Parte due

«Posso almeno conoscere il nome dell'uomo che mi ucciderà?», domandai, camminando lentamente al suo fianco.

Avevo veramente lasciato il locale per fare una passeggiata con un potenziale sconosciuto, a poche ore dalla mezzanotte e quindi dall'annunciarsi del mio ventisettesimo anno di vita. Forse, se gli eventi dei mesi precedenti non fossero stati tanto amari, non avrei lasciato che un ragazzo che a malapena conoscevo mi conducesse per una Los Angeles deserta. Se il mio precedente fidanzato non mi avesse mollata all'altare e la mia depressione non fosse diventata così acuta da causare un bel licenziamento in tronco, forse ora sarei al sicuro sul divano di casa mia, avvolta dalle braccia sicure del mio eterno amore, coccolando un cucciolo di Golden retriever che avrei chiamato Biscotto.

«Darren», replicò, incrociando le braccia al petto «Darren ed Emily».

Strabuzzai gli occhi, stringendomi ancora di più nel giubbotto di jeans che Darren mi aveva caldamente donato.

«Ho semplicemente ascoltato la conversazione al bancone», puntualizzò, cogliendo il mio sconcerto «puoi stare tranquilla».

Mi morsi il labbro inferiore, annuendo.

«Allora, newyorkese», continuò, incassando le mani nelle tasche dei jeans «cosa ti porta qui?».

Rimasi in silenzio, osservando il leggero ondeggiare del mio lungo vestito a fiori. Avrei dovuto cominciare a tirare fuori tutto il dolore che stava lentamente avvelenando il mio corpo e la mia anima. Avrei dovuto, ma una voce, una piccola voce, continuava a ripetermi che era ancora troppo presto per aprirsi, per vuotare il sacco. Un parte di me era ancora irrimediabilmente legata a lui e a quanto era successo. Non ero ancora pronta a lasciarlo andare.

«Sai, mia nonna Amelia diceva sempre che la miglior cura per il malumore è un tacos», riprese, fermandosi di fronte a un piccolo chioschetto notturno.

Aggrottai la fronte, osservandolo mentre con sguardo sicuro allungava una banconota da dieci all'uomo al di là del carretto.

«Nonna Amelia doveva essere particolarmente intelligente», mormorai, afferrando il tacos bollente con un sorriso.

«La migliore», sentenziò, addentandolo con particolare desiderio.

Darren sembrava un ragazzo così semplice. Forse, in cuor mio, avevo sbagliato a giudicarlo, a comportarmi nello stesso modo con il quale quello stupido barman aveva soppesato me e la mia scelta. E quel tacos era qualcosa di spaziale.

«Il mio fidanzato mi ha abbandonata all'altare», esclamai di getto, finendo di masticare «dopo sette anni di relazione».

A quelle parole prese a tossire violentemente, mentre io, per la prima volta dopo mesi, lasciavo andare un macigno così pesante da risultare oramai insopportabile. Non sapevo cosa ci fosse dentro quel tacos o se, semplicemente, la magia di nonna Amelia avesse funzionato a tal punto da convincermi a parlare. Forse, senza bisogno di spiegazioni, in quella notte di Settembre, non avevo nulla da perdere.

«Diamine», mormorò, pulendosi le labbra con il tovagliolo.

«Per questo motivo ho ordinato la diet coke», continuai «per cercare di riprendermi».

Rimase in silenzio, riprendendo a camminare lentamente. Per qualche motivo a me sconosciuto, Darren era ancora lì: non era scappato a gambe levate di fronte a una stupida ragazza con il cuore spezzato. Era rimasto.

«Ti porto in un posto», si limitò a rispondere, affondando quegli occhi quasi trasparenti nei miei.

Ancora, dopo ore, non riuscivo a definirne il colore.

[...]

Dopo un buon quarto d'ora di cammino, arrivammo in una piazza con un'imponente costruzione di luci: giganteschi lampioni assemblati gli uni vicino agli altri, in un gioco di chiaroscuro a dir poco mozzafiato. Restai incantata per alcuni istanti, scrutando estasiata quel luogo così magico. Mai avrei pensato di trovare un posto simile in tutta Los Angeles: quando pensavo a quella città non potevo far altro che immaginarmi la collina di Hollywood, i surfisti e le ragazze in bikini che passeggiano sul molo come se fosse benché meno normale camminare con un unico pezzo di stoffa a coprirti malamente il sedere. Quella struttura, invece, dava l'idea di un luogo decisamente senza tempo.

«Qui, in questo esatto punto», esclamò Darren, addentrandosi tra i lampioni «ho fatto l'ultimo ballo con la mia ragazza, un anno fa».

Incrociai le braccia al petto, incapace di proferire parola.

«Due giorni dopo, è partita per il Canada e non più tornata», continuò, passeggiando lentamente «poco tempo dopo, ho scoperto che se la faceva di nascosto con mio cugino».

Strabuzzai gli occhi, incredula. A quanto pare, non ero la sola ad avere una storia strappalacrime da raccontare.

«Per mesi ho ignorato questo posto», sibilò «era impossibile tornare e non pensare a lei».

«Poi cos'è successo?», domandai.

«I miei amici, dopo una serata al Bootsy Bellows e una grande ubriacatura, mi hanno costretto a tornare qui», replicò «e dopo una prima incazzatura, ho finalmente iniziato a capire quanto questo luogo non c'entrasse nulla con il mio dolore».

«E che un giorno, finalmente, sarei potuto tornare senza per forza odiarlo per quello che è accaduto», terminò.

Annuii, stringendomi nel giaccone. Il vento si stava facendo sempre più intenso, ma in un certo qual modo, non m'importava.

«La stessa cosa succederà a te con l'alcool», continuò «ci vorrà del tempo, ma tornerai ad apprezzarne le giuste quantità senza per forza collegarlo al passato».

Abbassai lo sguardo al pavimento, continuando a camminare tra i lampioni. Forse un giorno avrei potuto farlo. Avrei dimenticato Trent e tutto il dolore che mi aveva causato. Sarei stata capace di ripercorrere la navata di una chiesa senza piangere e stramazzare al suolo. Avrei ripreso a godermi le serate in compagnia senza il timore di tornare a casa e non ricordare più nulla di quello che era successo. Eppure, quel pensiero mi sembrava ancora estremamente lontano.

«Tra circa un'ora compirò ventisette anni», esclamai, lasciando svolazzare il vestito e i capelli.

Sorrise, scuotendo la testa.

«C'è qualcos'altro che devi dirmi?», rispose «per esempio che fai parte della marina militare e tuo padre è nei servizi segreti?».

Risi sonoramente, alzando le spalle.

«Credo di avere finito con le notizie sconvolgenti», sussurrai, appoggiandomi ad un lampione.

«Colore preferito?», abbozzò, cambiando totalmente argomento.

«E questo cosa c'entra?», squillai, confusa.

«Rispondi e basta», sentenziò, accendendo il colore delle guance.

«Azzurro», risposi, giocando nervosamente con uno degli orecchini.

«Le tre cose che preferisci in assoluto», seguitò imperterrito, girovagando attorno ai lampioni.

«Continuo a non capire», sbuffai.

«Questo gioco non funziona se cerchi di pensare», puntualizzò «devi rispondere di getto».

Sospirai, alzando gli occhi al cielo.

«Il cioccolato, il giorno di Natale e l'odore delle candele appena spente», gettai d'un fiato.

«Le candele appena spente?», ripeté, osservandomi con sguardo interrogativo.

«Hai presente quel momento in cui soffi sulle candeline della tua torta di compleanno, le spegni e poi rimane quel piccolo accenno di fumo?», domandai «ecco, quell'odore per me ha qualcosa di magico».

Rimase in silenzio per qualche istante, giocherellando con il cappellino.

«Vieni con me, ho un'idea», sentenziò, afferrandomi la mano.

A quel contatto, trasalii, sentendomi scossa da una stramba sensazione di calore. Non ricordavo più cosa volesse dire toccare la pelle di uomo. L'avevo dimenticato come si fa con la bicicletta dopo diversi anni di scarsa pratica. Ci si riabitua in fretta, ma all'inizio, i primi tentativi provocano una strana frustrazione, una sorta di senso di colpa per essersene dimenticati. Poi, d'improvviso, mi lasciai trascinare dal suo tocco soffice come se non ci fosse nient'altro attorno a me, come se quella serata la stessi solo e semplicemente sognando. Soltanto dopo alcuni minuti, ci fermammo di fronte a un mini market con un'insolita insegna colorata.

«Che ci facciamo qui?», domandai confusa, osservandolo addentrarsi nel reparto dolciumi.

«Cerchiamo la tua torta di compleanno», esclamò deciso, scrutando in maniera particolarmente concentrata gli scaffali.

Aggrottai la fronte, incredula, ma non feci in tempo a controbattere che il cellulare prese a vibrare come impazzito. Scuotendo la testa, lo estrassi dalla borsetta, deglutendo a fatica alla vista dei diversi messaggi di Alice. Merda, avevo dimenticato di avvertirla. Con il cuore in gola, iniziai a scriverle una breve frase di scuse, sperando con tutta me stessa che fosse abbastanza.

«Marshmallows o fragola?», continuò Darren, mostrandomi due scatole di biscotti dall'aspetto alquanto discutibile.

«Fragola, direi», farfugliai, inviando finalmente il messaggio.

Che diavolo stavo facendo? Avevo abbandonato la mia migliore amica per trascorrere la serata con un perfetto sconosciuto in uno stupido mini market indiano. A che punto della vita ero arrivata per ridurmi così? Non avevo quindici anni e quel comportamento era da assoluta irresponsabile. Sospirando, riposi il telefono nella borsetta, decisa a far ritorno da Alice.

«Darren, ascolta, sei molto carino», tentai di replicare.

«Diamine, adoro questa canzone», m'interruppe, iniziando a muoversi per il corridoio in maniera alquanto discutibile.

«Darren, io», balbettai, coprendomi il viso con le mani.

«One day when the sky is falling, I'll be standing right next to you», canticchiò, agitando i pugni in aria.

A quella visione, presi a ridere sonoramente, incredula.

«Andiamo, Emily», esclamò, prendendomi nuovamente la mano «lasciati andare».

«Oh, direi che lo sto già decisamente facendo», risposi, scuotendo la testa.

«Non abbastanza», replicò, costringendomi a fare una piroetta.

«Sono una pessima ballerina, credimi», continuai, abbassando lo sguardo al pavimento, fortemente imbarazzata.

«E' proprio questo il punto», riprese «lo siamo entrambi».

Sorrisi, coprendomi la bocca con il palmo della mano.

«Il peggio che potrebbe capitare è essere guardati particolarmente male dal proprietario del mini market», concluse, muovendo le gambe come una ballerina di can-can.

«E questa che mossa sarebbe?», domandai, incapace di smettere di ridere.

«Non ne ho la minima idea», squillò «ed è questo il bello».

A quella visione, presi a muovere le braccia in maniera imprecisata, ballando per il corridoio come probabilmente non avevo mai fatto prima di quel momento. A un'ora dal mio compleanno e lontana chilometri da ciò che conoscevo, stavo ballando in un insulso supermercato notturno e per quanto quel comportamento fosse assolutamente folle, mi sentivo libera, così libera.

[...]

«Dove siamo?», domandai, incredula.

«All'osservatorio Griffin», replicò, stringendo tra le mani la busta di carta del market «da qui si vede tutta Los Angeles».

Annuii, estasiata da quella costruzione così imponente.

«Ora, se fossimo in un film, ti direi che mio padre è il proprietario di questo posto o semplicemente, ti costringerei a entrarci illegalmente», continuò, sedendosi per terra con le gambe incrociate.

«Ma come puoi ben vedere, non lo siamo», riprese «quindi, il massimo che posso offrirti è una comoda seduta sull'asfalto».

Annuii, accomodandomi al suo fianco.

«Mi sembra giusto», mormorai, portando lo sguardo all'insù.

Il cielo era limpido, con qualche blando punto luce. Il vento si era placato per lasciare spazio a una debole brezza, mentre il rumore di alcune macchine di passaggio restava l'unico sottofondo. In tutti quegli anni, mi ero sempre sentita in dovere di riempire i silenzi con le parole. Odiavo il vuoto, quel chiaro senso di imbarazzo che si creava in una conversazione. Persino nel mio passato con Trent mi ero sentita in dovere di riempire i silenzi con discorsi inutili, che probabilmente non interessavano a nessuno. Soltanto ora, nel bel mezzo di una strada di Los Angeles, con un ragazzo appena incontrato, sentivo che quel bisogno fosse totalmente secondario. Potevo starmene semplicemente lì, seduta sull'asfalto a gambe incrociate, mentre il giubbotto più grande di tre taglie mi copriva gran parte delle mani e il buio della sera, lentamente, leniva il mio dolore.

«Disegnare, i tacos e scrivere canzoni», sibilò, rompendo quel silenzio «le tre cose che preferisco».

«Sei un musicista?», domandai, stendendo le gambe.

«Vorrei», replicò, alzando le spalle «ma per il momento mi limito a lavorare nell'azienda di famiglia».

«Beh, se può essere d'aiuto, io mi limito a fare la cameriera in un ristorante», replicai «ero un'insegnante, ma...».

Mi fermai, cercando di prendere fiato. Rivivere quel momento era ancora così difficile. Darren annuii, giocherellando con il lembo del cappellino. Era sempre così dannatamente delicato. Maledizione, stavo sognando o quell'uomo era reale?

«Ho perso il lavoro», sottolineai «per il bere».

Insegnare ai bambini era sempre stato il mio sogno, la mia aspirazione. Con loro mi sentivo in pace, totalmente a mio agio. Quel maledetto episodio mi aveva strappato dalle mani tutto ciò a cui tenevo e mi aveva lasciata con delle misere briciole. Come quando la notte fai un sogno bellissimo, che sembra così reale, ma quando ti svegli e ritorni alla realtà è totalmente svanito.

«Penso che tu sia ancora in tempo per rimediare», disse poi, estraendo dalla busta la scatola di biscotti.

«Credimi, nessun genitore vorrebbe una maestra alcolizzata per i propri figli», stridulai.

«Non lo sei più», ribadì «è stata solo una fase, un errore».

Sospirai, alzando nuovamente gli occhi al cielo.

«Non so se potrò mai tornare ad essere quella di prima», mormorai.

«Puoi sempre essere qualcuno di nuovo», precisò «di migliore».

L'osservai in silenzio, incapace di rispondere. Non avevo mai considerato la possibilità di cambiare, di andare oltre a quell'evento che sembrava avermi cambiato per sempre la vita. Fino a quel momento avevo semplicemente sguazzato nel mio dolore, senza domandarmi cosa avrei fatto quando quella sofferenza sarebbe finita. La verità era che non credevo sarebbe mai finita. Non ero sicura che sarei mai tornata a ballare o a girovagare per una città. Non pensavo che avrei ripreso a parlare con uno sconosciuto con il semplice intento di conoscerlo o a sedermi s'un marciapiede allo scoccare della mezzanotte. Ero convinta che la mia vita fosse finita, che non ci fosse modo di uscire da quella dannata situazione. Eppure, in quel preciso istante, avvolta da quell'enorme giubbotto, nel bel mezzo di una strada di Los Angeles, stavo tornando ad accarezzare la possibilità di riemergere, di ricominciare ad essere Emily. Una Emily nuova forse. Diversa, più consapevole. Con un passato difficile, certo, ma con un'immensa voglia di riprendere a vivere. Di sorridere, di cantare e di ballare.

«Emily, è mezzanotte», esclamò Darren, risvegliandomi dal quel groviglio di pensieri.

Scuotendo la testa, rivolsi lo sguardo verso di lui, spalancando gli occhi: era rimasto immobile con un biscotto ricoperto di cioccolato e una deliziosa candelina rosa. A quella visione deglutì faticosamente, cercando di trattenere le lacrime. Non potevo credere che lo stesse facendo veramente.

«Buon compleanno Emily», sussurrò «per te l'odore delle candele appena spente».


***

Spazio autrice:

Spero davvero che questa piccola storia sia stata di vostro gradimento.

Fatemi sapere cosa ne pensate, sarò felice di conoscere le vostre opinioni e nel frattempo vi ringrazio per averle dato una possibilità!

Vi abbraccio,

Laura 

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