"Andiamo a bere qualcosa, in un bar serio."
Quando Giuliano usciva con quella frase, c'era sempre sotto qualcosa, e questa volta era facile immaginare cosa poteva essere.
Chiusi la telefonata e guardai John, davanti a me.
John Donn era il nome con cui lo chiamavo da anni, da molto prima che entrambi arrivassimo al Centro. Il nome non aveva relazioni col poeta inglese del '500, dal quale differiva comunque per una 'e' finale. Se lo era scelto lui, prendendolo dal protagonista di un romanzo: Tenebre.
I suoi occhi verde opale erano come velati, almeno, questa fu la mia impressione, "Tutto ok?"
"E me lo chiedi? Se quello che mi hai detto è vero, siamo in un mare di guai."
"Per esserlo basterebbe quello che mi ha detto Giuliano, ma se guardiamo anche a quello che ha scoperto il mio team..."
John continuò, "... Il mare di guai diventa un oceano di guai."
"... E ora il nostro amico vuole aggiornarci."
Si alzò, "Quindi? Cosa stiamo aspettando?"
Serrai le labbra e lasciai la scrivania, "Muoviamoci."
Il piccolo bar all'esterno del Centro non era molto affollato, non a quell'ora della mattinata.
Giuliano ci aspettava seduto a un tavolino.
"Eccoci qua."
"Buongiorno, filibustieri. Come ti è andata al Sud, John?"
"Una noia, l'unico vantaggio l'assenza di copertura cellulare, senza telefono satellitare nessuno avrebbe potuto rompere le scatole."
Ci sedemmo.
Giuliano continuò, "Lì la situazione com'è?"
"Da un punto di vista politico o tecnologico?", chiese John.
"Il primo punto lo conosco già: non passerà molto prima che in Guinea facciano un golpe, e non solo lì", mentre l'altro parlava fece un cenno al barista.
"Beh, l'altro punto di vista è quasi peggio: comunque qualcosa si muove, visto che c'è quest'idea di un hub di connettività con i sei paese vicini."
Giuliano si mise a ridere, "E dicevi che non c'era copertura di rete?"
"Lascia perdere."
Arrivò il cameriere.
"Signori..."
"I soliti, Dario, grazie."
"Arrivano subito."
"Sarà il caso che ora parliamo dei nostri problemi e non di quelli della Guinea", sospirò Giuliano.
Guardai entrambi, "Non escluderei che i nostri problemi rischino di diventare problemi anche per la Guinea, per l'Africa e forse... per tutto il pianeta."
***
"Era uno di quei giorni dove ogni cosa sembrava dovesse andare storta, dove chiunque mi sarebbe stato enormemente sui..., avevo bisogno di scambiare quattro chiacchere con qualcuno e pensai a lei.
Aveva il potere di rilassarmi, mi faceva entrare nel suo mondo, un mondo un po' come quello delle favole. Lì mi sentivo un altro, senza età, senza tempo, lontano dagli impegni e dai pensieri che mi assillavano.
Avevo voglia di prendere anche solo un caffè con lei, ma in realtà pensavo: Ma che stai facendo?
La risposta assomigliava a qualcosa del genere: Nulla, che c'è di male nel prendere un caffè?
C'è che lo prendi con una ragazza che potrebbe essere tua figlia.
Sì... adesso, non esageriamo.
Li sai fare i conti? Non si deve essere esperti in data science.
Certo che li so fare. E comunque... siamo ancora legati a questi stereotipi?
Avevo l'impressione di assistere allo scambio di opinioni tra Pinocchio e il grillo parlante.
E poi mica ci vado a letto.
Per ora, disse il grillo, tanto voi uomini pensate solo a quello.
Certo, tu no! Non ci pensi, grillo del cazzo.
Mi accorsi di essere arrivato al Centro, entrai con l'auto nel parcheggio interno.
Avevo bisogno di quel maledetto caffè, ma per ora decisi di prenderlo da solo.
Il 22 faceva sempre più schifo. "E se il grillo avesse ragione?", la frase mi uscì ad alta voce.
Il collega che si era trovato vicino a me mi squadrò "Come prego?"
"Nulla... nulla, non pensare che abbia grilli per la testa."
L'uomo se ne andò senza aggiungere altro.
Afferrai lo smartphone e aprii WhatsApp, No, dai, sentiamola.
Conobbi per la prima volta Marika durante una colazione, dopo le visite mediche di un cosiddetto check up aziendale. Lei lavorava presso la sede di Roma e non la rividi più fino a quando venne trasferita al Centro, diversi mesi dopo. "Ecco dove era finito!" Fu proprio questo che pensò appena mi rivide per la seconda volta. Mi confidò in seguito.
Ricordo bene quel giorno, mi parve quasi di leggere cosa stesse pensando, ma il merito di questa percezione pensai di darlo alla mia fantasia più che al mio sesto senso. Ricordo anche cosa indossava e credo di aver pensato a qualcosa di intrigante.
Ci furono ancora momenti di incontri casuali, ma nulla più, poi arrivò quel venerdì del mese scorso, quello del primo caffè.
"Già preso?" Sapeva benissimo che l'avrei aspettata.
Le risposi con una domanda, "Cosa vogliamo bere?"
"Non saprei, cosa mi consigli?"
"Uno vale l'altro, sono tutte delle brodaglie."
"Ci siamo alzati storti?
"Beh, anche fosse, ormai è quasi mezzogiorno."
Non mi rispose, allora cercai di stemperare i toni del mio malumore, "Oggi che fai? In pausa voglio dire", Lei ormai era un'assidua frequentatrice della palestra, come lo ero io. Un'ora abbondante mi bastava per fare un po' di short track in mountain bike. Spesso usavo la palestra solo come appoggio: mi cambiavo, uscivo in bike, tornavo e mi facevo una doccia. Un'uscita di un'ora mi permetteva di compiere un discreto allenamento, agendo molto sul sistema cardiovascolare. Salite brevi ma intense, recupero e via di nuovo. Un po' come fare sesso, ma per un'oretta filata. Alla fine delle sessioni ero stanco, ma soddisfatto, come la mia partner, ovvio: un gioiellino in carbonio con la quale potevi fare quello che volevi, ultralight, tranne per il prezzo. Mi intrigava pensare alla MTB come la proiezione di un'amante. Quando la volevi c'era. Si presentava sempre splendida e aggressiva, ma sapeva essere dolce nei movimenti ed elegante. A volte si raggiungeva l'apice del piacere o si assaporava la semplice gioia di un attimo di relax; se si finiva a terra o una difficoltà ci bloccava, eravamo subito pronti a ripartire. Lei non mi chiede mai nulla, non mi sonda, non mi dice: "può succedere, capita." Lei sarà sempre lì, nella sua bellezza eterea, ad aspettare solo me, di nuovo.
"Ma che fai? Ti sei perso via? Stai pensando a un'altra?"
Tra me e Marika non c'era una relazione, ma una certa attrazione era ormai conclamata.
"Sì, stavo pensando a un'altra."
"Beh, ne hai diritto, non siamo ancora assieme."
"Non ancora?"
"Tranquillo scherzavo... mammamia."
Scherzava sempre, e per questo faticavo a capire quando invece era seria.
"Da quando beviamo il caffè assieme?" le chiesi.
"Lo sai benissimo", rispose.
"Vero. Allora è tempo che ti inviti a uscire... stasera, se vuoi."
Mi guardò con aria sorpresa, perlomeno così pensai, ma c'era anche un misto di compiacimento e di... era ora che ti muovessi.
"Quindi?" aspettavo una risposta.
"Quindi ok, ookey", la lunga insistenza sulla o era il segno che aveva apprezzato e che forse ero già in ritardo.
"Chiederai il permesso a papà?"
Se ne andò e guardandomi da sopra la spalla e sorridendo disse: "Scemo."
Fiondai in una riunione con un ritardo ormai drammatico.
Il mio gruppo sperimentava particolari algoritmi applicati a enormi basi di dati, attraverso computer quantistici, ma la riunione era solo aria fritta, qualcosa del tipo: no brain, grazie.
Lo smartphone aveva le notifiche silenziate, notai solo alla fine dell'incontro il messaggio... anzi i messaggi:
Guardai l'ora, "Cazzo...", le mie dita si mossero veloci sul tastierino, la vista un po' meno, il correttore automatico mi fu d'aiuto:
La risposta arrivò subito:
Lasciai perdere la chat e la chiamai.
"Ciao, scusa, sono finito lungo."
"Figurati, amo fermarmi qua la sera, senza sapere cosa farò."
"Noto un velo di sarcasmo."
"Sbagli, nessun velo, sono incazzata nera."
"Non ci credo", non so perché, ma mi uscì sorridendo.
L'attimo di silenzio mi fece pentire di averlo detto.
"Hai ragione" il suo tono era migliorato e sono quasi convinto che avesse sorriso anche lei.
"Bene", dissi, mentre pensavo di aver limitato i danni.
Lei proseguì, "Come facevo a essere incavolata al primo invito galante del dottor Michelangelo Rey?"
"Già... come avresti fatto?"
"Tu stai zitto che mi hai fatto incavolare".
"Ma non hai detto..."
"Massiii dai scherzo, su vieni a prendermi, ho voglia di uscire... subito."
E chiuse la telefonata.
Andai negli uffici dove lavorava, ormai deserti. Era seduta con il cellulare in mano, credo stesse chattando. Aveva le gambe accavallate, la sua mise era come al solito interessante: jeans, sneakers, pullover di cashmere a girocollo, colore azzurro carta da zucchero.
I capelli scuri ondulati le scendevano a coprirle parte del viso.
"Sono questi i tuoi straordinari?"
"Cosa?"
"Chattare con qualche tuo amichetto?"
"Sto dicendo a papy che qua va per le lunghe."
La guardai quasi credendo a quelle parole.
"E poi fino a un attimo fa ero in compagnia..."
La mia espressione interrogativa la fece proseguire.
È passato un tuo collega... il fisico", al Centro i fisici erano a decine, ma lui era "Il fisico".
"Enea?"
"Sì, lui."
Enea era molto particolare e avevo il sospetto che avesse una qualche forma latente di autismo, il che spiegava alcune sue doti, oltre che alcune sue stranezze.
"E...?"
"Niente... mi ha chiesto: "Ma cosa ci fai ancora qui?"
"Beh, domanda lecita."
"Comunque tranquillo, non gli ho detto che aspettavo te... anche se stavo per farlo."
"Ci mancava la spoilerata, stai magari pensando anche alle partecipazioni?"
"Ma dai! Glielo volevo dire solo perché mi inquieta averlo davanti... da sola."
"Beh, sarebbe peggio averlo dietro", mi misi stupidamente a ridere.
"Che ridere", sibilò con una faccia che sembrava davvero seria.
"Ma va dai... è un bravo ragazzo, non ha ancora violentato nessuno."
Pensai di sentire ancora quello 'scemo', intercalato con quel tono che camuffa intimità e complicità attraverso un falso rimprovero, e pensai se fosse più preoccupante aver fatto breccia nel cuore di una ragazza o sentirsi dare dello scemo. Ma l'epiteto non arrivò e allora ripresi io la parola:
"Andiamo! Ho l'auto nuova che ci aspetta."
"Mawow..."
Balzò in piedi e corse a prendere una giacchetta in pelle buttata su una sedia.
"Andiamo", mi disse correndo fuori dalla porta.
Nell'interrato ormai le auto rimaste erano poche, quelle del personale che faceva i turni notturni.
Arrivato al mio bolide, di cui non potevo che andare fiero, mi fermai un istante, guardai lei, la donna che avevo di fronte, e poi lei, l'auto, quasi compiaciuto di entrambe.
Marika si mise le mani sulla bocca come per nascondere un urlo.
"Nooo...", tolse le mani dal viso, "questa è la tua nuova auto?"
"Esattamente", le aprii la portiera. "Sali, principessa, ti porto al castello con la mia carrozza migliore."
"Ma tu stai scherzando... mioddio", una carrozza sarebbe stata più, più... recente di questa, questa ..."
"Si tratta di una giulietta spider del 1958, con un motore a quattro cilindri in linea longitudinale da 1290 cm3, per la bellezza di 80 cavalli.
"Ma sono ancora vivi?" sghignazzò.
Ritenni non fosse degno dare una risposta.
Lei continuava a ridere, di gusto, oltretutto.
Le luci del garage, accese solo in parte, illuminarono l'auto. Un sensore di presenza si era risvegliato. Il colore antracite metallizzato esaltava quella che ai tempi doveva essere una linea sportiva, ma che ancora adesso conservava tutto il suo fascino.
Smise di ridere, mi guardò come per chiedermi qualche cosa, poi tornò a guardare l'auto e salì, in silenzio.
"Attenta alla testa."
La spider montava una capote in tela scura fissata a mano con degli ugelli.
Richiusi con delicatezza la sua portiera ed entrai dal lato guida.
Notai che la ragazza era rimasta incantata. Stava osservando gli interni in pelle rosso lucido che brillavano come nuovi, in contrasto col colore bianco del cruscotto. Osservava i particolari, essenziali e curiosi, come fossero cose sconosciute e forse in parte lo erano.
"Ma è uno schianto!"
Accesi il motore con un ghigno, "La volubilità delle giovani donne."
L'auto fece stridere le gomme sulla resina del pavimento. La guardia all'uscita, dopo un cenno di saluto, diede il comando di apertura del cancello elettrico.
Ormai era notte da alcune ore, ma nel cielo brillava la luna piena e illuminava, con la sua luce eterea, un paesaggio deserto.
"Ma ti rendi conto?" lei era radiosa, mi chiedevo se fosse una cosa normale.
"Di cosa?"
"Stai portando una ragazza di soli 31 anni a cena!"
"Hai solo 31 anni? Non potevi dirmelo prima?"
"See, adesso mi dice che non lo sapeva", gli occhi erano rivolti al cielo.
"Beh, vedila come vuoi, ma non lo sapevo, anche se qualche soffiata c'è stata. Sospetto, invece, che tu sappia esattamente quanti anni abbia io."
"Certo", rispose lei.
Questa volta erano i miei occhi a osservare la capote.
"Bastava guardare l'anagrafica sull'intranet e non dirmi che tu non l'hai fatto."
"No, non l'ho fatto, gne gne...".
La sentii ridere.
"Mentre pare che tu abbia raccolto un sacco di dati su di me", continuai.
"Ma figurati, so solo che hai 54 anni e sei single, punto."
"Tutto qua?"
"Tutto qua", ammiccò.
"Anche perché non avresti trovato altro", buttai lì con una smorfia.
Diressi l'auto lungo lo svincolo che portava alla via Aurelia, prendendo la direzione di Montaldo di Castro. Dopo pochi chilometri svoltavo per la strada delle Murelle.
Si trattava di una via secondaria, una sottile linea di asfalto che tagliava in due un'ampia area verde. A non molta distanza dal mare comparve una fitta pineta.
"Dove stiamo andando?"
"Sei preoccupata?"
"Ti dirò... è buio, siamo su una stradina semisconosciuta, nel bel mezzo di un boschetto."
La pineta lasciò di nuovo spazio alla macchia mediterranea. Pensavo ai profumi che questi luoghi trasportavano nei periodi caldi, alla quintessenza dell'odore del mare e della terra che si incontrano.
Girai verso un parcheggio, eravamo arrivati.
Il ristorante sorgeva a picco sul mare.
In breve, avevamo già preso posto a un tavolo.
Lei si tolse la giacca e la appese alla sedia, "Pensa, vivo da queste parti ormai da diversi anni e questo me l'ero perso."
"Non ti sei persa molto, d'estate si può mangiare ai tavoli esterni con il mare che ti solletica le dita dei piedi, ma è un caos di turisti. E ora ha quell'aria che hanno tutti i posti di mare fuori stagione."
"Che aria?"
"Non saprei trovare un termine adatto."
"Triste?"
"No, non triste..."
"Cosa allora?"
"Te l'ho detto, non lo so", serrai la bocca, per essere più serio.
"Sei strano sai? Strano tanto."
Lei mi stava scrutando e, quando i suoi occhi incrociarono i miei, arrossì.
"Non ti sarai imbarazzata?"
"Un po'."
"Perché?"
"Mi fa uno strano effetto guardarti negli occhi. Hanno una strana luce... non saprei come definirla."
"Che fai mi copi?"
Il discorso fu interrotto dalla comparsa del cameriere.
"Buona sera."
"Buonasera, partirei subito con due aperitivi..." Mi voltai verso di lei, "Lo Spritz va bene?"
"Se Hugo, è il mio preferito."
"Ottimo e poi... pensavo a un sauté di cozze, ma belle insaporite e come secondo... una spigola al sale."
"Patate al forno come contorno vanno bene?"
"Benissimo e tu cosa prendi?"
"Insalata allo yogurt con salmone e gamberetti."
"Ottima scelta", commentai.
"Mentre da...?" le parole del cameriere furono subito nascoste dalla voce di lei: "Un buon vinello", disse.
"Hai preferenze?"
"Certo! Con la spigola si accompagna bene un Vermentino Colli di Luni, Etichetta Nera ovviamente."
"Però, te ne intendi, ragazza."
Mi rivolsi al cameriere, "Sentito la sommelier? E portaci comunque anche dell'acqua liscia, grazie."
Lo spritz era sceso piacevolmente e dal tavolo, attraverso la grande vetrata, si vedeva il mare, pennellato dai riflessi argentei della luna.
Lei sorrise, "È... tutto così speciale." Mentre pronunciò queste parole era radiosa, ancor più del solito.
"Dove eravamo rimasti?" Le chiesi.
"Ai tuoi occhi o meglio al tuo sguardo."
"Che non riuscivi a definire."
"Non si può."
"Perché non si può?"
"Perché così" e rise.
Cozze e insalata vennero subito divorati e dopo il primo assaggio di vino lei mi sembrò già leggermente brilla.
"Sempre per rimanere in tema, posso dire che anche tu hai uno strano sguardo?"
"Lo so, è quello che ho se sono quasi ubriaca."
"Per così poco?"
"Anche meno", disse ridendo con le guance di un colorito più intenso del solito.
"Ma tu, scusa, ridi sempre?"
"No, solo se apro bocca."
"Già, come quello che russa solo quando dorme."
L'appetito si fece onore anche con i secondi e i dolci.
Infine, uscimmo.
Lei mi cinse la vita e appoggiò la testa alla mia spalla.
Eravamo sulla spiaggia, illuminata dalla luna.
"Se fosse estate farei un bagno", disse Marika.
"Il famoso bagno di mezzanotte?"
"Esatto, proprio quello."
"Quello che si fa nudi, perché il costume è rimasto a casa?"
"Proprio lui."
"Le mie cozze ringraziano che non è ancora estate."
"Ma dai... per un bagnetto."
La fissai negli occhi.
"Se mi guardi così non vale e poi sono anche ciocca."
"Sei sicura di quello che fai?" le sussurrai in un orecchio.
"Semmai di quello che facciamo", precisò lei.
"Semmai di quello che potremmo fare", puntualizzai io.
"Perché queste paturnie? Mai portato una ragazza a cena?"
"Mai stato in spiaggia al chiaro di luna con una che potrebbe essere mia figlia."
"A ridaie... comunque c'è sempre una prima volta."
Avvicinò le sue labbra alle mie, sentii il suo sapore. Il bacio fu improvviso e veloce, un cosiddetto bacio a stampo.
"Mi raccomando, non troppo entusiasmo, eh?" disse ridendo.
A quel punto capii che ero io quello in difficoltà.
>>> Continua...>>>
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top