"E' da codardi".
Fa schioccare velocemente la lingua per tre volte. "Forse non dovresti criticare troppo il fatto che sono codardo, perché è il motivo per cui tu sei qui e non sotto un metro di terra".
Alzo lentamente lo sguardo contro i suoi occhi neri, due abissi profondi, combattuti, e all'improvviso intuisco quanto debba pesargli questa situazione. La costante lotta che brucia dentro di lui alimenta una tristezza così radicata che è quasi impossibile da comprendere e sopportare. La lotta pressante che da una parte lo porta a desiderarmi, dall'altra lo fa smaniare di vedere il mio corpo inanime e freddo.
Faccio per portarmi una mano alla fronte, ricordandomi in tempo dei punti. "Anche se lo merito non sopporto di sentire tanto rancore dentro di te".
"Ed io non sopporto di non sentirne in te". Mentre parla, i suoi occhi si fanno strada dentro i miei fino ad offuscarmi la mente.
So bene a che gioco sta giocando: usare l'ipnosi per convincermi che è lui ad aver ragione. E so anche che non sarò io a vincere.
"Perché dovrei provarne? Fino a prova contraria sono stata io ad ucciderti... o quasi".
Le pupille di Deniel si restringono ancora. Un altro pezzo della mia mente si annebbia.
"Il punto è, Còrin, che tu potrai uccidermi solo e quando sarò io a volerlo. Mentre tu non hai, e mai avrai, la benché minima possibilità di salvarti, qualora io decidessi che è arri-vata la fine dei tuoi giorni".
Prendo un lungo respiro.
"Tuttavia sei qua. E mi stai parlando".
Nella testa sto cominciando ad associare delle immagini al fittizio copione che Irene si era inventata per tirarmi su il morale.
"Non volevo farlo", torna a farsi gelido. "Ma quando ho saputo che eri all'ospedale...".
"Chi te lo ha detto?".
Per qualche ragione a me sconosciuta il suo volto si addolcisce. "Irene ha chiamato Anne".
"Anne ti dice proprio tutto, eh?!".
"Mi ha detto anche troppo", si rabbuia ripensando a qualche cosa. "E mi ha anche detto che ultimamente non hai dimostrato di saperti difendere molto bene. Sembrava quasi bramassi di essere ferita, di uscire perdente da uno scontro". Fissa un punto sulla porta, come se non stesse affatto parlando con me. I suoi occhi sono distanti, come persi nel ricordo delle mie ultime ronde. "Ti renderai conto che la cosa mi abbia messo un po' in ansia. Perciò ogni volta che esci di casa mi innervosisco perché ho la sensazione di vedere il tuo futuro... o per meglio dire... il tuo presente più prossimo, sfuggirmi dalle mani".
Faccio per ribattere ma Deniel mi zittisce posandomi due dita sulle labbra.
"Continuerò a seguirti da lontano ed interverrò nel caso tu debba averne bisogno". Parole che sarebbero confortanti, se non fosse per la sua espressione. «Pensavo fosse corretto informarti».
"Suppongo comunque che questa sarà l'ultima volta che ci parleremo?".
Resta in silenzio per quasi un minuto, soppesando la mia domanda. E' facile indovinare cosa stia pensando. L'ultima volta che ci siamo visti gli ho conficcato un coltello nello stomaco ed ora sono di nuovo qua, davanti a lui, sperando stupidamente che non stia pensando a questo piccolo dettaglio. Sperando che sia felice di rivedere l'unica donna che abbia mai amato e che per ripagarlo ha deciso di togliergli la vita.
Infine arretra di un passo, scansandomi di lato con dolcezza. Sembra confuso.
"Io questo non lo so. E' tutto... strano e nuovo. A volte mi comporto come se fosse la tua testa a comandarmi. Non sono io a decidere per me, ma tu". Mi invia un'occhiataccia. "E a quanto pare sembra proprio che tu voglia parlarmi ancora".
"Lo desidero più di quanto tu possa immaginare, lo sai". "Ma è molto meglio evitarlo, credi a me".
Sento un macigno cadermi sullo stomaco. Lo osservo a lungo, in cerca anche di una minuscola traccia di indecisione sul suo volto, che ovviamente non trovo.
"Non vuoi più parlarmi?", riesco a dire. Il vuoto della mia vita e il dolore insopportabile tornano a incombere minacciosi. L'opprimente solitudine è già in agguato.
"Oh sì, lo voglio eccome. Ma a quanto pare entrambi ce-diamo con facilità alla tentazione di ucciderci a vicenda". Ag-grotta la fronte, mostrando arroganza. "Non credo ne verrebbe fuori un rapporto duraturo".
"Smettila di scherzare, Deniel", sbotto. E' assurdo il modo in cui riesca ad ironizzare su di noi, anche se plausibile.
"Non c'è nulla di divertente nella morte", dice, accompa-gnando le parole con una risata amara.
Stringo i denti per non scoppiare nuovamente in lacrime. In lontananza un rumore ci avvisa che qualcuno si sta avvicinando. Sento di avere i minuti contati e un milione di cose ancora da dire, prima di separarmi da lui.
"Qual è il vero motivo per cui vuoi stare alla larga da me?", gli chiedo.
"Non vorresti saperlo...".
"Certo che voglio saperlo", parlo insieme a lui.
"... ed io non voglio dirtelo".
"Perché?".
"Rispondimi a questa domanda", sbotta, trapassandomi con uno sguardo disperato. "Se per una stupida e remota possibilità io ti permettessi di uccidermi, tu lo faresti? Avresti il coraggio di farlo? Di nuovo?".
Mi è quasi impossibile restare concentrata sulla domanda. I suoi occhi gelidi e distanti sono una distrazione troppo grossa. In più i passi lungo il corridoio si stanno facendo più forti ad ogni secondo che passa, scandendo la fine sempre più vicina della nostra discussione.
"No, non lo rifarei", mento.
"Ecco dove sta la differenza tra noi due". Dal tono che usa sembra stia confessando una debolezza avvilente.
"Non riesco proprio a capirti".
Appena retrocede di un passo cerco di afferrarlo per un polso ma in un lampo è già accanto alla porta. Resto immobile. Avevo dimenticato quanto fosse veloce.
"Ho sognato di ucciderti, Còrin. Per tutta la notte ho so-gnato il rosso del tuo sangue". Mi lancia uno sguardo veloce prima di schiudere la porta. "E per tutta la notte non sono stato capace di una sola lacrima", aggiunge, richiudendosela alle spalle.
Resto immobile, impietrita, a fissare la porta chiusa.
Tornerà. Ora fa un passo indietro e torna! La mia mente ce la mette tutta per rassicurarmi.
Continuo a osservare la porta, in attesa.
Deve tornare!, mi ripeto, incapace di muovermi.
Infine la porta si spalanca ed io scatto in avanti, rincuora-ta, con le braccia aperte in un abbraccio. Ma ad entrare è Irene. Dietro di lei, il corridoio vuoto.
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