OMBRA
Io e Luke iniziamo a camminare verso casa mia, troppo agitati per chiuderci dentro una macchina. Il rumore sordo dei nostri passi che rimbomba tra le mura grezze delle case di periferia, accompagna il chiasso lontano della Eisenhower BLVD.
La presenza di Luke per certi versi mi fa sentire normale, come se calamitasse su di sé tutte le responsabilità che gravano sulle mie spalle da quando mio fratello è morto. Comincio a sentirmi più giovane e simile a tutte le ragazze che hanno bisogno di essere scortate fino a casa. Ed è una sensazione che mi fa sentire ubriaca, con le gambe malferme, come se camminassi dentro una bolla di sapone in attesa che la realtà la faccia scoppiare e svanire nell'aria.
"E allora, come te la passi?", esordisce, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni.
"Bene", dico a mezza voce per non fargli capire che sto mentendo.
"Sai... questa sera... ecco, non è stata una trappola", at-tacca impacciato, cercando le parole esatte. Si blocca e ci riprova. "Voglio dire... non ti avrei mai giocato un tiro simile".
"Lo so", sussurro, guardando la macchia d'erba sulla punta delle mie scarpe.
"Volevo convincerli a fidarsi delle tue capacità, ma non potevo farlo senza una dimostrazione pratica".
"Già", rido. "Direi che sono rimasti abbastanza a bocca aperta".
Rotto il ghiaccio cominciamo a raccontarci ciò che abbiamo fatto durante la nostra lunga separazione. Lui mi spiega a grandi linee il suo successo lavorativo e i progetti che ha in mente di attuare per rendere più sicura la città, per quanto non sia ancora riuscito a dare forma ad una regolare organizzazione di pubblica sicurezza. Quando è il mio turno a parlare sto attenta a non nominare la CBM nemmeno per sbaglio e mi concentro piuttosto su argomenti più frivoli come la scuola, gli esami, l'ultima festa che Irene ha dato a casa sua, il cappotto rosso che i miei mi hanno regalato per il mio ventesimo compleanno, di come ho fatto fatica a smettere di fumare...
Ma una volta esauriti gli argomenti frivoli, la tensione ri-prende a salire. Ci sono troppe cose non dette, troppe discussioni lasciate in sospeso tra di noi e sappiamo che è giunto il momento di chiarirle, sebbene entrambi non abbiamo il coraggio di gettare l'amo per primi.
"Ho sentito cosa hai detto a quei cinque e non mi piace che scendi a patti con persone simili", dice. Nonostante il buio, percepisco il suo sguardo in cerca del mio.
Lo evito. "Non era mia intenzione farlo, ma l'alternativa era di fare una rissa e mio padre mi sta aspettando a casa".
Presumo gli sia bastata la poca luce per scorgere l'ansia sul mio volto, perché quando riprende a parlare la sua voce è più calma, quasi come si fosse svuotata di ogni emozione. "A volte dimentico che sei tanto piccola da avere ancora il coprifuoco".
Roteo gli occhi. "Non sono piccola... è mio padre che è esagerato".
"Come dargli torto...", sospira.
Di colpo non percepisco più i suoi passi accanto a me. Mi volto verso di lui e lo trovo intento a rigirarsi tra le dita il proprio distintivo.
"Lo sai cos'è che non riesco a sopportare di te? Che sei sempre ben disposta verso gli altri. Mai una volta che ti pre-occupi per te stessa. Mai una volta che scegli di proteggerti anziché proteggere gli altri. Ma cosa credi?", sorride condi-scendente, guardandomi come se mi sfuggisse qualcosa di ovvio. "Speri davvero che quei delinquenti ascolteranno sempre le tue parole e ti ubbidiranno come cagnolini senza mai pretendere nulla in cambio?".
"Non credo ti riguardi", taglio corto, voltandogli le spalle per proseguire lungo la strada.
"Ah, certo che no. E' ovvio". In un secondo mi ha raggiunta. Le mani gli tremano per la rabbia. "Io ti ho lasciata e quindi non ho diritto di darti alcun suggerimento".
Questa volta sono i miei piedi a rimanere letteralmente incollati sull'asfalto. "Ma no. Io non intendevo questo".
"Sai bene perché ti ho lasciata".
Socchiudo gli occhi. "Prima, a casa mia, hai parlato di di-verse motivazioni. A quale devo credere?".
Retrocede di tre passi e si china su di me, le labbra gli vibrano nello sforzo di non urlarmi contro. "Mi avevi fatto una promessa. Mi avevi assicurato che non avresti più cercato di intrometterti con il mio lavoro".
"Il tuo lavoro?", scoppio quasi a ridere. "Ma se questa è la prima volta che vedo tre poliziotti per le vie della città".
"Oltre a quella sera", mi ricorda aspro, sorridendo cattivo. "La sera che ti ho trovata in quella fabbrica in compagnia del tuo amico Andrew".
Gli restituisco il medesimo sorriso. "E non mi pare abba-stanza".
"Abbastanza per cosa? Per lasciarti? O per proteggere le persone di Loveland?".
Un macigno in gola m'impedisce di rispondere. Riprendo a camminare svelta fino alla fine della strada, poi svolto a destra e subito dopo a sinistra, senza avere la minima idea di dove sto andando. Sono troppo irrequieta per restare ferma.
"Per lasciarmi", rispondo infine.
"Ma di cosa stai parlando?".
Lo guardo di sbieco. "Non stavamo parlando delle motivazioni che ti hanno spinto a lasciarmi?".
"Còrin, ma davvero non capisci?". Intreccia la mano tra la mia. Non appena faccio per ritrarla, la sua espressione mi convince a non farlo. "Non è certo perché sono un poliziotto che ti ho lasciata. E' perché sono un uomo".
Non riesco a staccare gli occhi dalle nostre dita intrecciate.
"Credi sia facile amare una ragazza che rischia la vita co-stantemente?", prosegue, stringendo con più forza la mia mano. La sento ancora tremare per la rabbia. "Io voglio proteggere la mia donna. Non mandarla in pasto a dei folli. Non avrei potuto sopportare di vederti rientrare a casa con dei lividi, come quello che ora hai accanto alla tempia, e sapere che non avrei potuto fare nulla per poter...".
"Vendicarti?".
"Impedire che accadesse ancora". Tira un lungo respiro, improvvisamente esausto. "Còrin, è impensabile che un uomo possa accettare una simile situazione".
No, non è impensabile! Non dopo aver conosciuto una persona come Deniel. Sento lo stomaco ghiacciarsi quando mentalmente pronuncio il suo nome. E masochisticamente me lo ripeto altre tre volte: Deniel... Deniel... Deniel. Anche se in queste ultime settimane ho cercato di comportarmi come se non fosse mai entrato nella mia vita, il solo suono del suo nome mi riporta inesorabilmente indietro nel tempo.
Abbasso gli occhi sul mio braccio ancora in via di guarigione e stringo i denti. Troppi ricordi, troppi particolari mi riportano ancora a lui. Lascio scorrere lo sguardo sulla mia mano e mi sento impallidire. Le gambe danno segni di cedimento. Mi accascio su una panchina, tirandomi le ginocchia contro il petto, e dondolando lentamente avanti e indietro.
In un secondo il volto di Luke passa dalla rabbia all' ap-prensione. "Che succede?", chiede urgente.
Scuoto la testa, cercando di minimizzare. "Ricordi".
"Ma non di noi. Non è così?".
"Ti prego", mugolo.
Lo sento sospirare. "Come vorrei poter tornare indietro nel tempo...".
"Già, anche io".
Sebbene stiamo parlando di due cose completamente diverse, mi ritrovo a meditare sulle sue parole. Se solo fosse possibile tornare indietro, cosa farei? Non mi sforzo nemmeno di trovare una risposta. So bene cosa farei: lascerei le cose esattamente come sono. Deniel era pericoloso, lo era anche con chi diceva di amare. Troppo brutale per sperare davvero che nessuno prima o poi non ne avrebbe subìto la crudeltà. Qualcun altro avrebbe tentato di fermarlo... e non ci sarebbe riuscito. Quindi tornare indietro non servirebbe a niente se non a rivivere altre cento volte quel maledetto momento.
"Sei congelata", mi fa notare, stringendomi a sé per scaldarmi.
Vuol dire che sono viva - dico a bassa voce - Vuol dire che sto vivendo in un mondo dove Deniel non esiste più.
Mi sollevo dal suo petto. "Vorrei tornare a casa".
Per qualche secondo resta a guardarmi, confuso dalla mia espressione. Infine china la testa di lato in modo che i nostri occhi si trovino alla stessa altezza. "Che succede piccola mia?".
"Non lo so".
"Come non lo sai?".
Tiro su col naso, implorando silenziosamente alle mie la-crime di restare nascoste negli occhi.
"Dai, vieni qua", bisbiglia, trascinandomi di nuovo contro la spalla. Il suo respiro, lento e regolare, mi accarezza la tempia. "Ci sono qua io adesso. Lo sai, vero?".
Sento una lacrima scivolare lentamente verso la tempia e proprio in quel momento, qualcosa dentro di me comincia lentamente a tornare al proprio posto. In questi ultimi mesi avevo dimenticato quanto gli volessi bene, quanto eravamo legati, ed ora sembra che ogni suo gesto voglia ricordarmelo. Ad ogni suo respiro ho come l'impressione che il dolore faccia meno male e che i miei organi riprendano a svolgere per il verso giusto i propri compiti: il cuore rallenta in un battito calmo, le tempie smetteno di pulsare, l'aria riesce ad arrivare ai polmoni senza ostacoli, senza groppi alla gola che facciano da barriera. Dopo settimane di tormento, per la prima volta sono calma, talmente rilassata da non andare nel panico nemmeno quando Luke cerca di indagare sul motivo di tanta angoscia.
"Suppongo c'entri un ragazzo", ipotizza.
Riabbasso gli occhi per evitare la sua espressione. Per quanto non riesca a superare il modo in cui un anno fa mi ha scaricata, vederlo soffrire a causa mia è più di quanto possa lontanamente sopportare in questo momento. Il problema tra noi infatti è sempre stato questo: io non voglio che soffra, lui non vuole che soffra io, e alla fine stiamo male tutti e due. Ed ora è ancora più complicato. Perché per quanto mi sia sforzata di non pensarci, non posso affermare che tra noi il legame si sia veramente spezzato quella lontana notte. In un modo strano e contorto, per tutto questo tempo ho continuato a vedere Luke come il legame che mi tiene ancorata alla mia vita normale. La persona che mi ricorda che anche io sono identica a tutte le adolescenti. Che anche io ho problemi come lo smalto per le unghie e i voti degli esami. Che anch'io ho bisogno di avere accanto un uomo che voglia proteggermi. Un uomo possibilmente che rientri nei limiti della norma, e per norma non pretendo molto. Basti che non sia immortale e che non tenti di uccidere me o la mia famiglia non appena gli gira male.
"Penso di sapere bene cosa significa soffrire per amore", sussurra amaro, quasi non volesse ammettere con me quelle parole.
Fisso la sua spalla, consumata dal senso di colpa. Era stato lui a lasciarmi, è vero, ma dopo che mi ha detto le sue motivazioni, è come se fossi stata io farlo.
"Mi piacerebbe davvero smettere di soffrire", continua nello stesso tono aspro.
Deglutisco. "Anche a me".
Ma so che per me non è possibile. Luke ha una vita davanti per dimenticarmi. Ma a me, quante vite serviranno per dimenticare Deniel?
Premo la guancia contro la sua spalla e quando aspiro il suo profumo di muschio, il sangue mi sale alla testa. Le mie mani sopra le sue, la mia bocca a mezzo centimetro dal suo collo, hanno oltrepassato il limite che tiene ben separate amicizia ed attrazione. Devo sforzarmi di mantenere un certo dignitoso distacco per non dargli l'impressione sbagliata, per non illuderlo, anche se in effetti accanto a lui riesco a scorgere una versione di me che credevo impossibile. Più libera e felice.
"Potrei aiutarti", mi propone.
"Non voglio che tu lo faccia. Ho un'opinione troppo alta di te per considerarti un ripiego".
Lo sento rabbrividire, e subito un sorriso a metà gli tra-sforma il volto in una maschera di scherno. "Ripiego o no, è sulla mia spalla che stai piangendo ora".
Resto in silenzio. Coi denti mi torturo il labbro inferiore. Può un cuore morto, battere due singoli colpi per qualcuno che non ama?
"Ti fa male il braccio?", mi chiede dopo un pò.
Mi accorgo solo ora di stare tenendo il braccio destro a peso morto sulle mie gambe. Avendo tolto il gesso da solo una settimana, i muscoli sono ancora atrofizzati e la forza non mi è tornata del tutto.
Di nuovo il ricordo di Deniel! Mai come in questo momento sono arrivata a desiderare di vivere in un mondo diverso da questo.
"E' solo un po' intorpidito", minimizzo.
"Sei stata aggredita?".
"Sì".
"Capisci cosa intendevo prima?". A quanto pare non è si-curo di avermi chiarito molto bene le sue motivazioni. "Non riesco a sopportare il fatto che qualcuno ti abbia fatto del male. Dannazione! Vorrei proprio fargliela pagare a chi ti ha fatto del male al braccio".
Abbozzo per non scoppiare in lacrime. "Direi che ha pagato abbastanza".
Dai suoi occhi emerge uno strano sguardo. "A questo punto da buon poliziotto dovrei chiederti in che modo hai provveduto a fargliela pagare".
"Ma tu non sei un buon poliziotto", replico.
Scoppia a ridere. "Touche!".
E di colpo sento le guance irrigidirsi in un maldestro tentativo di sorridere. Non è giusto. Non è giusto! Aldilà di ogni aspettativa, stare con Luke mi fa stare troppo bene e allo stesso tempo mi spaventa.
"Dovrei proseguire da sola", azzardo, alzandomi dalla panchina. Poi commetto l'errore di guardarlo. "Ma ho ancora voglia di... di stare con te".
Evidentemente il dolore deve avere cambiato il mio con-cetto di egoismo perché, se da una parte so di non avere alcun diritto di illuderlo e di dargli false speranze, dall'altra ho troppa paura di rimanere sola. Mi sono illusa che col passare del tempo avrei trovato un sistema per non badare al dolore, invece non ho fatto alcun progresso. La voragine sotto la quale sono rimasta sepolta peggiora di notte in notte. Ogni mattina mi sveglio alcuni minuti dopo aver cominciato a piangere e la notte mi addormento molte ore dopo aver versato la prima lacrima. Mentre ora con Luke accanto a me, il cuore ha smesso di squarciarsi. E' bello. Ma non è giusto.
E non è nemmeno giusto provare sollievo quando mi afferra la mano e senza dire nulla mi trascina con sé lungo la strada. Malgrado i miei propositi gli cammino accanto silenziosa, respirando lentamente per non interrompere in nessun modo il silenzio. La cosa bella di Luke, è che riesce a starmi vicino senza bisogno di parole. Lui è fatto così, e basta.
Raggiunta casa mia mi scorta fino sotto il portico, fermandosi poi sullo zerbino. Lancia uno sguardo verso la finestra illuminata del salotto ma non dice nulla.
"Abbiamo fatto presto", commento, guardando anch'io verso la finestra. Andy è ancora sveglio. E probabilmente Andrew e Nick sono in salotto ad aspettarmi. "I tuoi due colleghi non vedranno l'ora di avere il tuo scalpo. E a proposito, ancora non mi hai detto in che modo devo aiutarti".
Sembra ricordare di colpo il vero motivo per cui qualche ora prima era venuto a cercarmi. "E' vero. Potremmo vederci domani pomeriggio perché immagino ora si sia fatto un po' tardi. Per te almeno". Lascia saettare lo sguardo verso la finestra accesa. "Pensi che tuo padre sia molto arrabbiato?".
Liquido il discorso con un gesto della mano. "Naa, ormai sono abituata ai castighi".
"Potrei fermarmi se... insomma, se hai bisogno che faccia da paciere tra te e tuo padre".
"Non devi andare in centrale?", gli ricordo giusto per sviare.
Improvvisamente diventa impacciato. "Ti farebbe piacere se restassi?".
Lo fisso seria, attorcigliandomi una ciocca tra le dita. Vorrei rispondergli di "sì", ma equivarrebbe ad aprofittarne di lui, visto e considerato che il mio desiderio non è assolutamente della sua stessa natura. Perciò evito di rispondergli. Cerco in fretta la maniglia della porta, pronta a scappare, ma lui mi trattiene afferrandomi per il polso. Sento di nuovo le sue dita tremare. In qualche modo devo avergli fatto passare il buon umore.
"Vuoi che resti?", nella voce una speranza che non mi piace.
Esiste un modo per non far soffrire chi ti ama?
"Luke. Io vorrei che noi fossimo solo amici". E questo senza dubbio rientra nei modi più sbagliati.
"Certo, certo", annuisce, "amici".
Abbasso la maniglia con la mano libera e apro la porta. Mio padre allunga il collo per un momento, poi distoglie lo sguardo velocemente, sforzandosi di non controllarci. Non ho ancora ben chiaro se la presenza di Luke lo sollevi o meno.
"Còrin, lo sai che ore sono?", la voce stridula di mia madre mi raggiunge da dietro la porta della cucina. In un attimo compare sulla soglia, ma appena fa per agguantarmi per la spalla si blocca, sorpresa di non trovarmi da sola. "Oh! Salve, Luke".
"Signora".
"Ti concedo due minuti signorina", mi guarda di sbieco, "non un secondo di più. E poi faremo un bel discorsetto".
"Arrivo subito mamma", la rassicuro, mentre già sta rientrando a passo di marcia.
Luke grugnisce. "Pensi si limiteranno ad un castigo?".
"La cella d'isolamento ancora non ce l'abbiamo, quindi...".
"Ma avete la cantina sotterranea".
"Giusto", mugugno. "Sarà meglio che vada ad affrontarli".
"Aspetta un attimo", dice urgente.
Mi dondolo sui talloni, con un piede in bilico sullo zerbino d'ingresso e l'altro sulla prima piastrella del corridoio.
Luke guarda di sfuggita verso la cucina, poi verso la schiena di Andy. Infine torna a guardare me. "Amicizia tra noi due non ce né mai stata. E mai ci sarà. Questo tu lo sai, vero?".
"Entra in casa, Còrin", il tono di mio padre rasenta la ma-leducazione.
"Arrivo papà". Quando torno a voltarmi verso Luke mi ri-trovo il suo volto ad una semplice spanna dal mio. "Devo proprio andare".
"Corin, noi due abbiamo fatto l'amore", parla quasi sotto voce. "Perciò non parlare mai più di amicizia".
"Non l'ho scordato. Io...", tiro un respiro profondo, in cerca di qualcosa da dire. Ma lui sta già percorrendo il vialetto, il braccio mezzo proteso verso l'alto in segno di saluto.
Entrando, la prima cosa che noto è il silenzio nel salotto. Mio padre con una mano sta facendo zapping col telecomando, con l'altra mescola una tazza di cioccolata calda.
"Non sono ancora tornati?".
Andy non mi guarda nemmeno. "Non penso".
Fisso l'orologio. "E' strano".
Mi affaccio alla cucina per salutare mia madre e con gran sollievo mi accorgo che la sua espressione si è un po' addolcita rispetto a prima.
"Còrin, se continui così mi farai venire i capelli bianchi", esordisce appena mi nota.
"Mi dispiace. Il tempo mi è volato e...".
"Sì, sì. Lo so bene quanto può volare il tempo. E' quando si è in castigo che sembra non passare mai", mi minaccia. Poi mi lancia un'occhiata severa, mettendosi le mani sui fianchi. "Hai un valido motivo per essere uscita di sera tardi?".
Frastornata da tutti gli eventi della serata mi sto quasi la-sciando sfuggire la verità. Mi mordo la lingua. "Nessun valido motivo".
"Còrin!", si lascia sfuggire un respiro misto a rabbia e sollievo. "Io capisco che eri con Luke: lui è un poliziotto e in sua compagnia so che non corri dei pericoli, ma è ugualmente imprudente per una ragazza uscire di notte. Inoltre hai degli orari da rispettare e delle regole. Ma sembra che a te non importi nulla. Non ti importa se io e tuo padre siamo qua in ansia per te. Sono rientrata da lavoro verso le dieci e non ti ho trovata e...", non riesce a terminare la frase. Scrolla la testa, probabilmente per scacciare qualche pensiero e riprende fiato. "Poteva accaderti di tutto. Avresti potuto imbatterti in qualche delinquente, sebbene questa città sia molto tranquilla".
La guardo cercando di non lasciare trapelare dalla mia e-spressione tutto il mio disappunto. Ecco quello che pensa la gente di Loveland: una cittadina tranquilla, la polizia locale efficiente... vorrei urlarle che non è la polizia ed essere effi-ciente ma io! Invece mi cucio la bocca e aspetto rassegnata l'ennesima punizione.
"So che Luke è importante per te", dice dolcemente. "Ed effettivamente anche per me è stato così all'inizio con tuo padre: il tempo sfuggiva via. Ma se lo vuoi vedere dopo le dieci di sera lo farai venire qui. Intesi?".
Annuisco lanciandole un'occhiata d'intesa e alla fine retrocedo verso il salotto, piazzandomi accanto al telefono. Le mani a pochi centimetri dalla cornetta, gli occhi fermi sull'orologio mentre i minuti passano lenti. Il mio cellulare è rimasto nella tasca della giacca ma ricordo di aver disattivato il vibro quindi se dovesse suonare lo sentirei sicuramente.
"Ha telefonato Anne?", chiedo a mio padre.
"No".
Casa di Irene è a pochi isolati da casa mia, impensabile che Nick ed Andrew abbiano perso così tanto tempo per tornare.
Continuo a fissare l'orologio. Dieci minuti. Quindici...
Poi afferro la cornetta e compongo il numero di Anne, ma al dodicesimo squillo mi arrendo. Riaggancio e ci riprovo. Lo lascio squillare parecchio. Forse è uscita. O forse è già a dormire, visto e considerato che domani abbiamo lezione insieme. Eppure lei vive con sua zia. Possibile che nessuna delle due senta il telefono?
Provo allora a fare il numero di Irene, ma la linea sembra staccata. Esasperata mi stacco dal telefono. Tamburello con la punta della scarpa e mi sforzo di contare lentamente fino a cento. Quando mentalmente raggiungo appena i sessanta secondi, balzo dal divano e corro alla finestra; niente! Oltre il vetro c'è solo il buio, spezzato dai fari di qualche auto che sfreccia davanti al vialetto. Torno ammutolita sul divano e riprendo il conteggio da dove l'avevo lasciato. Questa volta non arrivo nemmeno ai novantacinque secondi che sono di nuovo col naso appiccicato alla finestra. Ancora niente.
Mio padre ne (manca la elle) frattempo ha smesso di fare zapping ed ora è tutto concentrato su una lettera che gli è arrivata per posta questa mattina. Non voglio disturbarlo con le mie paranoie. Guardo l'orologio per le millesima volta e mi riaffaccio alla finestra. Nel silenzio sento l'acqua scorrere nel bagno di sopra e il fischiettio di mia madre.
"Papà, io vado!", annuncio ad un certo punto, afferrando la giacca dal bracciolo del divano.
"Aspetta ancora qualche minuto", replica tranquillo.
So benissimo che anche lui è in pensiero, nonostante non lo dia a vedere. E' molto più abituato e bravo di me a mascherare i suoi stati d'animo. A volte, quando lo guardo, non posso fare a meno di tornare indietro nel tempo. A quando mi chiedevo come fosse possibile che Deniel riuscisse a mantenere il sangue freddo in qualunque situazione.
Deniel...
Altra sbirciata all'orologio. "E' successo qualcosa. Me lo sento".
Andy non solleva lo sguardo dalla lettera e per un lungo momento sono convinta che non mi abbia nemmeno sentita.
"Distrai la mamma per una mezz'ora...", gli propongo piagnucolosa.
Alza gli occhi di scatto su di me. "No! Tua madre non do-vrà mai sospettare di nulla".
"Appunto per questo dovresti distrarla".
Dalle sue labbra spunta una smorfia. Chissà da quanto la stava trattenendo?
"Còrin... amo tua madre più della mia stessa vita. Non potrei sopportare che possa accaderle qualcosa di spiacevole o che... possa scoprire che le sto nascondendo qualcosa".
"Lo immagino".
Non sembra nemmeno sentirmi. "Lei non sospetta neanche lontanamente ciò che fai e sono riuscito a farle credere di averti persuasa dal frequentare... certe brutte compagnie".
"Lo so".
I suoi occhi per un istante si fanno meno severi. "Quindi per favore, per favore Còrin, fa in modo che lei non debba mai scoprire che ti sto coprendo. E' già molto difficile mentirle, dirle che Andrew ed Anne non centrano niente col tuo passato, che vengono qui solo perché casa nostra è più confortevole, fingere di essere tranquillo ogni volta che esci di casa o fingere di sgridarti quando torni molto dopo il coprifuoco".
Alzo un sopracciglio. "A proposito... quando finirà l'ultimo castigo?".
Gli sfugge un sorriso innocente e qualche ruga si accentua accanto alle sue labbra. "Eri tornata alle quattro del mattino".
Aggrotto la fronte e allargo le braccia. "Papà! Sai benissi-mo perché sono rientrata così tardi".
"Io sì", ammicca, "ma tua madre no. Inoltre, sbaglio o a-vevamo detto niente ronde?".
"Era stato il criminale a cominciare per primo, io mi sono limitata a difendermi. Che altro potevo fare?".
"Potevi chiamare la polizia".
Gli lancio un'occhiataccia e mi precipito nuovamente alla finestra. Poco più in là del mio vialetto un lampione illumina una piccola parte del marciapiede. L'ombra di una persona si sposta lentamente avanti e indietro, come fosse in attesa di qualcosa. Affino lo sguardo per riconoscerne i tratti ma la poca luce non mi permette di focalizzare nulla.
Faccio un balzo indietro e col fiato corto per l'emozione punto la porta dell'ingresso.
"Dove vai?", mi chiede già in ansia.
"Ho visto qualcuno muoversi aldilà della strada. Forse sono tornati".
Apro la porta e corro lungo il vialetto col cuore che esplode ad ogni passo. Oltrepasso il cancello e attraverso la strada senza neanche guardare. Raggiunto il lampione mi guardo attorno ma dell'ombra non c'è più alcuna traccia.
Ammutolita rientro in casa. Probabilmente era solo un passante e l'ansia mi ha fatto fraintendere. Mi accendo una sigaretta e lancio il mio pacchetto a terra. Al diavolo! Ero riuscita a smettere.
"Vuoi stare calma!?", mi ammonisce. "E spegni quella sigaretta".
"Vorrei vedere te", ribatto scontrosa.
"Provo la stessa identica ansia che stai provando tu in questo momento, ogni volta che ti vedo uscire di casa. Credo di poterti capire meglio di chiunque altro".
Fisso la cenere della sigaretta staccarsi e svolazzare nell'aria. L'ansia cresce. Mi avvicino alla finestra e resto con la fronte appoggiata al vetro, sforzandomi di respirare nor-malmente. Accanto al lampione, di nuovo, la stessa ombra.
"Papà?".
"Sì?", mi risponde distratto.
"C'è qualcuno che spia casa nostra".
Mi si accosta, mantenendosi parzialmente nascosto dietro la tenda. "Non vedo niente", dice calmo, cercando di seguire la traiettoria del mio sguardo.
"Ora non vedo più niente nemmeno io", alito contro il vetro. "Ma un attimo fa c'era".
"Beh... Loveland non è certo una città sovraffollata", cerca di tranquillizzarmi, "ma dovrai accettare di vedere qualcuno passeggiare per la strada di tanto in tanto". Mi afferra per le spalle e mi conduce verso la scala interna. "Vattene a dormire. Domani hai lezione molto presto. Ti avviserò io quando rientreranno".
Salgo tre gradini e mi blocco. "Avevo chiesto ad Anne di avvisarmi".
"Non c'è nessun bisogno che tu sia pessimista. Saranno rientrati da ore e sicuramente staranno dormendo la pace dei giusti. Se può farti stare tranquilla terrò il telefono sul comodino, nell'eventualità chiamassero".
Se è andato tutto bene come sostiene, perché Nick ed Andrew non sono tornati da me? E perché Anne non si è degnata di mandarmi un messaggio per farmi stare tranquilla?
Mi ci vuole qualche secondo per convincermi. "D'accordo. Buona notte".
"Ah, Còrin!", mi chiama quando sono in cima alle scale.
"Sì?".
"Ti prego, non piangere".
"Certo". L'espressione con cui accompagno queste parole non promette niente di nuono. Le lacrime stanno già per scivolarmi lungo le guancie.
"Deniel non tornerà".
Il sangue comincia a pulsarmi veloce nelle tempie. "Sì, questo lo so". E corro in camera prima che le lacrime silenziose si trasformino in singhiozzi.
Mi nascondo sotto le coperte dopo aver lanciato un'altra occhiata veloce sulla strada e cerco di fare qualche sforzo per addormentarmi, sapendo comunque che non ci riuscirò prima dell'alba.
... Deniel non tornerà
... Sì, questo lo so...
Deniel è morto.
Mi copro la bocca con un pugno per impedirmi di urlare, sconvolta dal bisogno di sfuggire all'angosciante dolore.
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