Capitolo 97 - Due donne

Elisabetta Farnese aveva voglia di sentire Michelangelo, ma ancor di più aveva voglia di vederlo.

Prese la sua auto, sarebbe andata da lui a Tarquinia.

Pensò a cosa dire nel caso fosse stata fermata da una pattuglia. In fin dei conti era una giornalista, il diritto all'informazione veniva prima di tutto. Si chiese se il suo tesserino fosse nella borsa.

L'alba stava sorgendo, in meno di un'ora il BMW X3 coprì i quarantaquattro chilometri che separavano Viterbo dalla sua destinazione.

Il navigatore la stava portando lungo la SS675; le luci di una piccola galleria le diedero un senso di leggera nausea, questo le ricordò di non aver fatto colazione. Poco dopo si buttò sulla statale 1 bis dell'Aurelia, tra Casale Cinelli e Monte Romano.

Guidava sicura e amava farlo, anche se usava poco l'auto. Le lunghe dita affusolate giocavano col cambio sequenziale, agendo con le levette del paddle al volante.

Se non avesse fatto la giornalista avrebbe voluto fare la pilota, pensò sorridendo.

Arrivò a Tarquinia da Est, attraversando la necropoli, cosparsa di antiche tombe a tumulo di epoca etrusca. Era già nelle viuzze deserte del paese. Il Navigatore le segnalò la via Pancrazio, ormai era arrivata.

Entrò con l'auto nella piazzuola di fronte alla chiesa del XII secolo che dava il nome alla via e imboccò il viottolo a fianco, di cui il navigatore ignorò l'esistenza. Oltre la strettoia fermò l'auto, si trovava sul retro della chiesa. Era vicina.

Stava per scendere quando vide una viuzza laterale. Via Vitelleschi, era quella che cercava. Ci entrò con il BMW. Alcune catene e vari cartelli indicavano che l'accesso era solo pedonale. Sospirò e fermò di nuovo l'auto. Con alcune manovre parcheggiò a fianco della chiesa, "Un monumento all'inventore dei sensori di parcheggio", pensò.

Scese e si guardò attorno, Senza navigatore non l'avrei ritrovata.

Si sistemò i capelli, senza un vero motivo, poi raggiunse l'ingresso della casa. Notò i vasi di artemisia che aveva visto la prima volta e le parve di sentirne il profumo.

Premette il tasto del citofono. Un lungo silenzio seguì il suo gesto, riprovò con più convinzione.

Le vennero un sacco di dubbi, "E se non ci fosse?"

L'orologio al polso, il delicato Fossil a cui era affezionata, le diceva che non erano nemmeno le sette del mattino.

Stava per riprovare quando sentì una voce assonnata al citofono. Capì subito che non era lui: era una donna.

"Salve, scusi per l'orario, cercavo il dottor Rey."

"Lei chi è?"

"Questa è l'abitazione di Michelangelo Rey?"

"Sì, ma lei chi è?"

Elisabetta stava per innervosirsi, ma capì che era lei la scocciatrice.

"Sono...", si morse un labbro, "...una giornalista", si chiese se sarebbe stato peggio dire che era una giornalista oppure un'amica, poi riprese la parola, "Ma non sono qui per intervistarlo, devo parlargli, è una questione... delicata."

Dopo alcuni istanti si udì il suono metallico che sbloccava il portoncino d'ingresso, "Primo piano", disse la voce di prima.

Mentre si chiedeva chi fosse la donna che le aveva aperto la porta, Elisabetta salì le scale del palazzo d'epoca romanica, affascinata dalla sua eleganza.

Di fronte al vecchio portone in quercia allungò la mano sul battente in ottone lavorato, ma non fece in tempo a usarlo, che la porta si aprì.

"Michelangelo non c'è", le disse Marika con indosso solo degli slip e una camicia bianca da uomo.

Elisabetta rimase colpita nel vedere una giovane ragazza poco vestita in quella che doveva essere la casa di Michelangelo. Poi si sforzò di ritrovare le parole, "Immagino che arriverà."

"Cosa glielo fa credere?"

"Perché mi avrebbe fatta salire?"

Marika la squadrò in silenzio, "Volevo vederla di persona, per questo l'ho fatta salire. E ora sto morendo di freddo, perciò o entra o se ne va."

"Preferirei entrare, se non fosse un problema."

Quando fu dentro, Elisabetta si aprì la lampo della giacca in pelle, "Perchè voleva vedermi?"

La ragazza non rispose.

L'altra continuò, "Posso?"

"Certo, faccia pure."

La tolse e, vedendo che la ragazza non l'assisteva, appoggiò l'indumento a una poltrona.

Marika continuava a osservarla, "Lei quindi è un'amica di Rey?"

"No, sono una giornalista e stiamo lavorando..."

"I giornalisti sono esentati dall'uso delle mascherine?"

Che idiota, pensò Elisabetta, nella foga non ci aveva nemmeno pensato, "È che sono venuta qua all'improvviso, sono sola e..."

La ragazza le voltò le spalle, "Era una battuta, non la uso nemmeno io."

Poco dopo Marika riapparve con indosso una tuta, "Lo fa anche lui."

"Cosa?"

"Di appoggiare la giacca su quella poltrona, quando entra."

Elisabetta interpretò questa confidenza come un segnale di apertura, ma allo stesso tempo le stava dicendo che lei era spesso in quella casa e forse ci viveva. Cominciò a sentirsi di troppo.

"Comunque potrebbe arrivare a momenti, vuole un caffè?"

"Sì, grazie, molto volentieri. Non ho ancora fatto colazione."

"Nemmeno io, porto dei biscotti allora."

Pur essendoci già stata, la giornalista stava ammirando l'interno dell'appartamento, chiedendosi se fosse più strano che un uomo vivesse in un palazzo del genere o che frequentasse una ragazza che poteva essere sua figlia; ipotesi che, senza una valida ragione, si sentì di escludere.

Marika arrivò con un vassoio di biscotti al cioccolato, "Li ho fatti io", e si buttò sul divano, "Cosa fai lì impalata, siediti, e serviti pure."

La preferivo quando manteneva le distanze, ora mi dà del tu e mi parla come fossi la sua amichetta del cuore, pensò Elisabetta, ma preferì uscire con un "grazie", detto con un sorriso forzato mentre si sedeva. Addentò un biscotto. "Buono", questo lo pensava veramente.

Marika, accovacciata sul divano, sgranocchiava anche lei un biscotto e la osservava.

"Non sono un'amica di Michelangelo, ci conosciamo appena", le parole di Elisabetta suonavano come una giustificazione.

"Ah, bene. E...?

"E... cosa?"

"Cosa vuoi da Michelangelo?" Marika non le aveva mai tolto gli occhi di dosso.

"Te l'ho detto, è per una cosa delicata, devo parlare con lui."

"Cazzarola, il caffè", Marika fece un balzo fuori dal divano portandosi nella cucina.

Poco dopo tornò con un vassoietto con sopra due tazzine di caffè.

"Ne è andato un po' in giro, non vorrei che sapesse di bruciato, ma se non ti formalizzi..."

"Non preoccuparti, va bene così. Immagino che tu l'abbia fatto con la moka."

"Sì, certo, quanto zucchero?"

"Un cucchiaino."

"La macchinetta dell'espresso non so usarla, non quella perlomeno", Marika aveva gli occhi ancora addosso alla giornalista, anche mentre versava il cucchiaino di zucchero.

Non deve abitar qui da tanto, se non sa usare una macchinetta da caffè, pensò Elisabetta.

È proprio una bella donna e non sono così sicura che non abbia qualche storia con lui, pensò Marika.

"Veramente avevo detto uno."

"Oddio, scusa. Quanti ne ho messi?"

"Ti ho fermata dopo il secondo, tranquilla."

"No, no, lascia, lo prendo io, anche se lo preferisco amaro, semmai non lo mescolo."

Elisabetta stava per replicare quando suonò il citofono.

Senza dir nulla, le due donne si fissarono.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top