L'inferno è donna
È la notte di Halloween. Non siamo in America, ma ogni scusa è buona per fare casino. Il centro di questo scarso paese di periferia è pieno di sbandati e ubriaconi puzzolenti. Gironzolo in costume da Lara Croft e, nelle fondine sui fianchi, ho due coltelli Falci doppia lama. Una garanzia.
Lo stronzo di turno mi fischia dall'altra parte della strada, ma non sono qui per perdere il mio tempo.
Le lancette dell'orologio della stazione segnano quasi le ventitré. Mi avvio spedita. Voglio arrivare alla fermata allo stesso orario di quattro anni fa, quando io e mia sorella rientravamo a casa in metrò.
Entro in anticipo e mi siedo sulla banchina di attesa. Non passo inosservata con gli short in pelle e gli stivali alti fino alle cosce. Poco dopo, due ragazzi si fanno avanti. Si spalleggiano a vicenda, ma sono innocui. Non mi interessano storielle. Ho l'adrenalina in corpo. Cerco altro.
Gli rispondo sgarbatamente che sto aspettando il mio ragazzo e si allontanano continuando a guardarmi, un altro po' di tempo, a distanza, poi si rassegnano e se ne vanno.
Sono passate le undici quando giunge l'ultima metro. I ragazzi che rientrano dal centro città sono per metà ubriachi e per l'altra metà fatti.
Attendo fiduciosa e finalmente, compare. È il conducente. Chiude la fila. Ci scambiamo uno sguardo inconfondibile. Sono sicura che sta già sbavando. Io l'ho riconosciuto, lui non credo: ero una ragazzina senza curve quattro anni fa.
Va a timbrare la fine del turno, ma tornerà indietro.
Infatti, dopo quindici minuti, mi guarda a un pugno di metri di distanza, fumando una sigaretta. Intorno a noi non c'è più nessuno, solo un clochard ubriaco che dorme in un cartone.
Si fa avanti con quel passo lento da gradasso, inconsapevole della nausea che mi provoca con quella pancia enorme, la testa pelata lucida e quei rari capelli sudati appiccicati sopra.
Lo fisso seria, invece lui ha un sorriso ambiguo.
«Hai un bel culo, troietta. Stai aspettando qualcuno?»
Mi guarda ancora e si tira su meglio i pantaloni in vita. Ha la bava bianca ai lati della bocca.
«Aspettavo te», gli rispondo lentamente con un'espressione tra il seducente e il sinistro, mentre mi inerpico sui tacchi.
Ride, mi mette una mano sul culo e mi palpeggia. Io sopporto.
«Non hai un posto dove andare?», buttò lì.
«Dipende. Quanto vuoi?»
«Quaranta» affermo, togliendo dal reggiseno un preservativo con la carta nera in tema Halloween.
Il porco ride e si guarda intorno.
«Ti do sessanta se non usi niente.»
«Ci sto», replico.
Toglie le chiavi appese al passante dei pantaloni, mi passa la mano sul fianco e mi conduce verso lo stanzino spogliatoio degli autisti. Fingo di non sapere dove sia, invece me lo ricordo benissimo.
Appena dentro, infila la chiave e la gira lasciandola lì, appesa.
Osservo ogni sua mossa come un rito studiato a memoria. Inizia a sudare, si sta agitando. Apre l'armadietto e ne toglie un paio di manette.
Lo squadro e languidamente sostengo:
«Mi piace usarle, ma non su di me.»
Mi guarda incerto: è lui quello che paga vorrebbe dettare legge, ma mi avvicino sculettando e subito si lascia cadere sulla sedia alle sue spalle. Gli sbatto in faccia la mia quarta imbottita e mi bagna con il sudore che ricopre il suo labbro superiore. Con facilità mi impossesso delle manette e le appoggio a terra.
Mi slaccio il reggiseno. Voglio che veda bene la sua troia.
Si eccita. Mi siedo sopra di lui per esserne certa. Vorrebbe baciarmi, ma le prostitute non danno baci ai clienti. Gli sfilo la camicia azzurra della divisa, l'arrotolo come una corda, gliela passo sulla bocca e la stringo forte dietro la nuca.
Poi scendo. Mi inginocchio. Raccolgo le manette e gliele serro ai polsi, con le braccia dietro lo schienale della sedia.
A fatica gli sfilo i pantaloni, fino alle caviglie. Chiude gli occhi e butta la testa all'indietro. Mi avvicino con la bocca e lo lecco nell'interno coscia, coperto di peli.
Adesso sono io a essere eccitata. Sogghigno, vedendo la sua erezione massima.
Mentre sono ancora prostrata, infilo la mano destra nella fondina e sussurro lentamente:
«Questo è da parte di Francesca...»
Poi simulo di evirarlo con un taglio netto.
Subito innalza la testa, scuote le gambe, ma non riesce a urlare.
Lo vigilo, ridendo a voce alta. Ha le lacrime agli occhi, le stesse che aveva mia sorella quando, quella notte, la trascinò nello stanzino.
Lo fisso ancora: mentre trema di paura, io mi calmo.
Rimetto il reggiseno senza riuscire a spegnere il sorriso sulle labbra. Tolgo cento euro dal portafoglio nei suoi pantaloni e li lascio cadere lì, ai suoi piedi. Il verme mi scruta con gli occhi fuori di sé.
Mi sollevo e godo del panorama. Estraggo anche il coltello dalla fondina sinistra.
Li incrocio entrambi intorno alla sua gola e prima di stringere, mi protendo su di lui, occhi negli occhi:
«Non ci sarà appello. Mia sorella ci ha lasciati mese scorso. La giustizia non è di questo mondo. Buon viaggio! Aspettami pure, ci rivedremo presto!»
Si piscia addosso. Io rido più forte. Sfilo i coltelli dal suo collo. Li passo vicini alla sua lurida faccia stupita, così che possa vedere che hanno ancora la guaina, quindi li rimetto a posto intonsi.
Mi sistemo i capelli, mi passo il rossetto rosso fuoco, giro la chiave ed esco tranquilla: Halloween non mi fa più paura.
Premio 1°posto scambio di lettura TimeTravel.
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