RECITA

Era trascorso un solo giorno da quando l'avevo vista per l'ultima volta e il suo viso mi mancava come fosse stata una droga da prendere giornalmente. Tra l'altro volevo accertarmi che stesse bene e, considerando che era una testarda, attira disgrazie e folle ragazzina, non avevo un minuto da perdere. Stando a ciò che mi aveva detto Anne quel pomeriggio erano a lezione insieme quindi era abbastanza improbabile che le succedesse qualcosa di grave all'interno di un college affollato, tuttavia quando arrivai fui sorpreso nel vederla tutta intera. Si stava allontanando in compagnia di una ragazza che mi pareva fosse la stessa che avevamo incontrato alla festa di S. Valentino dell'anno scorso. Senza pensarci le seguii a debita distanza e restai appartato per tutto il tempo che si tratten-nero in un bar.

Quando infine uscirono e attraversarono la strada, intuii al volo che c'era qualcosa che non andava: non ero il solo che le stava seguendo. A qualche metro da loro un uomo teneva in mano un bastone e non le perdeva di vista. Nel momento che riuscii a vederlo in faccia, lessi attraverso i suoi occhi tutti i suoi pensieri. Era molto facile per me intuire le sue intenzioni, perché erano le stesse che avevo avuto io per una vita intera. Voleva uccidere. O forse limitarsi ad aggredire.

Il casco mi scivolò dalle mani andando a rotolare lungo la strada. Con un balzo scesi dalla moto e sfrecciai verso di loro.

Un profondo ringhio partì dalla mia gola ma l'uomo non se ne accorse, preso com'era dalle due ragazze. Un sorriso sghembo gli incurvava le labbra. Volevo vedere come avrebbe sorriso quando si fosse trasformato lui stesso nella preda. La mia preda. Si sarebbe contorto nell'agonia. Nessuna ipnosi, doveva capire perché stava morendo.

Con orrore lo vidi colpire Còrin alla fronte e con maggior terrore vidi il sangue scorrerle velocemente lungo la tempia.

Sebbene fossi paralizzato dalla paura, sebbene fossi co-sciente della debolezza di lei, un piccolo angolo della testa continuò a restare tranquillo. Avevo trascorso ore intere a studiare il suo modo di combattere e lo conoscevo talmente bene che potevo intuire la sua prossima mossa. Si sarebbe sollevata da terra, gli avrebbe sfilato il bastone dalle mani con una delle sue mosse strane e azzardate che a solo lei riuscivano e lo avrebbe steso usando un'altra mossa che avrei senz'altro considerato dubbia ma pur sempre efficace. Lo avrebbe steso permettendomi finalmente di far uscire il mostro che inferociva dentro di me dalla sera precedente.

Improvvisamente gli occhi mi si congelarono sulla scena. Ciò che il piccolo e ridicolo angolo della mia testa aveva immaginato non stava avvenendo; Còrin aveva sì colpito l'uomo al costato, ma poi si era gettata in una corsa, trascinando con sé l'altra ragazza.

Perché non lo aveva affrontato? Era troppo forte? Io per primo consideravo Còrin una creatura più fragile del cristallo, ma non potevo scordarmi che era l'unica persona al mondo che era riuscita a colpirmi per più di due volte. Ed ora davanti a quella feccia d'uomo si era arresa dandosi alla fuga. E questo era insolito in lei che aveva dimostrato sempre fin troppo coraggio, perfino con me che ero la morte in persona.

L'ansia mi fece agire impulsivamente e commisi un errore: rincorsi le ragazze senza preoccuparmi dell'uomo.

Arrestai la corsa quando le vidi svoltare per l'ennesimo vicolo e cercai con lo sguardo il loro aggressore. Da dov'ero potevo sentire la voce stridula e sgomenta della sua amica ma non i passi dell'altro. Tornai indietro di un centinaio di metri e quello fu l'errore definitivo. Allontanandomi, anche se solo per pochi attimi, avevo lasciato campo libero all'aggressore che, non trovando ostacoli, le aveva raggiunte. Da lontano provai disperato ad ipnotizzarlo ma i suoi occhi restarono appiccicati contro quelli di Còrin.

"Molto male", sentii sibilare l'uomo in risposta a qualcosa che, intento a svuotare la mente per prepararla all'ipnosi, non ero riuscito a registrare.

Il sangue mi si gelò nello stomaco quando vidi un ghigno affiorare sulle labbra di Còrin: riecco la ragazzina testarda e incosciente che mi faceva tremare di paura e ansia ogni volta che non potevo tenerla d'occhio. Non era affatto scappata da lui, come avevo pensato in principio, si era solo assicurata di poterlo affrontare senza dover preoccuparsi dell'amica. Ed io che per un momento avevo creduto si fosse finalmente resa conto di essere solo una ragazzina alta meno di un metro e settanta, con due braccia grosse come un mio polso.

"D'accordo, fammi vedere", lo sfidò, Còrin.

Al limite massimo della frustrazione un mio pugno colpì la fiancata di un fuoristrada prima che potessi limitare minimamente la mia forza. Non avevo badato nemmeno se ci fosse qualcuno all'interno, i miei occhi non volevano saperne di staccarsi da Còrin e dalle mani di quell'uomo che la colpivano senza tregua. Ritirai il pugno inghiottito nell'intelaiatura, il furgone oscillò, sbilanciandosi su un fianco e fracassandosi poi in una pioggia di vetri.

Il rumore fu assordante ma Còrin era così intenta a sfidare quell'uomo che non si lasciò distrarre. Nemmeno l'altra ragazza che teneva il volto sprofondato tra le ginocchia e contorceva la schiena sotto forti singhiozzi. Nessuno di loro tre badò al mio ringhio che rimbombò tra le alte facciate delle case circostanti e questo mi permise di avvicinarmi tanto da poterli quasi toccare. Se l'avessi aggredito alle spalle quasi sicuramente avrei schiacciato sotto il mio peso anche Còrin.

Con un salto schivò le forti braccia dell'uomo e per poco non andò a sbattere contro il mio petto. Dopo qualche secondo lui riuscì a farla rotolare sull'asfalto e fu in quel preciso istante che lei si accorse di me. Mi guardò con l'espressione più fiduciosa del mondo e capii che non mi aveva riconosciuto. Davanti agli occhi una patina di sangue le faceva da barriera, ecco perché mi guardava come se fossi una visione. Solo per questo.

D'istinto retrocessi nell'ombra, tornando a concentrarmi sull'uomo. Non potevo ucciderlo ma non potevo nemmeno più evitarlo. Il mostro che avevo tenuto calmo e tranquillo dentro di me si era risvegliato. Volevo la morte di quel tale così selvaggiamente che la vista mi si annebbiò. I muscoli tesi e contratti dall'impulso, dal bisogno di agire immediatamente. Lo volevo morto. Punto. Ma volevo anche che Còrin non guardasse. Avrei potuto dirle di raggiungere l'amica e di occuparsi di lei... ah, ma quando mai faceva ciò che le dicevo, quando mai mi dava retta? Inoltre, per parlarle avrei dovuto avvicinarmi nonostante il mostro inferocisse ancora dentro di me ed era estremamente pericoloso perché se Còrin avesse fatto una qualunque cosa che non avessi gradito, avrei finito con l'agire impulsivamente e anche lei sarebbe morta.

La osservai posare i gomiti a terra in un tentativo inefficace di rialzarsi e con uno scatto mi avvicinai con la promessa di scomparire nel giro di mezzo secondo mandando all'inferno ogni mio desiderio di caricarmela in spalla e portarla nel posto più remoto e pacifico del pianeta.

"Scappa. Ora!", rantolai.

"Deniel?", sussurrò. Il suo alito caldo, troppo, troppo vicino alla mia bocca mi fece impazzire.

Schizzai via, pregando che lei mi desse ascolto e seguisse alla lettera il mio ordine, e mi avvicinai all'uomo lentamente, nello stesso modo elegante di quando affrontavo le tigri bianche insediate sulle vette del Tibet. Si accorse di me solo quando affondai le dita della mano destra tra la sua mandibola e la gola. Dopo tre secondi il suo volto era già paonazzo, le labbra contorte in una smorfia. Stava soffocando, ma ciò che più lo faceva contorcere era la forza delle mie dita sprofondate così tanto nelle carne da essere ricoperte del suo sangue.

Avrei continuato così per delle ore. L'avrei fatto morire dissanguato, una morte lenta e atroce. Ma Còrin stava guar-dando e ciò che stavo facendo era proprio quello che non voleva vedere. Storsi leggermente il polso e il rumore dell'osso del collo che si spezzava fu la giusta melodia che andavo assaporando dal primo istante in cui l'avevo visto. Avrei preferito disintegrarlo quell'osso, fargli sentire secondo dopo secondo il dolore che dal collo si espandeva lungo la spina dorsale fino a raggiungere le ginocchia. Sì, il suo volto dolorante era ciò che più mi avrebbe reso felice in quel momento. Ma ancora gli occhi di lei, fissi sulle mie mani insanguinate.

Lasciai cadere il tale a terra e balzai in avanti tanto rapida-mente da non lasciare agli occhi di Còrin il tempo necessario per registrare il mio movimento. Restai a spiarla per un momento dietro l'angolo della casa. Era accaduto tutto così in fretta che non aveva avuto nemmeno il tempo di rimettersi in piedi. Infine corsi via, verso la cascina. Non volevo ammettere con me stesso che stavo scappando ma era proprio quello che stavo facendo.

Mi sdraiai sul letto anche se non ero stanco, infondo erano solo quarantadue ore che non dormivo. Mi sforzai di chiudere gli occhi senza prestare attenzione ai rumori della campagna. Il canto degli uccelli era l'unica compagnia che avevo avuto negli ultimi giorni e in quel momento non la sopportavo proprio. Volevo lei, solo lei, sempre lei!

Strizzai gli occhi, ripensando con nostalgia alla mia vita in Tibet. Era sempre stato tutto molto semplice: io ero il cacciatore, gli altri la preda. E il cacciatore uccide la preda. Punto!

Ora invece era tutto un fottutissimo casino!

Non esistevano cacciatori né prede. Ogni logica di questo nuovo mondo sembrava andare contro corrente ed io non riuscivo a capire in che direzione stessi andando. Ammesso sempre che esistesse una direzione giusta da prendere. Come erano riusciti gli uomini a rendere il mondo tanto invivibile? Il giusto e lo sbaglio, l'amore e l'odio, la vita e la morte. Ogni maledetta cosa aveva un suo contrario e il mio contrario sembrava attrarmi come mai niente prima di allora. Lei era il mio opposto, non avevo mai conosciuto qualcuno di tanto diverso da me. E mi attirava. Dio se lo faceva!

Il rumore della porta mi fece scattare. Spalancai gli occhi e il respiro mi si troncò in gola appena vidi l'espressione grave di Anne. La fissai muoversi cauta nella stanza, passare la punta del dito sopra il tavolo, alzare lentamente lo sguardo su di me. C'era qualcosa nel suo sguardo che mi stava facendo impazzire di rabbia. Senza un motivo cominciai a sentirmi ansioso mentre Anne proseguiva ancora più lenta verso di me. Ora teneva lo sguardo nuovamente basso, come se stesse cercando qualcosa sul pavimento. Era strano che non avesse ancora detto nulla, generalmente era in grado di stordirmi con le sue chiacchiere. Anche se non potevo più vedere il suo sguardo, il suo corpo emanava un'elettricità spiazzante e mi lanciava messaggi che non riuscivo a cogliere.

Provai ad aprire la bocca per parlare ma non ci riuscii. Più a lungo restava in silenzio più ansioso diventavo. Perché tutta quest'ansia?

E poi finalmente parlò. Lo fece con un tono talmente basso che se le mie orecchie non fossero state tanto allenate non avrei distinto una sola sillaba.

"Glielo ho detto".

Sollievo e paura si mescolarono nel mio stomaco fino a trasformarsi in dolorosi crampi, ma ancora una volta decisi di restare in silenzio. Anne non mi aveva ubbidito, ma era molto importante che prima di ucciderla aspettassi che mi raccontasse tutto per filo e per segno. Poi, solo poi, avrebbe pagato!

Strinsi le mani l'una contro l'altra e calcai i talloni contro i piedi del letto. Sentii il legno cedere sotto la mia furia repressa, gli scricchiolii continui mi portarono ad immaginare il rumore delle ossa rotte di Anne. Le avrei strappato la lingua. Oh sì. L'avrei ipnotizzata quel tanto che bastava per permetterle di percepire il dolore e poi le avrei infilato la mano in bocca... con un po' di immaginazione riuscii a sentire il suo sangue caldo colarmi sulle dita.

Un altro definitivo scricchiolio segnò la fine del piede del letto.

"Vattene", mi sentii dire. Non era un ordine bensì un av-vertimento.

Anne sollevò lo sguardo dal piede del letto a me. Non sembrava sospettare neanche lontanamente del rischio che stava correndo a restare in questa stanza.

"Devo parlarti", mi ignorò.

Perché diavolo l'avevo avvertita? E' vero, una parte di me le era grata per tutto ciò che aveva fatto, ma non bastava a convincermi a non fargliela pagare. E allora perché la stavo aiutando?

Mi accorsi che i suoi occhi erano rimasti paralizzati nei miei e mi precipitai ad abbassare le palpebre. Stavo per perdere il controllo, lo sentivo. Involontariamente avevo cominciato ad ipnotizzarla, dando così inizio al mio piano di vendetta. Tirai un profondo respiro e risollevai le palpebre.

"Còrin vuole vederti", mi confidò, fraintendendo il mio nervosismo. Come faceva a non capire che ero lì lì per ucci-derla?

"Quando le ho detto che eri vivo si è precipitata qua", continuò a raccontare, dopo essere finalmente riuscita a distogliere i suoi occhi dai miei. "Ma... non è per questo che sono venuta a cercarti. Mi ha appena chiamata Irene per dirmi che Còrin è...", si bloccò, incerta se proseguire o forse spaventata dal mio scatto. "Le è successo qualcosa".

Ero balzato giù dal letto e in molto meno di un secondo l'avevo afferrata per le spalle.

"Calmati Deniel", boccheggiò spaventata, provando a fatica ad indietreggiare sotto la mia stretta.

Non ero cosciente della forza che stavo impiegando nello stringere queste spalle esili, non mi importava. Tutti i miei incubi si stavano realizzando in meno di un battito di ciglia, sfociavano crudeli sul volto di Anne, tanto bianco che nemmeno la strana polvere che si metteva sulle guancie riusciva più a mimetizzare.

Focalizzai gli occhi sulle sue labbra in movimento e dovetti sforzarmi di leggere il labbiale dal momento che le orecchie mi si riempirono con un fastidioso ronzio. La sua bocca si muoveva formando parole mute, parole che impiegai a lungo a decifrare. Quando ci riuscii, sentii il cuore rallentare, le ginocchia cedere, il respiro aumentare. La mia paura più grande, quella che mi teneva sveglio quasi ogni notte, rafforzando la potenza dell'essenza della vita, stava lentamente prendendo forma attraverso queste parole. Anne stava descrivendomi nei dettagli ciò che quel tale che avevo ucciso aveva fatto a Còrin.

"Dov'è?", ringhiai.

Deglutì. "All'ospedale".

Di colpo persi completamente il controllo.

Con la coda dell'occhio vidi il volante della mia moto spuntare all'angolo sinistro della finestra e cominciai a sentirmi rilassato solo nel momento in cui vi salii cavalcioni e affondai un colpo al pedale. Il ruggito del motore spaventò alcuni uccelli che si levarono in volo lasciando libero il sentiero sterrato davanti a me. Ogno piccolo tocco alla manopola dell' acceleratore scaturiva ringhi che coprivano quelli che mi partivano dalla gola. Ad Anne non avevo lasciato nemmeno il tempo di finire di spiegarmi cosa le fosse accaduto, ero schizzato via, verso la statale 53, l'unica strada che dalla periferia portava direttamente all'ospedale.

Era assurdo, eppure avrei dovuto aspettarmelo che prima o poi avrei dovuto percorrere quella strada per raggiungere proprio Còrin. Meno assurdo era il fatto che in passato non l'avessi mai dovuta percorrere a causa sua.

Tornai ad essere ansioso mentre guidavo nel traffico della città. Avrei impiegato molto meno ad uccidere tutti i conducenti che mi bloccavano la strada piuttosto che infilarmi imprudentemente tra le piccole fessure di una vettura e l'altra. Ma c'era un pensiero nella mia testa più pressante dell'omicidio che mi obbligava a tenere la mano destra fissa sulla manopola della moto.

Scorsi in lontananza l'insegna dell'ospedale, svoltai secco l'angolo e balzai giù dalla sella senza preoccuparmi di frenare. Il muso della moto si schiantò qualche metro più avanti sul retro di un'ambulanza e per qualche istante il silenzio calò tra i passanti, immobili su entrambi i marciapiedi, con gli sguardi fissi su di me o sulla carrozzeria accartocciata della moto. La ruota anteriore era praticamente affondata nello sportellone bianco dell'ambulanza.

Poi tra i passanti si levarono urla di stupore accompagnate da grida di paura. Tre infermieri presenti al fatto accorsero verso di me, seguiti da alcuni signori, studiandomi in un modo troppo particolare perché riuscissi a non darci peso.

Potevo immaginare cosa stessero pensando tutte quelle persone che pian piano si erano unite alle urla e ai movimenti frenetici degli infermieri. Nelle loro teste ero "miracolato" o pazzo. La moto era distrutta ed io non avevo neanche un graffio. Come sempre...

"Avrei una certa fretta", implorai il primo infermiere che mi raggiunse.

"Ti sei fatto male?", mi squadrò. "No, non ti sei fatto niente", si rispose da solo un secondo dopo. I suoi occhi non credevano a ciò che stavano vedendo.

Rimasi per un po' con un piede in bilico sul marciapiede e l'altro sulla strada, le braccia lungo i fianchi e le labbra contorte in un sorriso che voleva essere rassicurante.

Nel frattempo altre macchine si fermarono in mezzo alla strada, bloccate da quelle in doppia fila di chi aveva assistito al mio volo. O per meglio dire, a quello della moto. Ora dal motore si innalzava del fumo nero che macchiava la vernice bianca dell'ambulanza e alcune scintille si rincorrevano sull' asfalto, accanto alla ruota anteriore. L'odore di bruciato cat-turò l'attenzione dei presenti ed approfittai per sgattaiolare verso l'entrata principale.

Dietro a dei pannelli di vetro una ragazza senza camice mi osservò a lungo, tenendo le labbra leggermente aperte in una manifestazione di stupore.

Ma allora Còrin aveva ragione! Ero affascinante! Era fasti-dioso anche solo pensarlo. Volevo esserlo per lei, questo sì, ma esserlo per le altre era una stupida perdita di tempo.

Mi avvicinai prudente ai pannelli, controllando il rossore in aumento sul naso della ragazza.

"Dov'è Còrin?", le chiesi impaziente, posando le mani sul vetro. Se non stavo attento rischiavo di sbriciolarlo.

"Chi?", balbettò. Il rossore aumentò.

"Cerco Còrin Annabell Alley", precisai, usando involonta-riamente il tono più persuasivo di cui ero capace, e scatenando così un'altra ondata violentissima di rossore sulle sue guance.

Ma almeno sembrò riscuotersi dallo shok e distolse veloce gli occhi dal mio volto per posarli sul computer a lato della lunga scrivania organizzata.

"L'hanno portata nella sala del primo soccorso", mi rispose dopo un minuto eterno.

La ringraziai con un cenno della testa e presi a percorrere il labirinto di corridoi, orientandomi con le scritte sui pannelli affissi all'inizio e alla fine delle pareti azzurre.

La mia concentrazione di tanto in tanto scivolava verso i volti afflitti delle persone che incrociavo. Sembravano tutti sofferenti per qualcosa ma immaginai che parte non doveva esserci niente di così insolito in questo, sebbene questa fosse la prima volta che vedevo l'interno di un ospedale. Le persone normali si ammalavano, si ferivano. Erano completamente diverse da me.

Attraversai l'ennesima porta automatica e solo quando lessi il cartello PRONTO SOCCORSO tornai a concentrarmi completamente su di lei.

Rimasi con la mano ferma sulla maniglia per qualche mi-nuto, squarciato in due, prima di trovare il coraggio di spa-lancarla.

Avevo un copione da recitare che mi ero studiato nelle ultime settimane. Non dovevo permettermi di sbagliare e lasciarle intendere che dentro di me l'avevo perdonata nel momento esatto che mi aveva trafitto. Dovevo farle invece credere che ero furioso per tenerla lontana da me.

Abbassai la maniglia.

Lei era lì, piccola, seduta su un lettino, e appena mi senti arrivare smise automaticamente di dondolare le gambe. Attraverso un piccolo spiraglio della tenda riuscivo a vederla a mala pena in volto ma sembrava stare bene. Tuttavia come potevo esserne certo io, che non sapevo nemmeno cos'era un raffreddore? Magari non era un bene che se ne stesse seduta. Dovevo farla distendere? E lei? Mi avrebbe dato ascolto?

Quando sentii nel corridoio la voce di un'infermiera indie-treggiai di un passo, deciso a chiedere informazioni sul be-nessere di Còrin.

Ma poi, un'altra voce, più armonica, ipnotizzante, mi bloccò le gambe: "Irene? Sono qua. Giurami che non ti metterai a ridere quando mi vedrai. Mi hanno fatto indossare anche questo schifo di camicie a pallini".

Quella voce mi attirò come mai prima di allora. Mi imposi la maschera che mi ero preparato, attraversai la stanza a grandi passi e tirai la tenda.

Gli occhi di Còrin smisero automaticamente di registrare qualunque dettaglio della sala, fermandosi su di me. Notai subito che il suo respiro era un singhiozzo silenzioso e che le mani le stavano tremando.

La fissai immobile, tenendo le labbra sigillate in un'espressione dura e composta, per non cedere alla tentazione di curvarle in un sorriso. Distogliere lo sguardo da lei era la cosa più giusta che avessi potuto fare, invece rimasi fermo, nascosto dietro la mia maschera gelida, le braccia incrociate al petto per non afferrarla e portarla via con me.

Avanzai lento di un passo per mettermi alla prova. La mia espressione sembrava confonderla, la sua confondeva me.

Mentre mi avvicinavo continuavo a ripetermi che dovevo stare ad una minima distanza di sicurezza. Dovevo stare calmo, non cadere nel panico. Irrigidii i muscoli delle braccia appena sentii l'impulso di spalancarle e questo sembrò gettarla maggiormente nella confusione. Bene! Significava che il copione che mi ero preparato stava funzionando. Non dovevo permetterle di capire ciò che stavo provando. Se mi fossi lasciato andare, anche solo per mezzo secondo, niente mi avrebbe dato la forza necessaria per uscire da questa stanza senza di lei.

Tornai a concentrarmi su ogni movimento del mio volto in modo da non mostrare il mio stato d'animo e per avere la certezza di riuscire a mantenere un certo autocontrollo.

Avevo trattenuto l'aria nei polmoni da quando ero apparso sulla porta, e quando fui a soli due passi da lei mi convinsi a tirare un profondo respiro. Il suo profumo mi stordì e mi resi conto che era posato su ogni superficie della stanza, coprendo tutti gli altri odori. Era troppo invitante, troppo. Da quanto tempo stavo aspettando questo momento? Da quanto tempo stavo desiderando di sentire il suo profumo di nuovo? Ad ogni respiro il suo profumo mi assaliva, forte, tentatore. Di controvoglia decisi che era molto meglio per i miei nervi trattenere il respiro fin quanto mi era possibile.

Per un po' mi limitai a fissare il suo volto, ipnotizzato dal suo sguardo preoccupato. Forse si sentiva in colpa per avermi ucciso! O forse voleva completare l'opera. Se avesse provato ad attaccarmi, sarei riuscito a restare fermo? A non ucciderla? Avrei impiegato meno di tre secondi a spezzarle il collo, non avrebbe neanche sofferto.

Al solo pensiero un brivido mi attraversò la schiena. Come potevo pensare a una cosa simile?

E poi improvvisamente alcune lacrime affiorarono nei suoi occhi, e lì fu davvero difficile non afferrarla, prenderla tra le mie braccia e urlarle che l'amavo. Non sopportavo di vederla piangere. Mi faceva infuriare perché era l'unica cosa a cui non potevo darle rimedio.

"Non osare mai più infliggermi simili torture", le dissi, modulando il tono di voce in un modo tale che non permetterle di tradurre la rabbia dei miei occhi.

Lei allontanò gli occhi da me, ma si vedeva che le costava un gran sforzo smettere di osservarmi. Restò per un attimo a fissare lo strano camice che indossava ma poi, come fosse calamitata dal mio viso, si voltò ancora dalla mia parte, spostando il peso del corpo in avanti. Non faceva mai nulla che avrei voluto. La volevo lontana e lei non faceva nulla per aiutarmi a resistere. Non mi conoscevo ancora così bene da credere che fosse al sicuro con me, lontana da testimoni, mentre mi sentivo così stranito.

"Deniel...", disse. I suoi occhi fissi dentro i miei, iniziarono a riempirsi di lacrime. "Mi dispiace...". Un fiume di lacrime le impedì di continuare.

Vederla soffrire era dura, ma sapere che soffriva a causa mia era atroce.

"Mi dispiace tanto. Ti ho fatto una cosa orribile... IO sono orribile. Devo, devo...". Il nodo alla gole non le permetteva quasi di parlare. Tirò un profondo respiro e ci riprovò: "Mi dispiace tanto, Deniel. Ci sarebbero milioni, miliardi di parole che potrei dire, ma nessuna di queste mi farebbe sentire meglio perché so di meritarmi ogni singola punizione che hai in mente di infliggermi. Io voglio star male. Io... voglio darti la possibilità di prenderti la tua rivalsa".

Strinsi i pugni per non saltarle addosso e abbracciarla, mandando al diavolo tutto il copione che avevo studiato nei minimi dettagli. Mi fermai all'ultimo e sollevai un sopracciglio.

"Stai cercando di scusarti o di suicidarti?".

"Non sono brava a chiedere scusa. Di solito commetto delle gaffe".

"Che coincidenza, io non sono bravo a perdonare. Di solito commetto una strage".

Abbassò lo sguardo. "Ferendo te ho ferito me stessa".

"Quindi non c'è bisogno che mi vendichi di nulla, ci hai già pensato da sola a punirti. Immagino di non dovermi sorprendere di trovarti in questo ospedale". Nel pronunciare l'ultima parola la mia vera natura omicida infervorò dentro di me tramutando tutti i miei pensieri in immagini oscene di devastazione e vendetta su chi l' aveva costretta su questo lettino. Peccato fosse già morto.

Spostai per un momento lo sguardo sugli strani macchinari. Chissà a cosa servivano? Poi tornai a lei e ricordai di come io stesso l'avevo ridotta la prima volta che l'avevo incontrata. Chissà se anche in quell'occasione era finita in un ospedale? Di certo non se l'era cavata con un misero graffio sulla fronte. Era quasi morta, salvandosi solo grazie alle sue lacrime. Erano diventate il mio punto debole, mi facevano uscire di testa, sragionare.

"Solo non osare mai più infliggermi simili torture", aggiunsi.

"Non voglio infliggerti altre torture".

"Allora piantala di piangere".

"E' un sogno vero? Sono ancora svenuta?", farfugliò. "E' impossibile credere che tu sia qui, vivo".

Mi fece un pizzicotto sul braccio e per poco non le afferrai la mano per baciarne ogni nocca.

"Non sembri particolarmente arrabbiato con me".

"Sono furioso con te", la contraddissi, distaccato. Poi ab-bozzai, incapace di non sorriderle. "E per quanto riguarda il fatto che sono vivo, ti avevo avvertita che la leggenda non era una... leggenda".

La sua faccia si trasformò in una maschera di sorpresa e le lacrime smisero di scorrere sulle sue guance. Se non avessi già preso la decisione di strle lontano, le avrei raccolte per assaggiarle.

Guardai le sue mani contorcersi per il nervosismo e capii che stava cominciando a credere alla leggenda.

"Già! Tu, in teoria, non muori", farfugliò.

Non solo in teoria – pensai divertito.

"Sai quel che si dice dell'erba cattiva...", sogghignai.

"Dire che tu sei cattivo sarebbe già un buon passo avanti".

"Hai paura?".

Scosse la testa. "Non di te però".

E ti pareva! Dio, che voglia di strozzarla.

Incrociai i suoi occhioni e pensai che non erano mai stati così belli. La voglia di strozzarla svanì.

"Di cosa allora?", chiesi. Ero proprio curioso di sapere cosa spaventava quella pazza scatenata.

"Ho paura per te", mi spiegò con quella sua vocina.

"Per me?". Era mai possibile che dovesse sempre sorprendermi?

"Ti hanno tolto l'anima per renderti immortale. Ma a cosa ti serve vivere per sempre se dentro di te non c'è nulla?".

Mantenni l'espressione vuota e fredda per non farle capire che la pensavo allo stesso modo.

"Mi hai detto di avere imparato l'amore da me", proseguì, "ma senza un'anima come puoi provarlo? Puoi solo limitarti ad imparare, ma non puoi vivere le emozioni che impari".

Mi stava forse sfidando? Stava cercando di farmi ammettere che l'amavo? Dannazione, non avevo bisogno di un'anima per amarla, per volerla con me tutta la vita, per desiderarla in un modo durante il giorno e in un modo tutto nuovo durante la notte. No, non avrei accolto la sfida. Doveva continuare a guardarmi come un mostro, solo così avrei trovato la forza di tenerla alla larga da me. Perché la voglia di ucciderla, a momenti, era davvero ancora troppa.

"Così la vita è più semplice", mentii.

"E' da codardi".

Fissai le sue labbra e non riuscii più a staccarvi gli occhi.

Mi ripresi con un rapido battito di ciglia e feci schiocchiare velocemente la lingua per tre volte. "Forse non dovresti criticare troppo il fatto che sono codardo, perché è il motivo per cui tu sei qui e non sotto un metro di terra".

Mi guardò a lungo. Ma si rendeva conto di cosa mi faceva quando mi guardava così?

"Anche se lo merito non sopporto di sentire tanto rancore dentro di te".

"Ed io non sopporto di non sentirne in te". Mentre parla, i suoi occhi si fanno strada dentro i miei fino ad offuscarmi la mente.

So bene a che gioco sta giocando: usare l'ipnosi per convincermi che è lui ad aver ragione. E so anche che non sarò io a vincere.

"Perché dovrei provarne? Fino a prova contraria sono stata io ad ucciderti... o quasi".

Le pupille di Deniel si restringono ancora. Un altro pezzo della mia mente si annebbia.

"Il punto è, Còrin, che tu potrai uccidermi solo e quando sarò io a volerlo. Mentre tu non hai, e mai avrai, la benché minima possibilità di salvarti, qualora io decidessi che è arri-vata la fine dei tuoi giorni".

Prendo un lungo respiro.

"Tuttavia sei qua. E mi stai parlando".

"Non volevo farlo", tornai a farmi gelido. "Ma quando ho saputo che eri all'ospedale...".

"Chi te lo ha detto?".

Ripensai al volto pallido di Anne. Dovevo ricordarmi di chiamarla per rassicurarla. "Irene ha chiamato Anne".

"Anne ti dice proprio tutto, eh?!", roteò gli occhi infastidita.

"Mi ha detto anche troppo", mi rabbuiai, ripensando a ciò che le avevo estorto con l'ipnosi riguardo a Luke. "E mi ha anche detto che ultimamente non hai dimostrato di saperti difendere molto bene. Sembrava quasi bramassi di essere ferita, di uscire perdente da uno scontro". Fissai un punto sulla porta per non lasciarmi distrarre dai suoi occhioni innocenti. "Ti renderai conto che la cosa mi abbia messo un po' in ansia. Perciò ogni volta che esci di casa mi innervosisco perché ho la sensazione di vedere il tuo futuro... o per meglio dire... il tuo presente più prossimo, sfuggirmi dalle mani".

Fece per ribattere ma la zittii in tempo, posandole due dita ulle labbra perfette, morbide e tentatrici. Ritirai la mano prima che fosse troppo tardi.

Còrin restò a osservarmi in silenzio. Chissà cosa stava per dirmi? Forse l'aveva infastidita sapere che l'avevo seguita. Era sempre così convinta di riuscire a fare tutto da sola, a non necessitare della mia protezione. Ripensai alle ultime sue ronde e un profondo nervosismo si impossessò dei miei nervi.

"Continuerò a seguirti da lontano ed interverrò nel caso tu debba averne bisogno". Indossai un'espressione severa per farle capire che non stavo affatto scherzando. «Pensavo fosse corretto informarti».

"Suppongo comunque che questa sarà l'ultima volta che ci parleremo?".

Restai in silenzio per quasi un minuto, combattendo contro il dolore che questa semplice frase aveva scatenato. Una vita senza di lei... era doloroso anche solo immaginarlo. Difficile pensare che ci sarei riuscito per davvero. L'intento era quello, ma avevo imparato che non potevo fidarmi ciecamente delle mie scelte quando entrava in ballo Còrin.

"Io questo non lo so. E' tutto... strano e nuovo. A volte mi comporto come se fosse la tua testa a comandarmi. Non sono io a decidere per me, ma tu", mentre parlavo, la mia mente lottava contro il mio corpo. Nessuno dei due riusciva a prevalere sull'altro. "E a quanto pare sembra proprio che tu voglia parlarmi ancora".

"Lo desidero più di quanto tu possa immaginare, lo sai".

Prima che potessi fare qualunque cosa per fermarlo, il mio cuore si gonfiò di una gioia inattesa. Non mi aveva ucciso per vendetta o perché non mi amasse. Non ero riuscito ancora a risolvere l'enigma che scompigliava i segreti di questa ragazza, ma una cosa era certa. Mi voleva!

"Ma è molto meglio evitarlo, credi a me".

Il suo faccino tornò triste. "Non vuoi più parlarmi?".

Non riusciva a capire che ogni mia scelta dipendeva da lei? Si era sempre dimostrata cocciuta e temeraria oltre l'inverosimile e a me era sempre toccata la parte di quello responsabile.

"Oh sì, lo voglio eccome", mi sfuggì. Maledizione!!! Tornai a fingermi arrogante. "Ma a quanto pare entrambi cediamo con facilità alla tentazione di ucciderci a vicenda. Non credo ne verrebbe fuori un rapporto duraturo".

"Smettila di scherzare, Deniel".

Pensava davvero stessi scherzando? Pensava davvero che avrei potuto prendere alla leggera la sua incolumità? Stavo rinunciando a lei per proteggerla, inabissandomi in una vita fatta di sofferenza costante, e lei pensava stessi scherzando?

Mi lasciai sfuggire una risata. "Non c'è nulla di divertente nella morte".

Soprattutto nella tua.

"Qual è il vero motivo per cui vuoi stare alla larga da me?", mi prese in contro piede.

Perché quelle poche volte che dormo mi capita ancora di sognare di ucciderti, maledizione a me!

"Non vorresti saperlo...".

"Certo che voglio saperlo".

"... ed io non voglio dirtelo". Anche se dovrei.

"Perché?".

Diglielo, diglielo!

Dal codardo che ero cercai di girarci attorno.

"Rispondimi a questa domanda: se per una stupida e re-mota possibilità io ti permettessi di uccidermi, tu lo faresti? Avresti il coraggio di farlo? Di nuovo?".

"No, non lo rifarei".

"Ecco dove sta la differenza tra noi due".

"Non riesco proprio a capirti".

Sentii avvicinari dei passi in corridoio e scattai verso la porta. Lei restò immobile, sorpresa dal mio scatto veloce. Probabilmente non era ancora abituata alla mia velocità.

Prima di dirle la verità mi regalai un momento che spesi a guardarla. Ancora un momento soltanto e poi non l'avrei più rivista da così vicino. Ero destinato a non amarla. Il cuore mi andò in frantumi.

"Ho sognato di ucciderti, Còrin. Per tutta la notte ho so-gnato il rosso del tuo sangue", dissi.

Lei abbassò lo sguardo sulle sue mani, stringendo i denti per non scoppiare nuovamente in lacrime. Stava per piangere per me e non era bello, perché sapevo che prima o poi avrebbe riso per qualche altro uomo. Contorsi la mascella e spalancai la porta, pronto a scappare via.

"E per tutta la notte non sono stato capace di una sola lacrima", aggiunsi, richiudendomi la porta alle spalle.

In quel momento, nonostante l'essenza della vita, una parte di me morì.



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