Capitolo 61
Massbury Institute, Mathews, Virginia.
La porta della camera numero 73 cigolò improvvisamente nel buio frastornante della sera.
Elena scostò la rivista di fumetti dal viso e spalancò gli occhi, all'erta, e i due ciondoli che riposavano sul suo collo tintinnarono tra loro quando, con un veloce balzo, scese dal letto a castello e saltò sul pavimento. Rapidamente, piegò un lembo della pagina e infilò la rivista sotto l'elastico della biancheria. Dopodiché, Elena afferrò la piccola maniglia della lucerna e la stanza venne avvolta da un pallore spettrale.
La porta si aprì con uno scatto violento e la figura di Jana venne illuminata dalla flebile fiamma della lucerna. Era alquanto trasandata: la giacca dell'uniforme era infilata al contrario, con le cuciture in vista, la camicia era leggermente sbottonata a lasciar intravedere il solito reggiseno bianco e la cravatta rossa pendeva pericolosamente verso la tasca dei pantaloni, sino a che scivolò a terra e Jana inciampò sul suo tessuto.
Entrò nella stanza barcollando ed incespicando, stridendo i denti e rasentando il palato con la lingua fino a creare un suono quasi impastato e gelatinoso. Jana sbandò verso sinistra e urtò lo spigolo di un comodino sul quale erano posizionati in un'alta pila i fumetti di Elena, la quale si slanciò fulminea sul comodino prima che le sue letture crollassero a terra.
Jana parlò e la sua voce aveva alti e bassi: "Leggi... i monga?"
Elena venne investita da una folata di alito consunto e dedusse: "Sei ubriaca."
"Cosa? Co-me? Dove sono... ubicata? Qui... vi-vo.. q-qui." Jana rise e si mosse in avanti, ma quando il suo viso incontrò rischiosamente la fiamma della lucerna, arretrò spaventata e, inciampando sui suoi stessi passi, crollò sul pavimento. Si abbandonò ad un sospiro di sollievo che mascherava una smorfia di dolore e aprì braccia e gambe. "Sono una... bellis-sima stella ma-rina e... e posso vola...re." La sua voce si allungò canterina sull'ultima sillaba.
Elena grugnì esasperata e si chinò verso l'amica. L'afferrò per un braccio e provò a sollevarla con un notevole sforzo. "Le s-stelle marine non... volano."
"E inve-ce sì." Jana spalancò gli occhi grigi, profondamente convinta delle sue parole. "Tutto si tras... trasforma."
"Alzati, Jana."
"Byron... dai, non vo-glio i biscotti..." Jana rise sognante e sputò dai denti un insopportabile vento che aveva il sapore del vino. "Anzi, sì! Però..." Provò a fare una pausa ad effetto e le sue palpebre non sbatterono per un lungo minuto, "solo se so-no al ciocco...lato."
"Jana..."
"Fondente!"
Elena lasciò la presa sul braccio di Jana e quest'ultima ricadde sul pavimento come un pupazzo esanime dalle sembianze di un cadavere il cui sangue in corpo era stato prosciugato. Dopodiché si drizzò dolorante alla schiena, si asciugò un paio di gocce di sudore che le brillavano sulla fronte come piccoli cristalli e si chinò nuovamente verso la compagna. Provò a sollevarla di peso posando le mani sotto le sue ascelle, ma le sue braccia erano troppo deboli per alzare un corpo completamente rilasciato che si rifiutava di collaborare. Elena mugolò tra i denti. "Jana... ti pre-go... alzati... non ce la faccio... da sola."
"Byron," Jana urlò quel nome con una voce talmente stridula che Elena balzò trafelata, "non toc-carmi. Dai, mi fai il... sol-letico... devo pre-sercvare la mi...a dignità. Sei davvero... sexy, ma... insomma... la-sciami." Jana deglutì e poi si agitò quasi furibonda, immersa nella propria astratta immaginazione che le distorceva la percezione della realtà. "Ficcati le mani in c..."
"Jana!" Elena gridò, interrompendola nel momento giusto e, con un ultimo sforzo e concentrando tutte le sue attenzioni sulle proprie braccia, riuscì a sollevare l'amica solamente per spingerla sul suo letto. Dopodiché, si piegò sulle ginocchia e respirò ansimando, la forza residua che usciva dalle sue labbra come nuvole di fumo.
Mentre i suoi capelli si muovevano febbrili sotto le spinte del vento che si immetteva nella stanza dalla finestra, Jana fissò il piccolo tettuccio di legno che divideva il suo letto da quello di Elena sopra di sé, scrutandolo con una particolare attenzione, quasi stesse osservando le stelle. Dopodiché, congiunse le mani in grembo come una salma egiziana.
Intanto, Elena, che si augurava di aver ritrovato un po' di pace, sfilò la sua rivista di fumetti dall'elastico della biancheria e si diresse verso la scaletta che conduceva al suo letto, ma Jana la fermò.
"Un dub-bio mi tormenta... Page."
Elena roteò gli occhi al cielo. "Byron non è v-vergine?"
"No... "Jana si schiarì la voce e poi rise isterica. "Lui è To-ro, ma la questio...ne non è que... questa. Il dub-bio che mi affligge è... un altro," concluse la frase con un'enfasi teatrale.
"Quale?"
"Come fan-no gli istrici a fare... sesso?"
Elena aggrottò la fronte, ad un tempo scettica e stupita; allungò un braccio verso il proprio letto, ne afferrò il cuscino e lo lanciò sul viso di Jana. "Sta' zitta e... e dormi. Sei fuori di t-te."
Trascorsero alcuni minuti di silenzio, durante i quali Elena raggiunse il suo letto e Jana non parlò, limitandosi a posizionare un dito dinanzi al suo volto e a fissarlo mentre lo avvicinava alla punta del naso, solamente per sbocciare in una risata quando percepiva i suoi occhi incrociarsi. Ma la quiete non durò molto ed Elena, proprio nell'istante in cui la lancetta della sveglia si era mossa con fatica verso la mezzanotte, fu costretta ad interrompere ancora una volta le sue letture: Jana iniziò ad intonare le note acute di una canzone, scandendo con la lingua sul palato il ritmo e sputando nella stanza una voce stridula e rauca che portò Elena a massaggiarsi vigorosamente le tempie. La melodia sinistra sfoggiata dalla sua voce prese quota e ben presto, seppur con difficoltà, Elena riuscì a distinguere le parole della canzone che Jana pronunciava singhiozzando e scatarrando i residui di birra nella sua gola.
Jana cantava, con le mani ancora congiunte sul petto: "In my life... there's be-en heart... ache and pa-in
I... I don't know if I c-can fa-ce it again."
"Jana, ti p-prego..." mugolò l'altra sbarrandosi gli occhi con le mani in un gesto disperato.
"Can't stop-p now, I've trave-led so faaaar, to chan-ge this lo-nely life..." Jana alternò note atterrate e decolli di voce impressionanti, fino a che non fu costretta a schiarirsi la gola. "Ah, che canzo...ne meravigliosa..." commentò per poi riprendere con voce ancor più possente e insostenibile: "I want to know what love is... I want yo-u to show m-me..."
Elena, che era certa che per mettere a tacere Jana bisognava porle alcune domande che la distraessero dal canto, portò una mano dinanzi alle labbra per un colpo di tosse, poi disse: "Dove l'h-hai sentita?"
Jana, effettivamente, tacque subito declinando la voce in un borbottio indecifrabile. Si alzò dal letto colpendone la testiera di legno con la testa, poi lamentò dolore e, facendo leva su tutte le sue forze, si sollevò di un poco per affacciarsi oltre la piccola scala che conduceva al piano superiore del letto a castello. Dopodiché, con occhi vitrei, arrossati e spalancati, dove le vene guizzavano come pompe sanguigne, guardò Elena e biascicò tra i denti: "La can-tava prima B-Byron. Ha detto che i... i Foreigner han-no fatto davvero un... un bel la-voro con questa canzone. Perché è d'am-ore e... dice che... che quest'uomo praticamen-te ha vissuto una vita da schi...fo... però vuole conoscere l'amo-re," Jana sorrise istintivamente e i suoi lineamenti si tesero dolcemente, gli occhi si socchiusero, ma quando li riaprì tornò a fissare Elena con sguardo vuoto. "E questo qui pen-sa che la sua don-na possa fargli conoscere... la sen-sazione di amare... e... e..." continuò a balbettare come un giradischi che graffia sempre sullo stesso solco per qualche secondo, "ed è bello, no?"
"Molto."
Jana drizzò il collo come se fosse stata offesa. "Tu non mi... mi stai ascoltan-do."
Elena, senza dare nell'occhio, represse la nausea che l'alito di Jana le fece vorticare in corpo e annuì. "No... io ti... ti ascolto."
"Bene." Jana deglutì e allungò una mano per reggersi ad un piolo della piccola scaletta, mentre il suo capo sbucava alle spalle del cuscino di Elena. "Byron stava strim... strimp.... strimpellando questa canzone al-la chi...tarra e ha detto che... che per fare una co-sa veramente figa servi-reb-be la batteria... quindi quando uscirò... da... da questo castello infer-nale... prenderò lezioni di batteria..." E concluse abbassando improvvisamente il capo come colta da un colpo di sonno, ma si drizzò tempestivamente.
"Emozionante."
"Già." Jana sbatté più volte gli occhi, dopodiché sfoggiò un sorriso languido e infantile, addentando il proprio labbro inferiore. "E poi... e poi ha det-to che se faccio la brava mi dedi-ca quella can... canzone."
"Sensazionale." Elena finse di ascoltare le sue parole, ma i suoi occhi -dietro le lenti dei grandi occhiali- correvano bramosi sulle ultime pagine della rivista che leggeva ad alta voce, sulle quali i suoi lunghi capelli ricci riposavano docilmente.
"Sì." E Jana, dopo aver inalato una grande boccata d'aria, si rincantucciò tra le coperte del suo letto, intonando sommessamente le note della stessa canzone.
Era talmente concentrata a scrutare e a divorare con lo sguardo selvaggina le ultime vignette del piccolo fumetto, che Elena non si accorse del tempo che scorreva inesorabilmente: la sveglia sul comodino segnava già la mezzanotte e mezza e il timore che Mandy potesse passare di ronda lungo i corridoi e sentirla la indusse a leggere a bassa voce, facendo solamente incontrare silenziosamente tra loro le grandi labbra rosa, fino a che una fitta lancinante non le trafisse le tempie. Elena, a quel punto, lanciò il piccolo giornale sul letto e portò le mani alla testa, sinceramente dolorante, chinando il capo verso il petto e stringendolo tra le spalle: nella sua mente si affossavano voci, preghiere, grida e strani nitriti. Scosse la grande chioma riccioluta come per scacciare quel vociare assiduo e quella confusione indistinguibile, ma più chiudeva le orecchie con i palmi delle mani, più i frastuoni si facevano intensi. Iniziò a gemere e a mugolare, perché percepiva strane scosse elettriche che correvano lungo la sua spina dorsale e perché i due ciondoli appesi al suo collo sembravano d'un tratto bruciare a contatto con la pelle. Versando una lacrima di dolore e disperazione, Elena scese tremando le piccole scale e attirò l'attenzione di Jana che da tempo era in bilico tra il sonno e la veglia.
L'amica, che ancora vedeva lontano il momento in cui avrebbe smaltito la sbornia, disse: "Che... fai?"
"Stai zitta... stai zitta...!" stridette Elena tra le labbra, mentre le lacrime raggiungevano velocemente la sua bocca. Fece per avvicinarsi alla finestra e reggersi al davanzale, ma crollò sulle ginocchia prima di muovere un paio di passi e gridò qualcosa di impercettibile, come se spronasse quella sorta di demone che la stava logorando ad abbandonare il suo corpo.
Jana osservava stoicamente la scena, la mente confusa: "Ah... ho capi...to. Sei ubriaca anche... tu."
Elena farneticò e allungò un braccio per reggersi allo spigolo del suo scrittoio, sul quale la sua macchina da scrivere barcollò pericolosamente. Si alzò a fatica, ma non riusciva a percepire alcun rumore esterno, neppure il lieve posarsi dei suoi piedi nudi sul pavimento: la sua testa era ricoperta di rumori, clangori e suoni sordi, come avvoltoi che si precipitano sulla salma decaduta di un uomo. Lei sentiva, sempre più potente dentro di sé, oramai, il peso soffocante di quella sensazione. "Sta..." riuscì a dire poi, "sta iniziando."
Jana provò a focalizzare la figura della compagna. "Che cosa?"
"La guerra." Ed Elena si sedette dinanzi alla sua macchina da scrivere. Guardando un punto in lontananza, fissandolo assorta, quasi riuscisse a visionare la scena, le sue dita si mossero sui piccoli tasti consunti e corsero veloci in descrizione. Avrebbe scritto di quel momento memorabile.
Jana, d'altro canto, estranea alla situazione, si lasciò ricadere nuovamente sul cuscino e chiuse gli occhi, brontolando. "Fai una ricerca su... su come si accop-piano gli istrici... dovreb-be esserci qualcosa in bi...biblioteca a riguar-do. E poi... e poi scrivi di loro. Sì," assentì ancora, "dovrebbe-ro essere interessanti... gli istrici."
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Nello stesso momento, ad Alexandroupolis.
Era vero: la guerra stava iniziando.
I due eserciti si guardavano bellicosamente: quello di Tristan disponeva di una fanteria pesante equipaggiata al meglio, con le sarisse alla mano e i soldati schierati nelle file dritti come le stesse lance che imbracciavano, con le stelle argeadi sugli scudi e sulle corazze di lino. Gli sguardi erano fermi, immobili sul nemico, e forse avrebbe trucidato più una loro occhiata che le loro spade. Calzavano elmi a foggia di berretto frigio con una corta visiera e le loro tuniche bianche scintillavano sotto gli abbagli del primo sole della Tracia. Le gambe e le braccia erano forti, scultoree e marmoree, frutti e residui di estenuanti allenamenti che avevano gonfiato anche i loro petti egemoni di uomo. Gli sguardi non rivelavano paura o timore: avevano imparato a nascondere e a sopprimere simili emozioni. Gli occhi di ogni guerriero erano indiavolati sotto le palpebre abbronzate dal sole e la linea delle labbra ferma e diritta tradiva la rigidità con cui era stato imposto loro di affrontare la battaglia più sanguinosa dei tempi.
I sedici battaglioni della falange si disperdevano camminando con passo cadenzato sul campo come enormi pedine da gioco indistruttibili, come scure toppe quadrate e armate. Sul fianco destro e sinistro di ogni contingente correva una fila verticale di soldati che davano fiato alle lunghe trombe dorate e di altri che imbracciavano enormi tamburi sui quali battevano con grandi mazze di cuoio, cercando di mantenere il ritmo dell'avanzata. D'altra parte, sulla prima fila del fianco destro di ogni battaglione, sostava impettito il vessillifero che teneva alto lo stemma reale, un enorme stendardo rosso che raffigurava il mondo visto dalle cime dell'Olimpo.
Ad ogni colpo di tamburo o soffio nelle trombe corrispondeva un passo inferto sul terreno sabbioso con forza. Mano a mano che avanzavano, i soldati borbottavano le stesse parole, gli stessi incoraggiamenti pesanti, gridando i numeri che scandivano il cammino:
Un', due, tre! Un' due, tre!
Alle due estremità dell'intero esercito si muovevano invece i due grandi squadroni di cavalleria, due ali protettrici sulle cui armi il sole riluceva furente.
Ma, davanti a tutti i sedici battaglioni della falange, in una perfetta linea diritta, sostavano i sette Olimpi maschi sui loro cavalli: Zeus, Poseidone, Ares, Dioniso, Apollo, Ermes ed Efesto.
Zeus imbracciava il suo fulmine con occhio severo e lisciando di tanto in tanto la sua barba bianca, Poseidone reggeva il suo tridente e lanciava sguardi imperiosi al mare che riposava ancora silenzioso al limitare del campo, Ares socchiudeva gli occhi piccoli e di tutti era il più robusto, nella sua armatura rossa e dorata, Dioniso sfoggiava un viso folle e al collo aveva allacciata una grande e spessa collana intessuta con foglie d'edera, Apollo -di tutti l'unico che non aveva né lancia né daga, ma solamente il suo arco- sussurrava tremende maledizioni con voce poetica, Ermes -dall'affascinante eleganza- reggeva in mano il suo caduceo attorno al quale si torcevano due lunghi serpenti verdi e squamosi, ed infine Efesto, dai lineamenti distorti e brutali, ma che, tra tutti, disponeva delle armi più solide, ancora bollenti di produzione.
Le donne d'Olimpo, invece, a cui era stato negato freddamente e senza forma d'appello l'accesso in battaglia, guardavano gli eserciti che avanzavano l'uno verso l'altro dalla riva del mare, con i piedi bianchi ed esili intinti nell'acqua di rugiada, stringendo attorno alle spalle larghi mantelli operati con spighe d'oro. Tra esse c'era Afrodite, che quella mattina aveva le labbra stinte e prive dell'usuale rosso porpora, ma dagli occhi gonfi di pianto. Silenziosamente e con un sussiego regale, guardava Ares.
Ma tra esse c'era anche Anfitrite. Lei, invece, guardava il figlio e talvolta alternava lo sguardo da Tritone a suo padre, come se cercasse di ricavarne le differenze, e gli effetti di quelle occhiate sfociavano in un debole sorriso orgoglioso che si tramutava poi in uno sguardo appannato e traslucido d'amore.
Tristan era davanti a tutti, davanti persino alla schiera imponente formata dagli Olimpi. Sedeva sulla groppa del suo stallone nero, il migliore di razza tessalica, il più alto, il più formidabile, quello che avrebbe rivaleggiato con tutti gli altri quattromila destrieri in mole. Guardava l'esercito di Eryx e di Ippotoo dinanzi a sé, vestito ed equipaggiato alla stregua greca, ma non si soffermava con gli occhi sulle loro figure: esaminava piuttosto la compattezza dei battaglioni, analizzava da lontano la robustezza delle lance e i suoi occhi, accesi di perizia, vagavano persino tra i soldati degli ultimi schieramenti per comprendere i punti deboli di quella falange oplitica.
Solamente in seguito a quell'attenta analisi, Tristan afferrò le redini del suo cavallo e si voltò velocemente verso i propri uomini. Prese a cavalcare lentamente dinanzi alla prima fila, studiando i volti dei suoi guerrieri, tentando di scorgere in essi i pensieri, le emozioni e i timori, inclinando, come suo solito, armoniosamente il capo verso la spalla sinistra. Continuò ad avanzare, con la schiena talmente diritta che quasi formava una curva sinuosa sotto il linothorax bianco e il pesante mantello sulle spalle. In una mano reggeva l'elmo che ancora non calcava in capo, assieme alla lunga picca macedone la cui punta, levigata su ambo i lati, sfregiava persino la luce del sole con la sua brillantezza.
Mai in tutta la sua lunga e immortale esistenza, il suo sguardo aveva assunto sfumature così serie, rigide e cupe.
Qualcuno, da uno dei battaglioni, urlò: "Scudi serrati!"
E i guerrieri strinsero gli scudi al petto.
D'un tratto, Tristan arrestò la camminata con un colpo di sandali sul ventre del suo destriero. Guardò un soldato in particolare, che, probabilmente, era l'unico in grado di sorreggere il suo sguardo. Tristan sorrise e gli si rivolse con voce tonante: "Cadmo."
L'altro annuì sorpreso ma soddisfatto.
"Ti senti un vero uomo stamattina?"
Cadmo non rispose, la voce gli stava chiaramente morendo in gola, ma da come agitò con foga lo scudo al petto, Tritone ne dedusse la sua risposta affermativa.
"Dunque sii uomo fino alla fine." E proseguì oltre.
La sabbia, intanto, prese a sollevarsi e i suoi granuli rotearono nell'aria come se fossero legati al vento da una sorta di magnetismo indivisibile. Alcuni aderirono alle ciglia di Tristan, altri si insinuarono tra la criniera folta e nutrita dei suoi capelli biondi, più dorati di quelli di Apollo. Poi si fermò di nuovo davanti ad un gruppo di soldati e li osservò uno ad uno, dal più robusto al più esile, conservando però lo stesso sguardo fiero. Parlò dall'alto del suo cavallo: "Tu!" E accennò al guerriero più gagliardo. "Per chi combatti stamane?"
"Per la Grecia," rispose il soldato con una tale forza d'animo e una tale convinzione che i suoi occhi si inumidirono commossi.
"E tu, invece?" Tristan indicò con un gesto del capo il soldato in piedi accanto al guerriero cui aveva rivolto la parola poco prima.
"Combatterò per me stesso, signore."
"E ti batterai da uomo?"
"Sempre."
Tristan incurvò le labbra in un sorriso appagato che nascose però l'istante successivo. Mascherò dietro il volto serio anche la grande soddisfazione che cresceva sempre più funesta dentro di lui: aveva addestrato dei guerrieri, degli uomini, che per la loro gloria non sarebbero morti in anonimato.
Infine, roteando la lancia tra le mani per scaricare la tensione, Tristan si avvicinò agli ultimi soldati del lungo schieramento che proteggevano l'estrema fiancata destra della falange. Sorrise, perché riconobbe i suoi amici: Alkeos, Simeon e Carano. Alla mente, però, gli giunse il ricordo di quando essi avevano mostrato una mancanza di fiducia nei suoi confronti qualche giorno addietro, sminuendo silenziosamente le sue capacità di giudizio, e quasi si corrucciò visibilmente offeso, ma al contempo ricordò il legame che da millenni lo univa a loro. Alzò il mento con fierezza e aspettativa, chiuse gli occhi ghiaccio e prese un grande sospiro. Dapprima guardò Alkeos, poi gli altri: "E voi?"
"Siamo con te!" gridò Alkeos con uno sfogo di passionalità, incitando gli altri ad alzare le sarisse al cielo e a batterle ripetutamente contro gli scudi in un continuo e ridondante frastuono che si levava al cielo.
Tristan fece per replicare, risollevato nell'animo, ma intercettò lo sguardo di Simeon che, invece, guardava preoccupato oltre le sue spalle. Tritone si voltò in tempo giusto per vedere la punta di una lancia che si conficcava in un lembo di terreno al suo fianco, scintillando al sole simile ad una meteora e precipitando vibrante come un giavellotto dopo aver disegnato nell'aria una lunga parabola.
Solamente a quel punto si voltò nuovamente verso l'esercito nemico e alzò lo sguardo infiammato, furioso e adirato a ricercare tra i soldati l'autore di quel vergognoso oltraggio.
Individuò l'uomo senza alcuno sforzo: Eryx lo guardava bramante di sangue.
Tristan lo fissò intensamente e i loro sguardi, ostacolati dall'estesa distanza, si incontrarono e si unirono con vigore e competizione. Tritone serrò la mascella, strinse un pugno attorno alla sarissa fino a che non sentì le unghie incidere il suo palmo e con l'altra mano si infilò lentamente l'elmo dorato.
La cresta rossa scintillò pericolosamente al sole, alta come uno scettro, nitida come il sangue.
Dopodiché, Tristan recuperò le redini del suo cavallo e, osservando sprezzante Eyrx, sfilò la lancia conficcata nel terreno e la lanciò sulla sabbia, come fosse un corpo esanime e rinsecchito. E poi prese a cavalcare davanti ai suoi soldati, galoppò rapido e con agilità verso l'ala di cavalleria al fianco destro dell'esercito e ne assunse immediatamente il comando con supremazia.
Ma i suoi occhi non si erano ancora staccati dalla figura di Eryx.
Con rabbia e un'accesa sfida, digrignò i denti, sussurrando impercettibilmente: "A quanto pare la tua pessima mira è un punto a nostro favore." E poi tese il braccio con la sarissa al cielo, lanciò con un grido il segnale e, seguito dalla cavalleria, partì al galoppo.
Nel contempo, davanti ai battaglioni della falange, Zeus mormorava a Poseidone, guardando Tristan: "È stato cresciuto bene. Non è... debole."
"No." Poseidone sospirò scettico. "Non lo è."
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In questo capitolo incontriamo di nuovo Jana e co. Chissà che ha combinato per essere ubriaca e per volere informazioni sugl'istrici ahahahah. Elena è sempre più strana: riesce, in qualche modo, a sentire e a vedere ciò che sta accadendo ad Alexandroupolis.
Tristan, invece, sprona l'esercito prima dell'inizio della battaglia, ma Eryx gli lancia la sua picca convintissimo di trafiggerlo... povero illuso. Questo ha fatto infuriare ancora di più Tristan... vedremo come andrà a finire! Nel prossimo capitolo la battaglia verrà descritta, e forse ci saranno alcuni dettagli un po'... brutali, diciamo, ma questo è abbastanza normale. Comparirà Dianna e ci sarà un colpo di scena.
Per anticipi e molto altro passate sulla mia pagina Facebook dedicata alla storia "Alexandra-writes on Wattpad."
Fatemi sapere che ne pensate di questo capitolo nei commenti. Votate e commentate!
Grazie mille e buon weekend :)
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