DIMOSTRAZIONE

Per tutti gli appassionati di A occhi bendati, questo è il secondo libro della trilogia. Al momento sto terminando il terzo e conclusivo capitolo e colgo l'occasione per ringraziare tutto lo staff della Leonida Edizioni.

PARTE 1: NEL CUORE DI CòRIN

Una coltre di fumo si intrufolava tra le caviglie nude e tra i

polpacci fasciati di pelle nera che si dimenavano sulla pista, ricavata tra qualche tavolino accostato alle pareti del Blesty. Quella sera il locale era strapieno di donne che non avevano la decenza di appartarsi nel dare e ricevere effusioni volgari da uomini che avevano tutta l'aria di essere dei criminali.

Poco più vicino all'entrata del locale, proprio davanti al ban-cone, Carlos strinse il suo bicchiere di Wodka e fece oscillare lentamente il liquido bianco, prima di versarselo in gola in un unica, lunga sorsata. Aveva la barba ben rasata e i capelli pettinati all'indietro, tenuti fermi da una patina di gel che sembrava illuminarsi al ritmo delle luci strobo. A differenza degli altri uomini presenti non vestiva di pelle e non mostrava al braccio alcun tatuaggio di banda. Ne aveva però uno molto piccolo accanto alla tempia sinistra, quasi impossibile da notare sotto i riccioli ingellati e neri. Era una sorta di croce tau, cerchiata da un sole.

Carlos sorrise cupo, mettendo in mostra la linea bianca dei denti e sollevò lo sguardo verso Jim, il proprietario del locale, impegnato dietro il bancone.

Jim non lo aveva mai visto nel suo locale: doveva essere uno nuovo. Eppure, anche non conoscendolo, appena lo notò si rese conto che l'animo di quell'uomo era marcio. Molto più marcio di tutti i presenti sebbene negli ultimi tempi, a causa di un gruppo di ragazzini esaltati, erano praticamente costretti a comportarsi come agnellini.

"Un'altra Vodka", ordinò Carlos, spingendo il bicchiere verso il bordo opposto del bancone solo per il gusto di testare i riflessi di Jim. Anche se non si erano presentati, sapeva come si chiamava da molto prima di arrivare a Loveland.

Jim afferrò il bicchierino prima che potesse schiantarsi sul pavimento, lo lanciò in aria un paio di volte e lo fece roteare con un velocissimo movimento di polso, prima di posarlo nuovamente sul bancone e versarci un'altra dose di Vodka. Se quell'uomo sperava di impressionarlo, si sbagliava di grosso. Non sapeva forse che stava parlando con il criminale più pericoloso, lo spacciatore più temuto di tutta Loveland? Eppure gli occhi di quell'individuo non sembravano affatto quelli di uno sprovveduto e grazie al cielo nemmeno quelli di uno sceriffo.

"Cosa ti porta nel mio locale?", gli chiese, studiandolo sospettoso.

L'altro si girò verso la pista giusto in tempo per guada-gnarsi la strizzatina d'occhio di una donna vestita con stivaloni alti fin sopra il ginocchio e minigonna cortissima. Tornò a voltarsi verso Jim. "Le donne".

"Qui ne puoi trovare quante ne vuoi... bionde, rosse". Con un secco cenno del capo indicò la pista. "Ma le more... ah, le more sono le migliori. E possono essere tutte tue. Pagando ovviamente".

"Ovviamente", annuì, passando la punta del dito attorno al bordo del bicchiere. In realtà quella sera, il sesso era l'ultimo dei suoi pensieri e le prostitute non l'avevano mai attirato più di tanto. Preferiva che si dimenassero, che urlassero, come falene immobilizzate dall'ago di un collezionista. Certo, poteva pagare una professionista affinchè fingesse, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Il terrore negli occhi delle ragazze mentre lui entrava nel loro corpi, profanandoli in modo indelebile, era la miglior brama sessuale a cui potesse ambire.

"Sono altre le donne che voglio", precisò infine.

Jim si protese in avanti, le poderose spalle si fletterono sotto i muscoli semi nascosti dalla canottiera bianca. "Le vuoi sante?".

L'uomo scosse la testa, lasciando intendere tutto e nulla.

"Ne sto cercando una in particolare".

"Da amare?", chiese riluttante, già pronto a voltarsi verso un altro cliente che allungava la mano per ordinare.

Per un brevissimo istante, da dietro le labbra dell'uomo riapparve la linea bianca dei denti. "Da torturare".

Jim fece cenno al cliente di aspettare un momento e tornò a rivolgere la propria attenzione allo sconosciuto. Strizzò gli occhi, studiandone ogni lineamento per memorizzarne il volto. Poi la sua bocca si deformò in una smorfia. "Stai giocando con il fuoco, ragazzo".

Carlos rise. Una risata terribile e lugubre. "Torturare e uccidere", aggiunse.

"Che cosa sei? Uno psicopatico, un deviato sessuale?", gli chiese, senza la minima intenzione di offenderlo. Dopotutto a sedici anni lui stesso aveva seviziato una ragazzina e non si trovava quindi nella posizione di giudicare.

"Oh no! Niente di tutto questo".

Jim si raddrizzò, mentre lo sguardo si spegneva in un'ombra di delusione che non sfuggì all'altro. "Beh, lascia che ti dica una cosa allora: se ci tieni alla tua pellaccia lascia la città prima che sia qualcun altro a obbligarti a farlo".

Carlos sollevò un sopracciglio, scettico. "Mi stai minac-ciando?".

"Dannazione, no! Per chi cazzo mi hai preso?". Poi corrugò la fronte verso alcuni clienti. "Aspetta un momento".

Carlos lo seguì con lo sguardo mentre si affrettava a posare alcune ordinazioni sopra un vassoio rotondo. Doveva ammettere che quel barista l'aveva incuriosito.

"Portale a quel tavolo laggiù", lo sentì dire ad una came-riera, prima di tornare a sistemarsi di fronte a lui. "Ascoltami ragazzo. Questa città è pericolosa, molto, molto più di quello che pensi. Finché ci sarà quella ragazzina a impicciarsi di...".

"Ragazzina?", ripetè, improvvisamente attento.

"Esattamente. Se vorrai uccidere davvero qualcuno dovrai prepararti a dividerne la tomba. A meno che non si riesca a fermare la ragazzina". Ma a questo punto sul suo volto si dipinse un'espressione dolorosamente divertita. "E guarda caso, a complicare i giochi, lei non è sola. Perché al suo seguito ci sono altri due ragazzi e una ragazza. Quindi lascia che te lo dica, per il tuo bene: fottiti una donna consenziente".

Carlos posò entrambi i gomiti sul bancone e intrecciò le dita, come se fosse impegnato in una muta preghiera.

"La terribile ragazzina della notte... Sì! Ne ho sentito parlare", disse dopo un paio di minuti impegnati a riflettere. "La sua fama è giunta molto lontano, fino alle pendici del Tibet".

La musica techno sovrastò di molto la sua voce e Jim non era certo di aver capito bene. Il Tibet? Fece per ribattere ma l'altro lo precedette.

"La ucciderò".

Jim lo osservò in un misto di speranza e scetticismo. Poi gettò la testa all'indietro e scoppiò in una sonora risata. "Non sottovalutarla. Nessuno di noi ci è riuscito prima d'ora". Indicò gli uomini seduti qualche tavolo più distante, convinto che i muscoli di questi potessero in qualche modo scoraggiare il suo interlocutore.

Carlos restò impassibile, sorseggiando la sua vodka come se fosse acqua. "Facciamo un patto: io ti libererò della ragazzina e tu in cambio mi rifornirai di quella polverina bianca che ho avuto modo di assaggiare".

Ancora scettico, Jim si allungò verso Carlos e sugellò il patto con un'energica stretta di mano. "Affare fatto".

"Si piscierà addosso dalla paura", sogghignò Carlos.

"Si vede che non la conosci. Niente può spaventarla...".

"Bene allora!", Carlos rilassò le spalle. "Parlami di lei! E' un osso duro?".

"Oh... è molto, molto più di questo".

"Ho paura... ho paura", piagnucolo, gettandomi tra le braccia di Andrew.

"Sssh piccolina. Ci sono qua io con te".

Con la fronte affondata nella sua spalla cerco di chiudere gli occhi ma l'adrenalina mi obbliga a risollevare le palpebre all'istante.

Dopo l'aggiacciante avventura che abbiamo avuto solo qualche mese fa, e che ci ha visti tutti quanti in bilico tra la vita e la morte, io e lui siamo diventati molto più uniti. E an-che se continuo a considerarlo l'allenatore più noioso, palloso e invadente che possa mai esistere, devo prendere atto che nell'ultimo periodo si sta mostrando abbastanza comprensivo. Sotto certi punti di vista ha come abbassato la guardia, ricordandosi di punto in bianco che ho appena compiuto vent'anni e che di conseguenza la mia testa non può essere sincronizzata sempre sulla sua stessa lunghezza d'onda. Eppure, sono sicura quasi al cento per cento che questo periodo di tregua stia per esaurirsi.

Ne sono così certa innanzitutto per via del fatto che si sta caricando di quasi tutto il mio lavoro -le occhiaie bluastre sotto i suoi occhi ne sono la conferma- e poi per via di mio padre che, grazie alle sue straordinarie capacità empatiche, non ha alcuna difficoltà ad interpretare e scoprire i sentimenti delle persone. Perciò, quando tre giorni fa mi ha riferito che Andrew è più che seccato di dover uscire di ronda quasi ogni notte, ho compreso cosa si nasconde dietro il suo perenne sorriso quando mi rassicura con un stai tranquilla, questa notte andrò io di ronda. Tu pensa solo a star meglio.

Traduzione della frase: se non ti ammazza un criminale, ti ammazzo io!

La realtà è che mi sto uccidendo da sola, giorno dopo giorno, luna dopo luna. A nessuno ho mai raccontato quello che ho fatto, in nessun modo ho ricercato la forza per rie-mergere da questa lunga voragine. Perché farlo equivarrebbe a perdonarmi. Ed io non sento di meritarlo. Non quando ogni notte rivedo sulla mia mano il sangue e il coltello che mi è servito per uccidere. Mi sono ritrovata a mentire a me stessa più che a tutti gli altri, dividendo la ragione in due parti: avevo ucciso per difendere gli abitanti di Loveland, ma la verità è che avevo ucciso perché non ero stata capace della minima fiducia verso chi dicevo di amare.

Di nuovo gli occhi mi si spalancano, schiantandosi su ciò che sta accadento proprio davanti a me. Anche se non vedo del sangue, ho l'agghiacciante presentimento che tra meno di dieci secondi ne scorrerà un bel po'.

Terrorizzata afferro la mano del mio allenatore e la tengo stretta tra le mie. "Credi che la ucciderà?".

Andrew volta rapidamente lo sguardo verso di me. Mi ri-sponde gettando fuori l'aria che ha trattenuto in gola. "Ho proprio paura di sì".

"Ma perché non scappa?".

"Quella ragazza è un' idiota!". Stringe più forte le dita so-pra le mie. "Non si è nemmeno accorta che quel tizio è alle sue spalle".

Getto la faccia addosso al suo petto per impedirmi di ve-dere. Nel silenzio sento i singhiozzi del mio cuore. "Oh Dio, Andrew... oh Dio!".

Un altro rumore dietro di noi si unisce ai nostri affanni. Senza quasi rendermene conto strillo, scivolando a terra e trascinando Andrew con me.

"Voi non siete normali!".

Alzo la testa al di sopra della spalla di Andrew e mi scontro con lo sguardo perplesso di mio padre. Dietro di me, l'urlo della vittima mi gela il sangue lungo la spina dorsale.

"Ti prego papà, accendi la luce", piagnucolo.

Mio padre fa scattare l'interruttore nel momento stesso che Andrew afferra il telecomando e blocca il dvd. Sullo schermo resta il fermo immagine della ragazza accoltellata alla schiena; il suo volto è contorto dal dolore, gli schizzi di sangue sembrano rimbalzare verso di noi.

Mi rimetto sul divano, incrociando le gambe. Poi afferro una manciata di popcorn e me li ficco in bocca, stando bene attenta che i miei occhi non si soffermino sullo schermo della televisione.

Mio padre si sposta dietro la sua scrivania e resta a fissarci a lungo, con la stessa aria perplessa di prima. Infine scrolla le spalle e si mette ad esaminare alcune buste da lettera ancora sigillate.

"Ve l'ho già detto entrando, vero, che non siete norma-li!?", insiste. "Affrontate criminali, pazzi di tutte le specie e poi vi spaventate a guardare Jack lo squartatore? Non è normale!".

Improvvisamente la porta di casa si spalanca e Nick, con due enormi falcate, ci raggiunge in salotto.

"Non è normale!", urla esasperato, alzando così tanto gli occhi verso il soffitto che per un momento la pupilla scompare del tutto.

"Ce l'ha già detto mio padre", brontolo.

"I campanelli esistono anche in casa Alley", mio padre per un momento solleva gli occhi dalle buste, "mi pare di avertelo già detto sette volte in questa ultima settimana".

Nick si volta verso di lui sollevando in aria le mani. Sem-bra infastidito da qualcosa. Gli occhiali gli scivolano sulla punta del naso mentre si agita per la stanza. "Signor Andy per favore non ci si metta anche lei. Perché non è normale!". Ogni volta che lo dice la sua faccia cambia colore.

"Nick, lo abbiamo capito che...", faccio per terminare la frase ma la porta d'ingresso si spalanca di nuovo; Anne, in passo di danza, entra fulminando con lo sguardo il suo fidanzato.

"Sei tu a non essere normale", lo accusa.

"Il campanello!", sbotta mio padre, gettando le buste sulla scrivania.

Guardo di sbieco Andrew, trattenendo a fatica una risata, poi m'infilo in bocca un'altra manciata di pop corn e resto in silenzio a godermi la scena: il volto di Anne in questo mo-mento mi ricorda quello di Jack lo squartatore.

"Non puoi pensare sempre al lavoro", continua a lamen-tarsi. "Avevi detto che mi portavi fuori a cena e invece sono tre ore che te ne stai appiccicato al computer." Si volta per un momento verso di me per rendermi partecipe: "L'ha persino fuso! Ed ora è venuto qua per usare il tuo".

Di colpo l'espressione di mio padre si fa seria. "A parte il fatto che il computer è mio e non di Còrin, si può sapere chi è stato l' idiota che ha stabilito che il quartier generale fosse questa casa?".

"Veramente sei stato tu", gli fa notare Andrew. "Non che con questo io pensi a te come a un idiota...".

"Proprio così", aggiungo innocente. "Hai detto espressa-mente che, fino a quando io avrei fatto parte del gruppo, avresti voluto presiedere ad ogni riunione e restare aggiornato su ogni nostra mossa per potermi tenere d'occhio".

"Volevi addirittura essere nominato Capo dei Capi come nel film Il Padrino", si fa avanti Anne.

"D'accordo, d'accordo", la blocca mio padre.

Mi sollevo dal divano per fare spazio ad Anne e mi avvicino lentamente al computer sulla scrivania di mio padre. Osservo per un momento le scritte che appaiono sullo schermo senza capirci nulla. Ci sono troppi numeri e cifre stratosferiche, e negli ultimi mesi non ho fatto alcun progresso tecnologico.

Gli poso una mano sulla spalla. "Che cosa è successo?".

"Ero appena riuscito ad intercettare alcune chiamate al 911", mi spiega.

Lo fisso corrucciata. "Nick... stai cominciando a diventare inquietante, lo sai?".

Nick solleva la testa su Anne e restano a fissarsi in cagnesco per dieci secondi. Infine riprende: "Dal momento che i nostri poliziotti, anziché andare di pattuglia passano le loro notti a giocare a poker, ho pensato che intercettare le chiamate al 911 potesse agevolare le nostre ronde. Ma quell' essere fastidioso", si blocca di nuovo per fulminare Anne prima di continuare, "si è messo in testa che il nostro sesto anniversario è più importante".

Aggrotto la fronte. "Sesto?".

"Oggi sono esattamente sei mesi dalla prima volta che abbiamo fatto sesso", mi spiega Anne, piegando le labbra in un broncio.

"Ah!". Imbarazzata mi lascio sfuggire una smorfia e senza volerlo incrocio lo sguardo severo di mio padre. So bene come la pensa al riguardo; e' maledettamente all'antica e non vuol sentire la parola "sesso" in una frase dove non venga menzionata anche la parola "matrimonio". Mi rendo conto che è un ragionamento antidiluviano, ma ho imparato col tempo che è molto meglio assecondarlo.

"Papà!", arrossisco, "sesso è una parola in codice che noi usiamo per...".

Alza la mano scandalizzato. "Falla finita."

Abbasso di scatto lo sguardo. "D'accordo".

Le cifre sullo schermo sono scomparse e la schermata è diventata tutta nera. Mi allontano dalla scrivania e mi accuc-cio ai piedi di Anne, completamente a disagio. Da quando sono venuta a conoscenza delle capacità empatiche di mio padre ho paura anche solo a pensare a quello che ho mangiato a colazione. Non posso mai permettermi la minima distrazione quando è nei paraggi.

Nick sbatte un pugno sopra la tastiera e alcune penne cadono a terra. "Andrew!!!", lo chiama.

"Che hai trovato?".

"Nelle ultime due ore sono state effettuate otto chiamate da questo isolato", gli spiega tutto d'un fiato.

Le mani cominciano a sudarmi. "Mia madre dovrebbe tornare a momenti da lavoro. Dovrebbe essere in zona".

Nick si toglie gli occhiali e sposta lo sguardo verso di me, shoccato. "Non è stato registrato il numero di tua madre ma, cinque di queste telefonate provengono da casa di Irene".

Andrew scatta verso di me, fissandoci attentamente nell'esatto ordine in cui siamo messi: "Signor Andy provi a contattare sua moglie e si faccia dire dove si trova. Anne! Fai il giro dell'isolato e tieni controllate le villette qua nei dintorni. C'è la possibilità che sia Irene che la madre di Còrin stiano correndo qua in cerca di aiuto. Tu, Nick, continua a decriptare il sito della polizia. Tienimi informato se arrivano altre chiamate", si blocca un momento, facendomi un breve cenno della testa. "Vieni con me!".

"Prendo le armi".

Mio padre mi sbarra la strada. "Aspetta un momento. Non più tardi di un mese fa mi avevi fatto una promessa".

"Papà...", lo fisso supplichevole.

"Mi avevi promesso che non avresti più partecipato alle ronde", rimarca, lanciando un'occhiata veloce in direzione di Andrew.

Disperata indico la porta d'ingresso con un movimento del braccio. "Papà, c'è la mamma là fuori. Se anche uno solo di loro non dovesse riuscire nel proprio compito, io non voglio fallire nel mio".

"Il tuo braccio non è ancora guarito del tutto".

Lo zittisco con un rapido cenno della mano. "Il mio braccio sta benissimo".

Appena arretro verso le scale che portano al piano di so-pra, cerca di afferrarmi ma la sua mano stringe l'aria. Senza pensare alle conseguenze corro in camera mia. Mi accuccio ai piedi del letto e trascino verso di me la scatola colorata dove tengo nascoste le armi. Afferro al volo un coltello e mi lancio nuovamente giù per le scale.

Andrew si è già infilato la giacca e mi sta aspettando nell'ingresso, cercando nel frattempo di far ragionare mio padre.

"Vengo con voi!", mi segue Nick, quando gli passo accanto.

"No, no, no". Lancio il coltello verso Andrew che lo afferra al volo, nascondendolo poi nella cinta dei jeans. "E' troppo pericoloso".

"Irene è anche amica mia", prova a persuadermi. "Inoltre qualche mese fa ho affrontato cinque assassini del Tibet".

Apro la bocca per ribattere ma i polmoni mi si svuotano dall'ossigeno.

Il Tibet!

Deniel!

Deglutisco un paio di volte e scrollo la testa per scacciare quel pensiero. Non sono ancora pronta per parlare di questo.

"Andrew sa gestire la situazione meglio di chiunque altro. Ed è stato lui a decidere che tu devi stare qui".

Faccio un cenno con la testa in direzione di Andrew e mi precipito verso l'ingresso. Tiro la porta verso di me e lancio uno sguardo a mio padre, cercando di non presagire il diabolico castigo a cui mi sottoporrà non appena sarò di ritorno.

"Sei in un mare di guai, Còrin", me ne da la conferma.

"Ti prometto che tra meno di dieci minuti sarò di ritorno. Voglio solo andare incontro alla mamma e houg!!!!...", le parole mi muoiono in bocca. Alzo lentamente lo sguardo lungo la giacca nera contro cui sono appena andata a sbattere e lo blocco sorpresa sul volto di fronte a me.

Impiego qualche attimo per ritrovare la voce. "Luke?"

Se ne sta a braccia penzoloni, con l'aria di chi non sa più dove sbattere la testa, fermo sullo zerbino. Mi fissa speranzoso e grave. "Devo parlarti".

"A...a... adesso?", la voce mi trema, carica di isterismo. Cerco di scansarlo. Ma lui resta fermo nella sua posizione. "Non è un buon momento adesso".

"Credimi. Lo è", scandisce ogni sillaba.

"No che non lo è. Mia madre... Nick... Oddio, Irene...", non so nemmeno più cosa sto blaterando e mi accorgo con un leggero ridardo che Andrew e mio padre si sono posizionati a meno di venti centimetri dalla mia schiena.

"Salve Luke". Mio padre gli porge la mano. E' assurdo il modo in cui si ostina a riverirlo. Mi da così fastidio che a volte sono quasi tentata di spifferargli che ho fatto l'amore con lui.

"Sei qua per le telefonate?", gli chiede Andrew.

Luke lo guarda leggermente stupito. "Quali telefonate?".

"Ah, lascia stare", lo liquida con un gesto frettoloso della mano. "Dai, forza Nick. Accompagnami tu... Anne sbrigati anche tu per favore!!!".

"Cosa?", mi allarmo. Sento che la situazione mi sta sfuggendo di mano, ma la sensazione più brutta è il sapere che il peggio deve ancora arrivare. "No, aspettate!".

"Perché non ti accomodi?", lo invita mio padre, aprofittando immediatamente della situazione. Appena cerco di fare un passo in avanti, dà una spinta alla porta e le schiene di Nick e Andrew scompaiono in un batter d'occhio.

Una fitta di inquietudine mi fa formicolare la bocca dello stomaco. Resto imbambolata per qualche secondo a fissare la porta d'ingresso, poi mi volto come una furia verso Luke.

"Che cosa vuoi?".

Luke sembra imbarazzato. Sposta in continuazione lo sguardo da me a mio padre, incerto se poter parlare libera-mente o meno. Incrocio le braccia al petto e resto in attesa.

"Sarebbe una cosa privata", borbotta infine, lanciando un'altra occhiata eloquente in direzione di mio padre.

"Andy sa tutto quello che mi riguarda".

"Non chiamarmi Andy, per favore. Sono tuo padre", sbuffa. Non sopporta che lo chiami per nome.

Luke si sistema il colletto della divisa. Le sue guance si colorano di rosso quando incrocia nuovamente i miei occhi.

"So che uno dei motivi per cui ho deciso di lasciarti è ciò che fai", attacca impacciato, passandosi una mano tra i capelli biondi. Dall'ultima volta che l'ho visto gli sono cresciuti di almeno quattro centimetri. "Ma abbiamo bisogno del tuo aiuto, Còrin".

Impiego più di un minuto a metabolizzare le sue parole.

Luke nel frattempo studia la mia espressione perplessa e resta in attesa del mio consenso a continuare, tamburellando nervoso il dito indice contro il ginocchio.

"Hai capito cosa ti ho detto?", la voce aspra di Luke spezza il pesante silenzio.

"Veramente sono ancora ferma a uno dei motivi", lo fulmino indignata. Sento il sangue martellarmi nelle orecchie. "Hai sempre sostenuto di avermi lasciata per un solo motivo!".

"Per favore, Còrin...", sorride tra i denti, dimenandosi sui cuscini del divano. Non può evitarsi un'occhiata verso mio padre. Se fossi al suo posto molto probabilmente nemmeno io me ne starei tranquilla con uno come Andy nella stanza. "Non mi sembra un buon momento per discuterne".

Annuisco ma improvvisamente un altro punto del suo discorso mi rende sospettosa. "E hai detto che avete bisogno del mio aiuto!", preciso.

Il suo sorriso si spegne. "Hai sentito bene".

Anne posa la mano sulla mia spalla facendomi voltare verso di lei. I suoi occhi esprimono insicurezza. Non si fida di Luke, è evidente. Ed io? Mi fido di lui? Non appena mi porgo questa domanda, un altro dubbio mi perfora lo stomaco.

Ho un sussulto mentre do voce ai miei sospetti. "Hai detto ai tuoi colleghi ciò che faccio?".

Luke annuisce calmo, lanciandomi un'occhiata colpevole anche se non sembra dispiaciuto di averlo fatto. "Ho dovuto".

"E per caso vogliono arrestarmi?". L'ultima parola riesco a tirarla fuori con una specie di singhiozzo.

"Sono molto curiosi di conoscerti".

"Quindi vogliono arrestarmi", traggo le mie conclusioni.

Si prende la testa tra le mani, massaggiandosi le tempie come se tutto d'un tratto gli fosse scoppiato un terribile mal di testa. Il tono che usa ha un che di supplichevole: "Còrin, ti prego. Nessuno vuole arrestarti".

"E allora perché vogliono incontrarmi?", chiedo, penten-domene subito.

"Come ben sai gran parte dei miei colleghi sono completamente inaffidabili. Gli unici di cui mi posso fidare sono l'ufficiale Bren e il sottoufficiale Peterson. Ma noi tre da soli non siamo in grado di mantenere un totale controllo sulla città. Perciò, quando sono stato promosso ispettore capo, mi sono ricordato di te e ho proposto agli altri due di ricorrere al tuo aiuto".

"Chi ci assicura che non sia una trappola?", s'intromette Andy.

"Io! Sono al comando della polizia di Loveland e l'unico che possa prendere una decisione definitiva".

Ci voltiamo tutti e tre insieme a fissarlo, confusi.

"Qualora qualcuno dei miei colleghi volesse arrestare Còrin, l'ultima parola spetterebbe comunque a me", si spiega meglio.

Anne mi batte un colpetto sulla spalla. Mi volto verso di lei.

"Devo andare", dice.

"Va bene", annuisco.

"Fa attenzione", si raccomanda Andy, poi sospira, la fissa mentre attraversa il salotto e poi torna a fissare me con uno sguardo esasperato. Non è difficile immaginare cosa gli stia passando per la testa.

"Ah, Anne!", la chiamo urgente.

"Sì?".

"Mi mandi un SMS quando vedi Nick? Solo per stare più tranquilla".

"Non preoccuparti. Appena lui e Andrew finiscono il giro ti faccio chiamare. Ciao Andy... Luke".

Rimasti noi tre soli ci scambiamo occhiate inquiete. L'idea che Anne stia perlustrando da sola l'intero quartiere non piace a nessuno. Men che meno a me che sono praticamente obbligata a starmene seduta su un divano, al sicuro, a discutere di qualcosa che ancora non mi è ben chiara, e con mio padre che non mi perde di vista, seduto tra me e la porta d'ingresso.

Devo deglutire tre volte e ignorare la parte di me che crede che sto impazzendo per riprendere il discorso. "D'accordo Luke. Ti aiuterò... ma ad un patto". Alzo la mano bloccando sul nascere una sua protesta. "Ho deciso di correre questo rischio e fidarmi di te, ma non voglio che tu tiri in mezzo i miei amici".

Senza pensarci acconsente con un cenno impercettibile della testa.

"Inoltre...", continuo.

"Il patto era uno solo", mi ricorda seccato.

Lo ignoro. "Inoltre, voglio la tua parola d'onore che anche i miei amici non correranno mai il rischio di essere arrestati".

Luke irrigidisce la mascella e dalle sue labbra parte uno sbuffo.

"Non è grazie ai tuoi colleghi se è ancora possibile vivere in questa città. E' solo grazie a noi", gli ricordo.

"D'accordo", si arrende, posando i gomiti sopra le ginoc-chia per sporgersi in avanti, verso di me. "Ti do la mia parola d'onore. Ma voi non dovrete parlarne con nessuno o passerò dei guai seri. E li passerete anche voi".

Mi volto per un secondo verso mio padre e lo trovo intento a fissare fuori dalla finestra con le mani incrociate dietro la schiena. Non mi ero nemmeno accorta che si era spostato mente io e Luke discutevamo.

"Dice il vero?", gli chiedo. Se Luke ha mentito, mio padre è l'unica persona al mondo che può affermarlo con certezza.

Gli occhi di Luke riprendono a spostarsi velocemente da me a mio padre, da mio padre a me. Ovviamente non può capire.

"Le sue intenzioni sono buone. Non vuole imbrogliarti... ma...", si volta lentamente verso di lui e a passi calcolati si allontana dalla finestra per tornare a sedersi sulla poltrona. Poi affina lo sguardo contro quello di Luke, studiandolo attentamente.

"C'è qualcosa che non va. Qualcosa che mi sfugge completamente", si dice, massaggiandosi il mento. Gli occhi sono diventati due piccole fessure sospettose.

Luke solleva un sopracciglio, cercando in me un appoggio che non posso dargli. Le labbra tese.

"Sta cercando di imbrogliare ME", annuncia infine Andy, nel tono una certezza assoluta.

Di colpo nella mente i ricordi cominciano ad apparire nitidi come flashback sepolti nella memoria, che prendono la forma di un gigantesco fumetto sopra la mia testa e che seguono una sequenza via via sempre più precisa, che mi catapulta a quel pomeriggio di qualche mese prima. Anziché addolcirmi al ricordo di me e Luke che facciamo l'amore, mi ritrovo proiettata in uno storyboard da film dell'orrore, con mio padre nel ruolo dello psicopatico killer.

"I tuoi occhi...", mormora Andy, bloccando sul più bello i miei flashback. "Quando sono rivolti verso mia figlia si riem-piono di sincerità. Ma non appena si scontrano con i miei, ecco apparire una vena d'imbarazzo".

Trattengo il respiro. So che mio padre non è in grado di leggere nel pensiero, eppure in questo frangente la cosa non riesce a tranquillizzarmi.

"Anche in questo momento", continua, "sei imbarazzato. Più imbarazzato di un normale ex fidanzato alle prese con un padre dispotico e malevolo. C'è qualcos'altro...".

Ho un sussulto tanto forte che mi ritrovo quasi in piedi.

Gli occhi di Andy slittano veloci su di me per poi tornare immediatamente dopo su di Luke. "Mi stai nascondendo qualcosa. Qualcosa che vuoi tenere nascosto solo a me".

"Signor Alley... io... non capisco...", balbetta Luke. E' più che confuso.

Mio padre chiude le palpebre e le riapre subito, con uno scatto. I lineamenti del volto si distendono ed io riprendo a respirare.

"Forse dovremo parlare di come posso essere utile alla polizia!", cerco disperata di cambiare discorso.

"Già!", acconsente Luke, distogliendo ben volentieri lo sguardo da mio padre. "Bene! Direi che se tuo padre è d'accordo, potremmo fare le ronde insieme. A cominciare da adesso".

Faccio per alzarmi, senza sapere bene se voler seguire Luke o se limitarmi a fuggire di casa e ritornarci al mio quarantesimo compleanno, ma poi mi accorgo dell'espressione di mio padre. Trattengo il fiato mentre la sua faccia cambia rapidamente tonalità, fino a fermarsi sul rosso.

"Aspettate un minuto", sbraita e poi resta zitto.

Il tempo che segue è ben più lungo di un misero minuto. Sto cominciando a sudare, sento le gocce scivolarmi nell'incavatura tra il naso e il labbro superiore.

"Mi stai veramente chiedendo il permesso di mandare mia figlia fuori, di notte, con un poliziotto che non solo non è riuscito a salvare mio figlio, ma non ha nemmeno mosso un dito per trovare gli assassini che me l'hanno portato via? E' questo che mi stai chiedendo, Luke?".

Involontariamente faccio scattare lo sguardo verso la cornice dell'ingresso, quella vicina alla mia, quella con la foto di Martin. E il dolore si rinnova, radicandosi dentro di me ancora più in profondità.

"Signor Alley, davvero io la capisco. Ma l'aiuto di Còrin ci è indispensabile".

"Anche il vostro aiuto è indispensabile per noi tutti cittadini", ribatte.

"Ci stiamo muovendo per offrirvi la più completa protezione".

"Dannazione! Sfruttando mia figlia, però!".

A questo punto si stanno scontrando non solo con le parole bensì con uno sguardo di sfida che gela l'intera stanza.

"Signore io l'ammiro come padre e come uomo. E sono certo che lei farebbe di tutto per riportare Loveland ad un livello di sicurezza più elevato. Quindi non vorrei ritrovarmi costretto a chiederle il permesso per fare una cosa giusta. Anche se è pericolosa, anche se non la condivide. Signor Alley ho bisogno di Còrin", conclude in tono solenne.

Mio padre annuisce senza aggiungere nulla. Ha tutta l'aria di star davvero valutando le parole di Luke, eppure noi sappiamo che ha già preso la propria decisione.

"Andrò con Luke con o senza il tuo consenso", intervengo.

Mi punta un dito contro. "Se tu uscirai da quella porta...".

"Cosa?", esplodo. "Cosa accadrà?".

"Parlerò con Andrew e lo convincerò a toglierti definitiva-mente dal gruppo".

Siamo quindi arrivati alle minacce? Lo guardo torva, prepparandomi a contrattaccare. "Ci parlerò anch'io con Andrew. E voglio proprio vedere chi ascolterà".

"Ascolterà me, signorina. Credi davvero che lui non si renda conto dei tuoi limiti? Sei un peso per lui, una preoccupazione inutile. Perché sei solo una ragazzina... sei... sei... ma guardati, dannazione". Mi punta di nuovo il dito contro, non trovando la parole esatte per descrivermi. Riprende fiato e prosegue. "Qui non si tratta di chiedermi il permesso per rientrare un po' più tardi la sera o per che diavolo ne so!".

Lo guardo assolutamente scettica, cominciando ad infilarmi la giacca. "Tanto non avrei il permesso nemmeno per fare un po' più tardi".

"Tu non uscirai da questa casa. Punto".

"E la mamma?", farfuglio.

La domanda sembra prenderlo in contropiede ma in pochi secondi recupera il sangue freddo e prende il cellulare. "Mi metto subito in contatto con lei. E tu Luke puoi anche andartene ora, perché Còrin sta per andarsene a letto".

Resto col fiato sospeso in attesa che la mamma risponda al cellulare, ma le labbra di mio padre restano immobili, sigillate in una smorfia di impazienza. La linea cade. Cosa devo fare? Cerco di calcolare alla svelta i pro e i contro.

Se vado a cercare la mamma, rischio che mio padre riesca davvero a convincere Andrew ad estraniarmi dal gruppo.

Se non ci vado rischio di lasciare la mamma in pericolo, ed è un rischio troppo grosso.

Agitata cerco lo sguardo di mio padre, ma lui è nuovamente voltato verso Luke col cellulare appiccicato all' orecchio. La preoccupazione gli forma delle rughe tutto intorno alla bocca.

Concedo alla mamma altri dieci secondi scarsi per rispondere e poi scatto lungo il corridoio, trascinando Luke con me.

Alle mie spalle sento la voce di mio padre. "Dove credi di andare, signorina?!".

Mi raggiunge in un attimo e mi trattiene per una spalla, strattonandomi fino a costringermi a voltarmi verso di lui. Nel suo sguardo vedo chiaramente la rabbia trasformarsi in paura.

"Avevi detto di essere orgoglioso di me, papà. Di quello che facevo", gli ricordo con le lacrime appena spuntate negli occhi. Se perdo la libertà, allora cos'altro mi resta?

Per un attimo rimane impietrito. Ma è solo un attimo. "Questo non significava che ti avrei permesso di romperti l'osso del collo per tutta la vita. Còrin!", scuote la testa, ti-rando un profondo respiro. "Sei mia figlia. La cosa più importante per me".

"Lo so... insomma, immagino sia così", balbetto imbarazzata. Io e mio padre non siamo mai stati troppo abituati a certi tipi di confidenze.

Appena allenta la presa ne aprofitto per voltarmi e rag-giungere la porta. Mi sento una schifosa traditrice.

"Non andare, Còrin", sussurra alle mie spalle. Nel tono vi colgo una nota di rassegnazione che non gli ho mai sentito e per un attimo sono quasi tentata di fermarmi. Ma poi penso alla mamma là fuori, a Irene... penso a quello che ho perso e a quello che ancora posso perdere....

"Scusa papà". Senza voltarmi chiudo la porta d'ingresso, sbattendola, e mi lancio di corsa lungo il vialetto. L'auto della polizia è parcheggiata sul marciapiede di fronte, con le luci di posizione accese.

"Tuo padre ti ucciderà, lo sai vero?", ansima Luke.

Sempre correndo mi volto nell'oscurità, come una criminale che sta fuggendo col maltolto. Quando scorgo la sagoma di mio padre alla finestra, istintivamente prendo a correre più veloce, inciampando tre volte nella ghiaia prima di cadere addosso allo sportello dell'auto.

"Accidenti, accidenti!!!!", urlo, allacciandomi la cintura.

"Ti vuoi calmare? Tuo padre non ti sta seguendo. E tu non dovresti dissobbedirgli in questo modo".

Stacco gli occhi dalla sagoma di mio padre per puntarli contro quella di Luke, illuminata a malapena da un lampione acceso dall'altra parte della strada. "Mi stai prendendo in gi-ro?".

"No, affatto". Fa girare le chiavi nel cruscotto e con una lentezza snervante ingrana la prima. Come se avessimo tutto il tempo di questo mondo. "Tu hai la tendenza a fare sempre di testa tua, ignorando i sentimenti degli altri".

Per un attimo resto basita. E' lo stress a farlo parlare? O la rabbia?

"Luke! Sei stato tu a dirmi che dovevo aiutarti".

La sua mascella ha un guizzo. "Ti ho chiesto di aiutarmi, non ti disubbidire a tuo padre".

Accanto al cruscotto dalla piccola radio ricetrasmittente comincia a gracchiare una voce di donna. Il cuore mi martella talmente forte che faccio fatica a sentire quello che dice.

"Mia madre è in pericolo", mi difendo.

"Non ne hai la certezza".

"Beh, preferirei agire prima che lo diventi!".

Lo sento sospirare. "Testarda".

Ci fermiamo ad un semaforo e volto lo sguardo verso una Hyundai ferma accanto a noi. La donna al volante mi fissa a lungo ed io rimpicciolisco. Starà pensando che mi hanno arrestata? Cerco di distrarmi schiacciando alcuni tasti lampeggianti sopra la radio ma Luke mi blocca la mano contrariato.

"Còrin, non è un giocattolo".

"Quanto sei pesante", brontolo.

Sul semaforo scatta il verde e finalmente ci lasciamo alle spalle la Hyundai. Superata la piccola stazione dei treni, Luke arresta l'auto lungo una strada di periferia e spegne il motore.

"Tua madre lavora qui?", mi chiede.

Mi ci vogliono alcuni secondi per orientarmi. "Mi pare di sì. Ci sono venuta solo una volta, ma la zona dovrebbe essere questa".

"Santo Dio, Còrin", sbotta, colpendo il volante con en-trambi i palmi. "Hai disubbidito a tuo padre, mi sta facendo venire i capelli bianchi, ti sei messa in un mare di guai... tutto per proteggere tua madre. Ed ora mi stai dicendo che non sai nemmeno dove lavora?".

"Non ho detto di non saperlo. E comunque non capisco dove sia il problema".

Si volta si scatto, strabuzzando gli occhi per la rabbia. "E come diamine pensi di soccorrerla se non sai nemmeno dove si trova?".

Mi mordicchio l'unghia. "Senti, ho agito d'impulso. Ok? Quando ho notato che mia madre non rispondeva al telefono mi sono spaventata. E comunque ti ho detto che la zona è questa".

"Su una cosa tuo padre ha ragione", scrolla la testa.

"Avanti, sentiamo", incrocio le braccia al petto. "Su che cosa mio padre avrebbe tanta ragione?".

"Ha ragione nel dire che sei solo una ragazzina".

Sto per ribattere ma mi blocco nel vedere l'angolo della sua bocca stiracchiarsi lentamente in un sorriso malizioso. Una luce diversa gli riempie lo sguardo mentre si sporge verso di me per aprirmi la sicura in maniera tale da accostare le labbra al mio orecchio per un breve istante: "Una ragazzina che fa l'amore divinamente", aggiunge. Poi si ritrae di colpo, senza concedermi un solo secondo di tempo per reagire. La sua espressione è tornata severa. La luce negli occhi è scomparsa. "La ronda comincia da qui".

"Dobbiamo cominciare da qui?". Non so nemmeno in che modo riesco a parlare. Non riesco nemmeno a respirare.

"Sì", mi risponde, saltando fuori dal veicolo.

Guardo alla mia sinistra l'edificio che mi pare sia quello in cui lavora mia madre. Alcune luci al piano rialzato sono ancora accese. Mentre ci incamminiamo lentamente lungo la strada, fiancheggiata da basse villette, cerco di farlo ragionare.

"Non ha senso iniziare da qui. Ha senso iniziare dentro l'edificio, chiedendo da quanto tempo mia madre se ne è andata... e magari se in effetti lavora lì".

"Puoi di grazia parlare un po' più piano?".

"E' peggio che in Full Metal Jacket", borbotto.

Lo sento imprecare tra i denti mentre riprende a camminare cauto, puntando gli occhi verso le zone più buie della strada. La sua ricetrasmittente comincia a fischiare e una voce metallica si espande per la strada vuota nello stesso identico momento che sento vibrare il mio cellulare.

"Pronto?", rispondo.

La voce di mio padre è un tuono. "Dove diavolo sei?".

"Sono sotto l'ufficio della mamma. Papà mi dispiace...".

"Ti dispiacerà molto di più appena rientrerai a casa", la minaccia suona terribilmente seria. "Comunque sono riuscito a contattare tua madre. Sta bene. Si è dovuta trattenere qualche minuto a causa di una riunione".

Tiro un sospiro di sollievo. "Non lo stai dicendo solo per farmi tornare a casa?".

Per un momento mi distraggo nel sentire Luke parlare attraverso la radio con uno strano gergo militare che non riesco a decifrare. E' MOLTO peggio che in Full Metal Jacket...

"Non ti mentirei mai su una simile cosa. Ti conviene tornare ora. Ti conviene veramente", più che un suggerimento è un ordine.

"Lo so, papà. Hai ragione. Ora dico a Luke di... di...", cor-rugo la fronte, cercando di decifrare quallo che Luke sta cercando di comunicarmi a gesti. "Scusa solo un momento, papà".

Si allarma all'istante: "Che sta succedendo?".

Con un gesto della mano faccio cenno a Luke di non aver capito e lo raggiungo sul ciglio della strada.

"Dobbiamo fermarci qui", mi spiega.

"Perché?".

"Còrin?", dal cellulare mi arriva la voce sempre più impa-ziente di mio padre.

"Sì, papà. Ora dico a Luke di riaccompagnarmi a casa".

"Bene. Perché abbiamo qualcosa su cui discutere, signorina. Tipo il tuo nuovo coprifuoco, la paghetta, l'abbonamento a Cosmopolitan o come diavolo si chiama quel giornaletto che ti piace tanto...".

"Top Girl", lo correggo. Sento le mie labbra piegarsi verso il basso.

"Non ha importanza! E poi parleremo anche di ciò che potrai fare mentre sei in casa...".

Di colpo smetto di ascoltarlo. Dal buio, dietro una bassa ringhiera che delimita il parcheggio di un supermarket, emergono lentamente due figure, tagliando di netto la luce ambrata del lampione.

In un secondo vengo travolta da un'ondata di sensazioni contrastanti. Dapprima la sorpresa, perché la loro presenza ha tutta l'aria di essere un'imboscata. Poi, a mano a mano che metto a fuoco le due sagome, mi accorgo dei distintivi appuntati sul bavero delle loro giacche, identici a quelli di Luke. E la sorpresa si tramuta in paura. Cerco di soffocarla, combattendo contro un doloroso senso di malessere che provo nel vedere l'espressione soddisfatta di Luke. E' stato lui, dunque, ad organizzare tutto. Mi mordo il labbro inferiore, inghiottendo un'imprecazione e appena trovo il coraggio di riposare lo sguardo sui suoi due colleghi, mi ritrovo ad arretrare davanti a quattro occhi che mi esaminano con un misto di meraviglia e rabbia.

"Devo andare papà", farfuglio nel ricevitore. Quando chiudo la comunicazione la voce di mio padre non ha ancora cessato di elencare le punizioni.

Mi guardo attorno spaesata, rimpicciolendo quando l'uomo accanto a Luke mi lascia scorrere addosso il suo sguardo deliberatamente critico. Involontariamente retrocedo di un paio di passi.

"Cos'è? Uno scherzo?", il suo tono è quasi più critico dello sguardo.

Anche se Luke mi sta mostrando le spalle riesco a intuire quanto sia nervoso e teso dal modo in cui parla di fretta, mangiandosi l'ultima sillaba di ogni parola. "Non solo non è uno scherzo, ma è anche l'unica soluzione che ho trovato. Ad ogni modo posso spiegarvi...".

Le sopracciglia del collega più in disparte si uniscono in un'espressione scettica. "Puoi?".

Senza osare guardarmi negli occhi, Luke mi afferra il polso e mi sospinge in avanti, farfugliando una specie di scusa per non avermi informata dei suoi piani. Appena cerco di ritrarmi mi lancia un'occhiata supplichevole.

"Dovremo quantomeno parlarne, Bren", sento la voce di Luke simile ad un ronzio. E' come se le mie orecchie si fossero riempite di mosche. Perché questa trappola? Anche se una parte di me si rifiuta di credere che lo sia per davvero, è impossibile pensare che due suoi colleghi siano qua per una pura e semplice casualità.

"Lo penso anch'io". Il ragazzo di fronte a me annuisce con un colpo secco della testa. Dal cappello gli sfuggono dei riccioli chiari. La fronte sudata è attraversata da tre profondi solchi. Poi si avvicina a me di un passo, inclinando la testa di lato. "La tua persona risponde al nome di Còrin Alley?".

Abbozzo un sorriso, accennando una specie di inchino. "Sì, è il mio nome".

"Da quanto?".

Corrugo la fronte. "Da... da sempre. Cioè, da quando sono nata".

"Da quanto lo fai?", si spazientisce, parlando come se di fronte avesse una bambina ritardata.

Per una frazione di secondo sono quasi tentata di blaterare una bugia qualsiasi. Ma probabilmente Luke ha già provveduto ad informarli di tutti i dettagli che aveva promesso di tenere per se. Opto quindi per la verità, volendo considerare che avrei a disposizione solo tre secondi esatti per inventare qualcosa di plausibilmente credibile.

"Da un paio d'anni". Cerco di dirlo con tutta l'indifferenza di cui sono capace, ma la voce non sembra voler funzionare come al solito. "Non ricordo esattamente. Non potrei essere più precisa di così".

"Quindi tu...", aggrotta la fronte con uno stupore quasi offensivo, "dimmi se ho capito bene: sostieni davvero di essere più preparata di tutti noi?".

"Non ho mai pensato una cosa simile". Cerco Luke con lo sguardo, sperando di trovare in lui un sostegno; se ne sta voltato verso il suo collega, rosso in volto.

"E allora perché lo fate?".

Sto sudando. Mi passo le dita sulla fronte per cancellare ogni prova. "Noi lo facciamo perché...".

"Perché vi reputate superiori alle nostre capacità", ringhia a denti stretti, "perché ci ritenete inadeguati a proteggervi e perché sostenete la politica della vendetta personale. Ecco perché lo fate".

"Non avrei potuto dirlo con parole migliori", mormoro in un eccesso di coraggio e subito me ne pento scorgendo il colore rosso sulle sue guance. Per una seconda volta cerco l'appoggio di Luke e lo trovo con gli occhi sgranati su di me.

Grandioso!

"E anche voi ci ritenete migliori di voi", continuo.

Il ragazzo fa un ampio passo in avanti, sovrastandomi con la sua altezza in una mossa che vuol essere minacciosa. "Come osi?".

Mi ritrovo ad inclinare la testa all'indietro per poter conti-nuare a guardarlo negli occhi. "Non avreste chiesto il nostro aiuto altrimenti".

Con la coda dell'occhio vedo il ragazzo in disparte avanzare una protesta .

"Resta al tuo posto", lo ammonisce Luke, e subito l'altro obbedisce, sottolineando l'inferiorità del suo grado.

"Capitano, non puoi permettere a questa ragazzina di...".

"Posso farlo invece. Ed esigo che nessuno di voi esprima giudizi affrettati riguardo le mie decisioni. Sbagliate a dubitare di lei".

"Stiamo sbagliando?", strilla allibito quello di fronte a me. "Ma dico? L'hai guardata?".

L'espressione di Luke non si scompone. "L'ho fatto".

"Allora forse ti conviene darle un'altra occhiata perché mi rifiuto di credere che...".

"Chiedile quanti criminali ha fermato", lo interrompe Luke.

"Cosa?".

"Chiedile anche come lavora", aggiunge, atteggiando il tono ad un ordine.

Gli occhi del ragazzo si staccano riluttanti da quelli di Luke per tornare su di me. Sembra meno sicuro di sé anche se si ostina a tenere il mento ben proteso verso l'alto in un gesto di stizza.

"Come lavori?", mi chiede infine, dopo un lasso di tempo che a me sembra lunghissimo.

"Vado, attacco e torno".

"E ci vai così?", sibila.

Abbasso gli occhi, seguendo la traiettoria del suo sguardo. Mi accorgo che sta fissando le mie scarpe.

"Ah... queste?" Sono così agitata che le parole mi escono a scatti. "Non è un problema. Tanto sono già macchiate. Ho provato a lavarle con...".

"Quanti criminali hai fermato?", passa alla domanda suc-cessiva. Gli occhi fissi sulla mia gonna a falde rosa.

Mi mordicchio un'unghia. "Quanti?".

"Tre, quattro, cinque? Noi da quando lavoriamo insieme abbiamo arrestato dodici persone". Dal tono di voce percepisco che ne va profondamente orgoglioso. "Tu? Quante ne sei riuscita a fermare?" .

Sollevo entrambe le sopracciglia. Dodici? Mio malgrado corro rapidamente con la mente a tutti i mesi che mi separano dalla mia prima ronda e cerco di fare un calcolo approssimativo. Sono uscita quasi tre notti a settimana negli ultimi due anni e alle volte ho dovuto intervenire anche in pieno giorno... in più c'è quella faccenda alla CBM... Cerco Luke con lo sguardo. Se solo sapessi quanto ha raccontato di me.

"Non ne sono convinta...", prendo tempo.

Riecco il sorriso soddisfatto.

"Vuole... vuole la cifra esatta?", gli chiedo dubbiosa.

I suoi occhi scintillano rabbiosi. "Risponda!".

"Novanta... forse cento", resto sul vago.

"Mi sta prendendo in giro?", domanda, rivolgendosi però a Luke.

Luke gli risponde con un semplice mugugno.

"Certo che questa storia ha dell'incredibile... per quanto non vi abbia ancora visti in azione", prosegue sospettoso.

"Dell'incredibile?", balbetto.

"Sì", annuisce lento, rincorrendo chissà quali pensieri.

Con la coda dell'occhio noto che Luke sta scambiando un'occhiata tesa col ragazzo in disparte e ogni mio tentativo di attirare la sua attenzione per avere un minimo di sotegno morale va a farsi benedire. Sembra più che altro concentrato su quello che potrebbe accadere attorno a noi. Ora che li guardo bene sono tutte e tre concentrati e tesi. La pelle dei loro volti, per quanto celata dal buio della notte, mi appare pallida e tirata.

"Vede Còrin: noi ce ne stiamo qua, allertati, armati fino ai denti", fa una breve pausa, inspirando col naso, "mentre lei se ne sta tranquilla, esposta ai pericoli come se niente fosse, passeggiando come se questa fosse un'uscita di piacere".

"Solo perché sono abituata".

"A cosa?".

"Ad avere paura", mormoro piano.

"Perché diamine non fai quello che fanno tutte le donne?".

Lo fisso. "Cosa dovrei fare?".

"Se davvero vuoi aiutare la gente perché non ti limiti a fare volontariato in un ospizio o a studiare da infermiera? Le donne servono a questo di solito".

"Non è mia intenzione smettere di fare ciò che faccio", mormoro ancora più piano.

I suoi lineamenti si irrigidiscono appena. "Certo che lei ha una gran faccia tosta ad ammettere davanti a tre funzionari della polizia di voler agire al nostro posto per portar avanti il nostro lavoro".

"Il vostro? Questo è il mio lavoro, signore. Lo è da più di due anni. E lo sto portando avanti meglio di chiunque altro".

Le sue mani si chiudono in pugno, segno che le mie parole l'hanno punto sul vivo. "Non le permetterò di circolare nella mia zona portando con sé armi di ogni genere!".

"Io non esco armata", mi difendo.

I suoi occhi si fissano nei miei per un lungo istante.

Mi guarda a lungo.

Ancora.

E ancora...

"Ma dico, siete matti o cosa voi altri?", sussura poi.

"Andrew mi ha insegnato comunque ad usare un coltello nel caso mi dovessi trovare in pericolo di vita. Ma i suoi insegnamenti si basano su una tecnica di autodifesa che non viene insegnata nelle comuni scuole".

"Quello che fate è illegale. Questo ve lo ha insegnato An-drew?".

"Sì".

Affina lo sguardo. "Eppure non avete intenzione di fermarvi".

"No, signore".

"Luke!", lo chiama con un tono esasperato, dandomi fi-nalmente le spalle. "Non puoi permetterle di scavalcarci".

"L'ho già fatto", gli risponde con un'alzata di spalle.

"Stai davvero affidando le nostre vite ad una bambina vestita da Barbie e ad altri tre ragazzini senza spina dorsale? Non puoi farlo".

Per un momento Luke sembra essere preso in contropiede.

"E come pensa precisamente di porre fine alla criminalità della zona senza il nostro aiuto?", intervengo. "Perché io sono un po' stanca di essere messa in punizione da mio padre per colpa della vostra negligenza".

"Non essere sfacciata, ragazzina", mi zittisce.

"Sono realista!", mi difendo, stringendomi nelle spalle e guardando altrove. Per l'esattezza dove dieci secondi fa è scattato l'allarme stridente e metallico di una Mercedes. Ac-canto all'auto non vi scorgo ombre. Strizzo gli occhi, attenta, cercando di non lasciarmi distrarre da ciò che Luke e gli altri due si stanno dicendo. "Se voi non foste negligenti, vi saresti accorti che stanno rubando un auto a nemmeno duecento metri dalle vostre spalle".

Luke si guarda attorno velocemente e con uno scatto raggiunge l'angolo di una casa. Appiattisce la schiena al muro e mi fa cenno con la mano, nascosta dal guanto di pelle, di raggiungerlo. Nel frattempo comunica a gesti con i suoi due colleghi, come fanno i mimi, e non capisco un'acca di ciò che vogliono o pensano di fare. Vedo Peterson disegnare nell'aria un cerchio con la mano e Luke rispondergli con un altro movimento frenetico delle dita, scuotendo la testa in segno di diniego. Sola, sul marciapiede, non ho la più pallida idea se devo intervenire o se devo raggiungere Luke. Mi trovo spiazzata. Comincio a capire del perché Luke abbia pensato di chiedere il mio aiuto.

"Luke?", lo chiamo, senza badare al tono alto della voce. "Cosa devo fare?".

"Le probabilità di successo sono minime sotto ufficiale", lo sento mormorare al suo collega.

A passi lenti e incerti mi sposto nel punto dove si sono nascosti.

"Possiamo aggirare l'ostacolo se ci dividiamo", insiste Peterson.

Ma Luke non gli lascia il tempo di concludere la frase. "Negativo!".

Avanzo di mezzo passo, esitante. Stanno davvero facendo tutta questa messinscena per un furto d'auto? Non riesco a crederci. Fossi stata con Anne o con Andrew, a quest'ora me ne sarei già potuta tornare a casa. Lancio un'occhiata verso la Mercedes. Nel buio, ora riesco ad intravedere l'ombra di cinque persone accanto all'auto. Qualcuno di loro deve essere riuscito a scollegare i fili dell'allarme perché tutto ad un tratto l'unico suono che sento è il bisbiglio di Luke.

"Còrin, per l'amor del cielo, togliti di lì".

Torno a fissare le cinque sagome. "Suppongo sia bene che qualcuno di noi si decida ad intervenire".

"Còrin, non spetta a te andare a...".

Alzo una mano per interromperlo. "Ho promesso di aiutarti e non ho certo intenzione di tirarmi indietro. Allora, vuoi vedere come si fa a bloccare un furto con scasso?".

"E' estremamente pericoloso", prova a farmi ragionare.

"Non so se ti rendi conto di quanto sia io ad essere estremamente pericolosa".

"Còrin!", mi rimprovera.

"Luke!", lo zittisco.

"Ti faranno del male".

"Che importanza ha ormai?", mormoro tra me e me.

Mentre proseguo lungo il marciapiede i miei occhi si fanno all'erta. I cinque si accorgono di me solo quando ci separano poco meno di due metri. Uno di loro lascia cadere a terra un ferro lucido e insieme fanno per scappare.

"Fermi!", grido.

Vedo le loro schiene irrigidirsi. I piedi incollati a terra, i volti rivolti davanti a loro. A sorpresa, mi accorgo di aver vo-glia di ridere. Tanti piani, tanti mimi, tanti paroloni... e poi bastava un "Fermi!"

"Ancora tu", sibila il più alto, senza voltarsi.

Incrocio le braccia al petto e tamburello con la punta della scarpa. "Eppure mi sembrava di essere stata sufficientemente chiara l'altra notte: avevate tre ore. Più di quante ne abbia mai concesse a qualcun altro. Ne sono passate ben trentaquattro... forse qualcuna di più".

Alle mie spalle sento avvicinarsi dei passi. L'attimo se-guente Luke si posiziona alla mia sinistra, Bren alla mia de-stra. Peterson fa scattare le manette, ma quando fa per avvicinarsi a loro, Luke lo trattiene per il polso.

"Aspetta", gli ordina in un mormorio.

"Avevamo stretto un patto se non ricordo male", riprendo, nel momento in cui vedo Peterson metter via le manette.

Il più alto dei cinque si lascia sfuggire un sospiro. "Quan-to?".

"Un'ora... e bada che sarò in giro per tutta la notte", lo minaccio. Con la coda dell'occhio vedo Luke rivolto verso i suoi colleghi, intento a mimare qualche parola che non riesco a comprendere.

Il ragazzo annuisce e, dopo avermi lanciato un'ultima oc-chiataccia furente, fa cenno agli altri quattro di seguirlo.

"Che facciamo?", Peterson non riesce a darsi pace. La mano destra freme sul cinturone, in cerca molto probabil-mente delle manette. "Non vorrete davvero lasciarli andare?".

Nell'oscurità la voce di Bren riecheggia come un colpo di frusta. "Chiudi il becco. Fammi almeno questo favore".

"Bene ragazzi, immagino che questo sia bastato a sciogliere ogni vostro dubbio", mentre ancora sta parlando, Luke mi afferra per un gomito, sospingendomi verso la parte opposta della strada. "Continuate pure la ronda. E sappiate che per ogni cosa, ora avete lei". Si blocca un secondo, come a voler fare una pausa ad effetto. "La dimostrazione è finita".


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