GERMANIA 1942
GERMANIA 1942
La richiesta che cambiò la mia vita mi giunse in un momento assai delicato, come una di quelle circostanze che in nessuna maniera avrei mai potuto immaginare.
In quei giorni mi trovavo a Berlino, intento a redigere un piano, per la visita che il Führer avrebbe dovuto tenere di lì a qualche giorno con una delegazione di Sovietici. Ero talmente concentrato nel difficile compito di immaginarmi ogni possibile incognita di quella riunione, nel cercare di anticipare ogni mossa dei nostri presunti alleati, che trovai alquanto spiazzanti le poche parole che mi furono consegnate tramite una lettera sigillata. Essa conteneva di fatto un ordine diretto di Hitler, con il quale egli reclamava, con la massima celerità, la mia presenza al Berghof, il rifugio alpino costruito sull'Obersalzberg, il massiccio delle Alpi Bavaresi al confine con l'Austria.
Nient'altro. Nessuna spiegazione, nessun particolare, niente, se non che sarei dovuto andare da solo e non avrei dovuto farne parola con alcuno. Quella improvvisa chiamata, sono sincero, mi mise addosso una strana inquietudine
Cosa ci poteva essere di così importante da distogliermi dalla gestione della sicurezza? E come mai proprio io?
Avevo mille domande che mi frullavano per la mente, ma nessuna che mi fornisse una spiegazione plausibile. In ogni caso non avrei certo potuto rifiutare, così mi preparai, temendo in cuor mio che i piani del conflitto fossero a un tratto radicalmente cambiati.
Programmai di partire la mattina seguente. Il viaggio sarebbe stato piuttosto lungo, ma se mi fossi messo in marcia alle prime luci dell'alba, sarei potuto arrivare a destinazione per metà giornata.
Così feci. Il tragitto fu relativamente privo di intoppi e dopo aver lasciato i due ufficiali che mi ero portato di scorta nella vicina Salisburgo, proseguii da solo come mi era stato ordinato per gli ultimi trenta chilometri. Imboccai gli stretti tornanti che salivano verso la vetta del monte e quando avvistai in lontananza il basso profilo del Berghof stagliarsi contro l'azzurro del cielo, sentii la mia inquietudine crescere d'intensità.
La giornata era radiosa e un caldo sole rendeva la salita verso lo chalet assai piacevole, ma il mio animo era di tutt'altro avviso, invaso da una moltitudine di sensazioni contrastanti, come un mare in piena tempesta.
Ingranai la seconda e spinsi la Mercedes 320 Cabriolet su per gli ultimi tornanti affrontando con rapidità le strette curve che mi avrebbero portato di fronte all'edificio in legno e mattoni.
Una volta arrivato, parcheggiai la macchina nel piazzale, a pochi metri dalle scale che erano state fatte costruire anni addietro per raggiungere l'enorme terrazza che dava sul panorama sottostante.
Spensi il motore e scesi dall'auto. Subito fui invaso da un silenzio opprimente. Scossi la testa voltandomi a destra a e sinistra per cercare traccia dei soldati che dovevano essere di stanza al rifugio, ma non vidi nessuno.
Altra cosa molto strana.
In fatto d'incolumità e sicurezza non ammettevo mai scostamenti di alcun genere, quindi perché il Berghof pareva deserto?
La faccenda si faceva sempre più bizzarra. Mi mossi verso l'estremità del parcheggio mentre una brezza leggera proveniente dalla cima del monte smuoveva le fronde degli alberi del bosco vicino, generando un sibilo a tratti quasi sinistro. Di contro, l'assenza di ogni altro rumore mi stava dando sui nervi. Strinsi i pugni cercando ancora una volta di capire cosa mai avesse attratto il Führer, uomo d'azione e di carisma, in un posto simile, dominato solo da una desolante quanto tetra solitudine.
Non lo avevo capito durante i lavori di costruzione e continuavo a non comprenderlo adesso. Per me era molto più stimolante la vita frenetica di Berlino, con le sue adunate, le marce in mezzo alla folla e i blindati che attraversavano come un fiume in piena le strade della capitale. Lì ogni cosa mi ricordava ciò che stavamo facendo e i motivi per cui stavamo combattendo, ma su quella cima della montagna tutto quel dannato silenzio era soffocante.
Spostai per un attimo lo sguardo verso sud là dove s'intravedeva il gigantesco Königssee, l'incantevole lago incastonato tra le gole al confine con l'Austria e feci un bel respiro, poi, accantonando i miei ragionamenti, mi voltai indietro e salii rapido le scale fino alla terrazza.
E lì lo vidi.
Il Führer era da solo, seduto su una poltrona di vimini, la testa fra le mani leggermente chinata sul tavolo, intendo a consultare alcune mappe. Era talmente assorto che non si accorse nemmeno del mio arrivo. Non appena mi avvicinai e lo salutai come si conviene, lo vidi portare in alto la testa e abbozzare un sorriso.
Alzò poi la mano per ricambiare il saluto, quindi mi fece cenno di accomodarmi.
«Finalmente sei arrivato, Klaus» mi disse distratto. «Ti stavo aspettando con impazienza. Vieni, il tempo scorre veloce e noi abbiamo molto di cui parlare.»
Detto questo si rimise a consultare le carte, gli occhi fissi su alcuni schizzi e una leggera smorfia dipinta sulle labbra.
Nessun accenno alle guardie, niente. Stavo giusto per replicare qualcosa al riguardo quando la sua voce interruppe di nuovo il flusso dei miei pensieri.
«Tu sei a conoscenza di dove si trovano questi cunicoli?» mi domandò a un tratto come se potessi intuirlo, indicando un intricato intreccio di linee tratteggiate sul foglio che aveva disteso sul tavolo.
Scossi la testa. «Dovrei?» domandai.
Lui per tutta risposta prese un altro foglio e questa volta mi indicò la mappa disegnata sopra. «E questa, invece? Sai di cosa si tratta?»
Annuii. «Se non mi sbaglio sono le miniere di sale di Altaussee» risposi cercando al contempo d'indovinare dove volesse andare a parare.
«Proprio così. Un luogo magnifico, non trovi? Chilometri di scavi, gallerie rinforzate che si estendono come serpenti sinuosi nel buio della terra, un dedalo di ramificazioni nascoste agli occhi del mondo» mi guardò. «Tu sai perché mi sono così care?»
Scossi la testa. Non lo sapevo.
«Perché sono un deposito» mi spiegò allora «un immenso deposito di opere d'arte. Io le ho trasformate, plasmate per raggiungere lo scopo che mi ero prefissato. Quale luogo migliore per occultare e conservare quell'inestimabile patrimonio?»
Annui ancora senza replicare. Sapevo che il Führer era solito seguire il flusso dei suoi pensieri che non sempre era lineare per chi lo ascoltava, e come avevo capito da molto tempo in quei casi non era mai saggio interromperlo.
«Nel corso degli ultimi anni, Klaus» riprese «ho accumulato centinaia di casse, tutte contenenti quadri, sculture, arazzi, oggetti di valore, mobilia, ogni cosa razziata durante l'invasione dei territori nemici. Un tesoro che comprende anche migliaia di libri e oggetti personali provenienti dalla mia collezione privata di Berlino.»
Questo lo sapevo. In effetti tutti gli ufficiali della sua cerchia più ristretta erano a conoscenza di quella ossessione e del fatto che alla fine della guerra avrebbe voluto dare vita a un museo privato che glorificasse la grandezza della Germania, ma nessuno, e men che meno io, poteva immaginare quanto in là si fosse spinta la sua determinazione in tal senso.
Eppure, continuavo a non comprendere perché me lo stesso dicendo proprio in quel momento.
Per tutta risposta, quasi avesse letto gli interrogativi che affollavano la mia mente, mi rispose. «Queste linee tratteggiate, Klaus» e le indicò riprendendo il foglio iniziale «rappresentano altrettanti cunicoli, ma in un luogo molto diverso. Sono stati scavati quasi tutti nell'ultimo anno dai prigionieri polacchi, italiani, russi e cecoslovacchi provenienti dal campo di concentramento di Gross-Rosencon. Ce ne sono a centinaia sparsi per il territorio, tra gli Eulengebirge, i Monti del Gufo e il castello di Książ in Bassa Slesia.» Alzò lo sguardo su di me come se potessi comprendere. Poi vedendo la mia espressione ancora perplessa continuò cambiando apparentemente argomento. «Klaus, dimmi, hai mai sentito parlare del progetto RIESE?»
Scossi la testa. Ancora una volta non ne sapevo nulla, ma quella era ovviamente una domanda retorica per cui attesi, consapevole che si sarebbe affrettato a darmene delucidazione.
E così fu.
«Si tratta a tutti gli effetti di un nome in codice» mi disse «che identifica un progetto altamente segreto che io stesso ho voluto avviare nell'ultimo anno. In pochissimi ne sono a conoscenza, e nessuno di loro ne ha una visione d'insieme. Tante piccole tessere che solo nella mia mente compongono il disegno finale. Ora però, che siamo in una fase critica del conflitto e che perciò siamo costretti ad accelerare i tempi, voglio che tu ne entri a far parte. Per questo ho deciso di condividere la mia visione con te, per questo ho voluto che tu venissi qui, da solo. Sai che mi fido...» Fece una piccola pausa, poi riprese, come se il tempo fosse un terribile tiranno con cui lottare senza tregua. «Ascoltami bene, Klaus, perché è importante. Il progetto RIESE riguarda la realizzazione di una serie di strutture sotterranee, sette per la precisione, che dovranno nei prossimi anni fungere da nuovo quartier generale del Reich oltre che da deposito e da fabbriche d'armi. La guerra è incerta, forse questo lo hai inteso anche tu, e il futuro lo è ancora di più. Ho bisogno di un luogo dove rifugiarmi con i massimi esponenti del partito se le cose non dovessero andare per il verso sperato» la sua voce adesso tradiva ansia. «Un posto dove poter prendere le decisioni necessarie affinché la Germania ottenga il governo sul mondo, un nascondiglio dove condurre eventuali esperimenti per nuove armi.» Si alzò rosso in volto. «I maledetti russi stanno premendo fin troppo sui nostro confini orientali» sbatté un pugno sul tavolo «e non passa giorno senza che non conquistino nuovi territori. Non abbiamo molto tempo se vogliamo concludere il progetto» si fece cupo e smise anche di parlare. Era agitato e io lo sapevo fin troppo bene. Del resto, quelle erano anche le mie preoccupazioni e le ultime notizie dal fronte dell'est non erano certo rassicuranti.
«Nessun tunnel è stato completato del tutto, Klaus» tornò poi a spiegarmi riprendendo il filo del discorso. Nel frattempo, si era anche rimesso a sedere e pareva più tranquillo. «Molti si trovano ancora in diversi stati di avanzamento e solo una piccola percentuale è stata rinforzata con il cemento. Siamo in ritardo, lo so, ma conto di recuperare a breve. Ma non è per questo che ti ho chiesto di venire. Guarda qua» e stavolta mi indicò una parte del foglio con le linee non più tratteggiate ma dritte. «Questa sezione è molto diversa dalle altre. Questa parte di scavi sarà completata entro la fine del prossimo anno e rappresenta uno dei tunnel meglio realizzati.»
«Dove si trova?» chiesi cominciando a intuire cosa passasse per la sua mente.
«Vicino a Minkowskie, nelle terre di confine con la Cecoslovacchia. L'ingresso è situato all'interno di un vecchio edificio a due piani dal tetto spiovente di colore celeste. Un luogo insospettabile, Klaus, commissionato dal generale prussiano Friedrich Wilhelm von Seydlitz e requisito poi dai nostri ufficiali per essere trasformato in un bordello.»
«Dunque è là che dovrò andare?»
«Sì. Devi sovrintendere alla conclusione del sito e accertarti che ogni cosa venga predisposta per poter accogliere il contenuto delle miniere di Altaussee nella maniera migliore. Si tratta della nostra eredità, Klaus, e come tale deve essere trattata. Quando il Reich trionferà, perché di ciò ne sono convinto, tutte quelle opere saranno esposte nel mio museo al solo scopo di generare ammirazione e devozione nei popoli sottomessi.»
Ero sbalordito. Di tuti i problemi del conflitto perché mai dare così tanta importanza a delle opere d'arte?
Non capivo, ma non esternai le mie perplessità, limitandomi ad annuire. Dopotutto lui era il mio Führer e io gli avevo giurato totale obbedienza.
«Chi si occuperà del trasporto?» domandai quindi cercando di dissimulare i miei dubbi al riguardo.
«Questo non ti deve riguardare, Klaus. Sappi solo che ho già provveduto ad affidare quella parte della missione a un altro ufficiale. Tu sarai avvisato solo quando la spedizione sarà pronta a partire. Non prima. Hai quindi tempo per organizzare al meglio la faccenda.
Ma non è solo di questo che ho bisogno. Voglio che tu faccia anche un'altra cosa. Voglio che tu predisponga un piano di riserva. È inutile che ti dica quanto sia importante che le informazioni non cadano in mani sbagliate o che vengano perse per sempre. Se la guerra non dovesse andare come tutti noi auspichiamo, tu dovrai fare in modo che gli indizi per arrivare al sito di destinazione possano comunque sopravvivare al tempo. Hai carta bianca e potere assoluto di decisione. Non ho altro da aggiungere se non che quest'ordine ha la priorità su tutto il resto.»
Mi limitai ad annuire, con il cuore gonfio da una parte di orgoglio, dall'altra di apprensione per quelle strane e tristi parole.
Senza però esternarle, afferrai le carte distese sul tavolo e iniziai subito a studiarle in modo da farmi almeno un'idea dell'enormità del compito che mi era appena stato affidato.
***
Rimasi solo per molte ore. Il Führer era rientrato nello chalet non avendo altro da aggiungere, così potei dedicarmi anima e corpo a quella missione.
Il lavoro sul sito di destinazione in realtà non mi spaventava più di tanto. Certo sarei dovuto partire il prima possibile per la Slesia, ma quello rappresentava il minore dei miei problemi. I lavori erano quasi del tutto ultimati, io avrei solo dovuto sovrintendere alla conclusione assicurandomi al contempo di celarne l'ingresso e di garantire una facile via di accesso.
Quello che in realtà mi dava preoccupazione era l'altra parte della richiesta. Quali indizi avrei potuto mettere insieme tali da resistere al tempo e che fossero così ben congegnati da nascondere la soluzione, ma senza renderla impossibile da decifrare?
Non ne avevo la più pallida idea.
Dopo aver pensato a lungo, ripiegai i fogli e raggiunsi Hitler all'interno del Berghof. Del resto, stava calando la sera e il freddo delle montagne si faceva sentire con forza.
Una volta dentro mi recai nel salone principale riscaldato dal tepore del fuoco acceso nel grande camino. Lui era lì, seduto in una poltrona, lo sguardo fisso a un quadro appeso sulla parete di fronte.
Mi fermai a osservarlo. Non l'avevo mai visto prima. Rappresentava un'isola di rocce in mezzo al mare, con una serie di cipressi alti e scuri che s'innalzavano verso un cielo minaccioso. Una piccola barca con una figura ammantata di bianco solcava quelle acque apparentemente immobili.
Ne rimasi scosso, come se un'aurea sinistra emanasse da quella tela con la forza di un macigno.
Stavo per domandare di cosa si trattasse quando il Führer anticipò come al solito la mia richiesta. «L'isola dei Morti» mi disse «un oscuro e meraviglioso quadro dipinto da Arnold Böcklin intorno alla fine dell'800. Non senti anche tu come un travolgente vento, come un'oscura simbologia emanare da quei tetri colori?»
Annuii mettendomi a sedere nella poltrona vicina e domandandogli quale fosse la storia di quel quadro e come mai ne fosse così inebriato.
Lui sembrò felice della domanda e iniziò a parlare, tenendo sempre lo sguardo fisso al dipinto, perso nelle immensità del mare, nelle scure tinte del cielo, nell'immobilità delle acque e nella minacciosa ombra degli alti cipressi. Durante tutto quel tempo mi raccontò della vita avventurosa di Böcklin, dei suoi studi, delle sue peripezie in Europa e soprattutto degli anni in cui il pittore si stabilì a Firenze, città in cui poi morì. Mi descrisse così il luogo che secondo la storia gli era stato d'ispirazione per il quadro, il Cimitero degli Inglesi a due passi dal centro città e di quando lui stesso lo aveva visitato in occasione del viaggio in Italia nel maggio del 1938. Mi disse con enfasi di come ne era rimasto affascinato oltre ogni misura, mi narrò della villa di Böcklin sulle colline della città toscana e di come quel quadro, una volta finito, avesse affascinato una gran quantità di personaggi famosi, tra cui anche un noto compositore russo che ne aveva addirittura composto un'opera sinfonica ai primi del Novecento.
Io ascoltavo in silenzio, assorbendo quelle informazioni con avidità e più il Führer parlava e più nella mia mente si faceva lentamente strada un disegno, come se i vari puntini fino ad allora sconnessi avessero iniziato a unirsi per formare un disegno di senso compiuto.
Mi ronzavano in testa le parole, Firenze, compositore russo, opera sinfonica, Isola dei morti, Böcklin, tombe, cimiteri, simboli...
Ero sempre più convinto di essere sulla strada giusta, per cui continuai ad ascoltare la sua narrazione, facendo domande su domande, cercando quei particolari che mi avrebbero aiutato nell'impresa. Andammo così avanti per buona parte della serata e della notte. Il giorno dopo lasciai il Berghof stanco, ma con le idee decisamente più chiare e soprattutto con un piano abbastanza preciso delineato nella mente.
***
Berlino mi attendeva con la sua solita frenesia, ma stavolta non l'accolsi come avrei dovuto. Ero impaziente di cominciare il lavoro e il lungo viaggio dalle Alpi Bavaresi al cuore della Germania mi era servito per riordinare quell'ammasso di informazioni di cui il Führer mi aveva inondato permettendomi di definire ciò che all'inizio era solo un blando tratteggio.
Non persi tempo e mi misi subito all'opera finendo le ricerche per essere più che certo di ciò a cui avevo pensato.
La settimana successiva era tutto pronto. Avevo fatto le mie indagini e trovato ciò che mi serviva. La prima tappa sarebbe stata Firenze, presso il Cimitero degli inglesi, nel luogo dove avrei iniziato il mio viaggio.
Creare un indizio in una falsa tomba in onore di Böcklin mi era sembrata la scelta migliore per mettere insieme un puzzle in grado di resistere all'usura del tempo.
La tappa successiva sarebbe poi stata la Svizzera, più precisamente la zona in cui si trovava Villa Senar, la tenuta appartenuta al compositore Sergej Vasil'evič Rachmaninoff. Laggiù mi sarei attivato per far realizzare e poi collocare nel giardino della residenza un grande busto di bronzo in memoria dell'artista russo, un oggetto insospettabile agli occhi di chiunque ma che avrebbe nascosto al suo interno il piccolo diario con tutti i dettagli del progetto RIESE.
Come ultimo passaggio, sarei infine ritornato a Berlino, dove, tramite i miei contatti nel mondo dell'arte, avrei commissionato quattro copie dell'Isola dei Morti. All'interno di ciascuna, compreso l'originale al Berghof, avrei fatto occultare, sotto lo strato di colore esistente, delle lettere e un'immagine. Solo possedendole tutte e cinque si sarebbe potuto comporre la parola RIESE e solo con l'immagine della croce risalire al Cimitero fiorentino che avrebbe condotto al busto di Rachmaninoff.
Non mi rimaneva che partire.
***
Tornai a Berlino quattro mesi dopo. Tutto era stato fatto come ipotizzato e la strada ormai tracciata. Ho già riferito al Führer ogni dettaglio, non mi resta che occultare il diario e partire per la Slesia.
Prima di chiudere voglio però inserire in queste pagine anche la mappa dei cunicoli già parzialmente realizzati sotto il palazzo Minkowskie, a riprova della veridicità di tutta la mia narrazione.
Non so cosa mi riserverà il futuro, ma almeno così so di aver agito nella maniera migliore.
Il Führer mi ha insignito di un compito difficile e solo adesso, forse, comprendo appieno la natura di una simile richiesta.
Se la Germania dovesse vincere la guerra, i tesori nascosti aumenterebbero a dismisura la sua gloria, ma se al contrario dovesse perdere il conflitto, essi potrebbero essere in un futuro, spero non troppo lontano, la leva per restaurare un nuovo e più potente Reich.
Klaus Scholz
Berlino - 1942
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top