Capitolo 58
La sera stessa, Tristan si recò dalla strega degli abissi, la famigerata Ehona, per richiedere il suo supporto. Non era né giovane e né anziana: viaggiava nell'età di mezzo in cui compaiono i primi segni del tempo, le striature sulla fronte e le increspature sulle guance. I suoi occhi, tuttavia, erano ancora accesi e, in qualche modo, Tristan si ritrovò a pensare che viaggiasse una magia particolare anche in quelle iridi.
La donna lo ricevette con ogni onore dovuto al figlio del re dei Mari, poi si sedette dinanzi alla sua scrivania, alle sue carte e ai suoi grimori aperti e guardò il giovane con una strana melanconia nello sguardo.
Dalla donna, Tristan voleva assicurarsi la protezione dell'esercito che sarebbe dovuto partire, dunque Ehona gli giurò che avrebbe plasmato un'enorme ed elastica cupola invisibile che avrebbe diviso il mondo divino da quello umano. Ciò era assolutamente necessario: gli uomini che vivevano sulla terraferma non sapevano e non avrebbero dovuto sapere che, in quel 1992, in quell'anno che credevano universale, coesisteva un'altra realtà ben più antica e recondita.
Era come se due mondi, due universi paralleli vivessero nello stesso momento, con culture, credi e tradizioni differenti, ma nessuna realtà avrebbe dovuto fondersi con l'altra.
Tristan obbligò più volte la donna a ripetergli il fedele giuramento e quando lesse una reale sincerità dietro il suo sguardo di strega, se ne andò ringraziandola con sussiego.
Tritone non amava la magia o gli incantesimi, non amava quelle strane congetture, ma nessuno sguardo od orecchio umano avrebbe dovuto vedere o sentire l'esercito avanzare con il suo passo impetuoso ed una guerra ancestrale e sanguinosa imperversare in una baia isolata nelle vecchie terre della Tracia.
Quella di Ehona era una rassicurazione aggiuntiva, perché Tristan sapeva che la piana che circondava Alexandroupolis era deserta ed isolata, e quella notte, quando tornò nelle sue adiacenze, lo sguardo gli cadde sulle onde puntellate dal riflesso delle stelle, e per un istante, un solitario istante, si chiese se fosse stato meglio vivere nell'inconsapevolezza umana o con quel brivido dell'avventura che ora gli scuoteva le membra.
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Partirono per Alexandroupolis all'alba del mattino seguente, come previsto.
Poseidone alzò il suo tridente e aprì un varco nel mare, uno stretto andito vuoto nelle acque, quasi privo di materia, affinché l'esercito potesse immettersi in quella vasta galleria, dove le pareti curvavano in onde concave che si intrecciavano e si allacciavano in un solido legame, con i rivoli di spuma che tremavano e la superficie acquosa levigata e trasparente che rifletteva nitidamente ogni sguardo e ogni dettaglio.
Si allontanarono da Eretria e camminarono all'altezza dello stretto dei Talanti, per poi fiancheggiare le coste della Grecia centrale. Lì, l'esercito si equipaggiò per il lungo cammino che avrebbe dovuto affrontare: con sarisse e scudi alla mano, elmi calcati sul capo e corazze di lino strette al petto, i soldati valicarono come un'unità compatta ed indivisibile i difficili manti sottomarini nei pressi dei monti orientali della Tessaglia, sino a raggiungere, dopo due giorni di cavalcata alternati a brevi soste, le acque parallele al Monte Olimpo. Quando ne avvertì la lontana presenza, Tristan -che tra tutti si distingueva per la cresta rossa dell'elmo e per il lungo mantello di lana bianca che scendeva sulla groppa nera del suo stallone, nonché per la giovane e formidabile possanza- alzò lo sguardo, quasi bucando il velo compatto di acqua e si fermò per un istante. Pensò che gli Olimpi li avrebbero raggiunti ad Alexandroupolis la notte precedente alla battaglia, ma pensò anche che, qualora avessero deciso di non presentarsi, la guerra sarebbe stata ugualmente vinta sotto il suo comando.
Con questa nuova -forse forzata- sicurezza, continuarono il loro cammino.
Tristan precedeva la fanteria sostando al comando degli squadroni di cavalleria al fianco dell'ipparco Kassandros, mentre, alle sue spalle, Alkeos, Simeon e Carano erano alla guida supervisionata dei restanti battaglioni della falange. Alle estremità della cavalleria galoppavano Poseidone, la regina Anfitrite e le due principesse Bentesicima e Roda. Quest'ultima scambiava occhiate silenziose e fugaci con Kassandros, mentre Bentesicima guardava altrove: osservava Dianna che procedeva veloce al fianco di Tritone. La scrutò sopra il suo lipizzano grigio e ammirò la presa delicata che esercitava sulle sue briglie; guardò anche la piega che i suoi capelli assumevano quando scendevano in morbide onde sulla schiena e pensò anche che quel rosso fiammante fosse l'unica fonte di colore distinto nel monotono blu delle acque che solamente occasionalmente si mischiava alle sfumature del bianco, ma Bentesicima covava antipatie e odi troppo reconditi per ammettere a parola i suoi pensieri.
Quando raggiunsero le radici marine del braccio della Sitonia, il lembo di terra centrale della penisola Calcidica che si allungava sul mare come un grande tridente, l'esercito avvertì il lontano ed ovattato fragore di una pioggia che scoppiò nei cieli e il borbottio tonante delle nuvole che oscurarono il loro pallore prima di lasciar sprofondare come una condanna miriadi di gocce pesanti e salate che si depositarono sulla superficie marina.
Il mare si alzò, si agitò, si rimescolò e le pareti d'acqua dell'infinita galleria sembrarono sbriciolarsi e lasciar schizzare qualche rigagnolo d'acqua sulle armature dei soldati; i cavalli si imbizzarrirono, si impennarono e alcuni furono sul punto di fuggire terrorizzati, se i loro cavalieri non li avessero mantenuti immobili a redini trattenute.
Tristan si sfilò il mantello e lo posò sul capo e sulle spalle della sirena, afferrando anche le redini del suo cavallo e attirandolo al suo fianco, mentre guardava con un sorriso Dianna rigenerarsi sotto la sua protezione. Lui, invece, procedeva a passo fermo, spronando con voce rigida i soldati e battendo di tanto in tanto le caviglie sui fianchi del suo cavallo.
Dianna lo vide mentre l'acqua gli schizzava sulle guance e sui capelli, e notò che quest'ultimi erano più lunghi del solito: ora gli coprivano le orecchie e gli solleticavano il collo abbronzato. I ciuffi si incastravano tra le lunghe ciglia folte e ricurve e Tristan fu costretto a passarsi una mano tra i capelli più volte, mentre qualche goccia d'acque stillava anche dalle sue labbra piene.
In qualche modo, Dianna si sentì in colpa: avrebbe voluto restituirgli il mantello, ma Tritone era inflessibile: l'assicurava di star bene e di non aver freddo, ma un istante dopo la sirena lo vedeva reprimere un singulto e uno spasmo.
Attraversarono le acque dell'antica Macedonia e raggiunsero la Tracia dopo altri tre giorni e mezzo di viaggio.
All'estremo confine orientale della regione, dove il mondo europeo e quello asiatico si incontravano in una culla spianata su una vasta vallata, sorgeva Alexandroupolis. Ad Est si respirava il soffio di salsedine del mare, mentre ad Ovest, su una lunga catena di dossi verdeggianti, sorgeva il cuore della città.
Ma l'esercitò, che vi arrivò in una sera di maggio, si teneva ben distante dalla vita moderna e cittadina che procedeva dentro quell'ammasso di palazzi bianchi e strade sterrate. Infatti, si appostò al confine meridionale di una larga, enorme, immensa, incommensurabile distesa di terra, perlopiù sabbiosa, che correva verso il mare alla sua destra e che era delimitata da un bosco fitto e rigoglioso alla sua sinistra.
Era un grande spiazzo deserto, privo di ricordi di vita, silenzioso, lontano dal respiro degli uomini della città.
Era come dimenticato.
Tristan scese da cavallo quasi trascinandosi e drizzò la schiena come per rigenerare le ossa, chiudendo gli occhi e alzando il capo affinché il sole di settentrione battesse sul suo viso arso dalla fatica dell'estenuante viaggio: e sentì ben presto giungergli alle narici il profumo della guerra, la voce sigillata di un antica città che portava il nome del più grande, temibile, valoroso guerriero della storia: Alessandro Magno.
In qualche modo, Tristan, sentiva che lì, ad Alexandroupolis, avrebbe potuto vincere.
E Dianna, invece, il cui pensiero non arrivava alla riflessioni remote di Tristan, percepì invece la mescolanza di due mondi: quello moderno, poco lontano, e quello antico, ancestrale, ellenico, rappresentato da quei soldati armati e da quei cavalli bardati che si sarebbero ben presto lanciati nel furore della guerra più sanguinosa di tutti i tempi.
Sentiva il 1992 mescolarsi all'età classica.
Quando si fu rimesso in forze, Tristan diede ordine ai suoi subalterni di disporre le tende da campo accanto ai piedi degli alberi del bosco, e si assicurò che tutte fossero munite di letti e brande.
Ben presto, parte del campo di battaglia si riempì del grigiore dei tendoni, smorzato di tanto in tanto dai nitriti dei cavalli assicurati con le redini agli alberi del bosco che sbuffavano dalle froge, dalle urla e dalle preghiere silenziose dei soldati e dalla luce di qualche falò che scoppiettava davanti ad una decina di tende.
Dinanzi ad una di queste, sedevano attorno ad una grande fiamma Roda e Kassandros. Quest'ultimo guardava la giovane principessa con elogio e amorevole ammirazione, e Roda arrossiva vistosamente sotto le sue occhiate espressive, e le sue guance bollirono dello stesso colore delle faville del fuoco.
Giunse ben presto la sera: in Tracia, il sole sembrava sorgere più lontano, come estraneo, come se il suo fuoco fosse riservato ad un altro mondo, oltre quel mare, oltre le distese della vicina e antica Persia.
Nel cielo coesistevano pochi colori: quel pezzo di mondo pareva non conoscere la versatilità di ogni sfumatura. Un tenace grigio cenere, disteso per tutta la lunghezza del cielo, cercava di oscurare l'unico spicchio di luce, di un intenso arancione dorato, sigillato ad un'estremità dell'immensa volta celeste, dove il sole calava con la sua vivace brillantezza.
Sembrava un piccolo specchio lucente incastonato in un guazzabuglio di tenebre.
Tristan, allora, sfilandosi l'elmo dal capo e reggendolo sotto braccio, gonfiò il petto sotto la corazza di lino e lo stemma del leone argeade sul suo torace brillò come un caleidoscopio che rifletteva tutte le sfumature del bronzo nelle ultime luci del giorno. Rimase diritto in piedi a guardare il mare nascosto oltre quella distesa di sabbia quasi desertica e, lanciando occhiate alle sue spalle, vedeva oltre le centinaia e centinaia di tende d'accampamento, il bosco che uggiolava e che sussurrava parole incomprensibili.
Alcuni uccelli iniziarono a frinire, ma tra i tendoni correva un silenzio meditabondo, impaurito.
Guardava il grigiore della sera scendere sul campo come un sipario oscuro e maledetto.
Poi sospirò.
Dianna uscì da una tenda illuminata, notò Tristan davanti a sé e, con ancora il suo mantello avvolto attorno alle spalle e con il peplo celeste legato regalmente attorno alla vita stretta, gli si fece vicino, camminando scalza sulla sabbia.
Come percependo la sua presenza, Tritone allungò taciturno un braccio nella sua direzione e le cinse protettivamente la vita. Tuttavia, il suo sguardo era ancora perso altrove e le sue unghie battevano ritmicamente sui guanciali dorati dell'elmo imbracciato. Anche il vento trasmetteva la stessa frenesia, insinuandosi tra i suoi capelli e sbattendoli sulla sua fronte.
Dianna si strinse a lui: avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma ancora non riusciva a trovare le parole. Sentiva solamente il crepitare di un fuoco alle sue spalle, attorno al quale erano seduti a gambe conserte Roda e Kassandros, che dalle fiamme si scambiavano dolci occhiate. Lui sembrava ricercare nelle erbacce accanto alle radici di un albero un fiore, un qualche abbellimento per i capelli della donna di cui era oramai incondizionatamente innamorato, ma in quella sterpaglia verdognola non c'era nulla. Quindi si limitò a guardare le forme delicate del suo viso distorte dai bagliori infuocati.
Poco distante da Roda e Kassandros, Bentesicima sedeva contro un sostegno della sua tenda con le ginocchia raccolte al petto. La luce dell'improvvisa luna che il cielo aveva deciso di mostrare squarciandosi nel suo grigiore illuminò parte del suo volto, inclusi gli occhi iniettati e spiritati. Il suo viso era serio.
Guardava con odio represso il fratello dinanzi a sé, che teneva stretta Dianna al fianco.
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Nello stesso momento, nella Contea di Mathews, Virginia, Massbury Institute, 1992.
"J-Jana, guarda il lato po-positivo della cosa. Puoi stare f-fuori senza dover man-giare quelle schifezze che offrono alla... mensa," disse Elena, piegandosi verso la sua ramazza.
Sopra i tetti del Massbury, invece, batteva il sole di mezzogiorno, che sembrava aver inglobato in una grande bolla ogni vento, e ora tirava dunque solamente qualche spiffero di improvvisa calura.
"Ma ho fame!" Jana parlò con voce querula, mentre prendeva a scopettate il pavimento del loggiato, lasciando balzare nell'aria i pochi accumuli di polvere che aveva raccolto. Poi soffiò. "Invece devo stare qui a spazzare e a ripulire l'istituto dal... " si fermò per trovare un termine adatto, "letamaio che creano questi incivili." Ammiccò ad un gruppo di studenti ammassato nel cortile antistante il loggiato, intenti a calpestare qualche erbaccia e a inspirare una boccata d'aria prima di tornare allo studio pomeridiano nelle loro stanze. "Probabilmente è anche una punizione gentile per come ho ridotto Mandy. Ma tutto per colpa tua, Page." Infossando gli occhietti grigi dietro le palpebre, staccò il mignolo dal manico della scopa e indicò la compagna. "Non sei la maghetta, la veggente o la streghetta che credevo. Sai, dovresti aggiornare il tuo grimorio, sei scarsa...". Dopodiché, si chinò a raccogliere una piccola cicca di sigaretta incappata nei fili della scopa che reggeva tra le mani. La portò vicino agli occhi e la studiò con tremenda perizia. "Oh, questa è di Byron. Devo conservarla, diamine." E la infilò nel taschino interno della giacca di cui aveva intrecciato le maniche attorno alla vita.
Trascorse qualche minuto e, impercettibilmente, il sole si era spostato dal suo zenit e ora procedeva claudicante verso Occidente.
D'un tratto, mentre le due compagne continuavano, con le schiene urlanti e piegate, a pulire gli angoli del pavimento sforzandosi per rimuovere ogni fastello di polvere, uno studente si avvicinò loro e si affacciò oltre il piccolo davanzale che univa gli archi dei portici. Portava il bavero della giacca piegato su se stesso e dai bottoni della camicia allacciati malamente si poteva intendere una profonda trasandatezza.
Jana si fermò e alzò il capo velocemente in tempo per vedere il ragazzo ghignare e allungare una mano verso la tasca posteriore dei propri pantaloni. Egli estrasse un paio di fazzoletti sporchi accartocciati, li strinse in pugno, tese la mano verso Jana e la riaprì per farli cadere sulla scopa della ragazza. Poi fece per voltarsi e allontanarsi ridendo, ma Jana, che aveva allungato il manico della scopa, gli sbarrò la strada.
La ragazza si spostò di lato facendo un passo e allungò l'altra mano per indicare i fazzoletti sporchi ai propri piedi. Il suo sguardo era gelido e inflessibile e le sue labbra si arcuarono in un sorriso sardonico che rivelava una costruita gentilezza. "Ora hai due opzioni: o vieni qui e da bravo barboncino raccogli ciò che hai buttato per terra con le tue mani, oppure saprò come usare il manico di questa scopa in modo da non farti arrivare sano al nuovo millennio. Che ne dici?" Jana, che a un tempo credeva di aver pietrificato lo studente con le sue dure parole e di aver comunque bisogno di appoggio, inclinò il capo verso Elena. "Page, non mi sostieni? Non fai il tifo per me?" sussurrò tra i denti stretti.
Ma Elena non le rispose neppure al secondo tentativo.
A quel punto, Jana si voltò e lasciò lo studente libero di fuggire via e posò la sua attenzione sulla compagna: la vide guardare altrove, oltre le colonne e gli archi del loggiato e seguire la scia che le nuvole creavano all'orizzonte, alla sponda opposta delle colline e del mare poco distante.
Dapprima, la esaminò con occhio perplesso e piegò con diffidenza il capo, poi le si avvicinò con passo svelto e le sostò alle spalle. Provò a seguire il suo sguardo, ma vedeva solamente le punte in ferro del cancello dell'istituto oltre il cortile. "Che stai guardando?" chiese Jana.
Elena trasse un profondo respiro ad occhi chiusi ed espirò come se fosse improvvisamente rigenerata. Dopodiché li riaprì e continuò a guardare dinanzi a sé. Con voce vellutata e sussurrata, disse: "Non lo senti?"
Jana rimase in silenzio e aguzzò l'udito. "Che cosa?"
"Il profumo della Grecia... e... dell'Asia."
Jana sfoderò un'espressione delusa e ritrasse il capo guardando la compagna con occhio scettico. Aggrottò la fronte e scosse il capo come se non volesse credere a ciò che aveva sentito. Fece per dire qualcosa, ma venne interrotta.
"Non lo sen-ti, Jana? Lo scalpic-cio dei cavalli... il fuo-co... il Mar... Mediter-raneo..." Elena sembrava in estasi. "La Grecia..."
Jana avanzò nuovamente verso la compagna ora con più sicurezza. Le posò le mani sulla spalle come se avesse a che fare con un caso disperato. "Io credo che la Grecia sia un tantino lontana. E probabilmente il profumo che senti è in realtà la puzza dei sacchi della spazzatura che Mandy sta trascinando verso il ciglio della strada, ma se la tua convinzione ti fa sentire meglio..." Jana fece spallucce, "allora credici."
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Era oramai notte ad Alexandroupolis. Tutti i generali, scudieri, arcieri e soldati si erano ritirati nelle proprie tende da campo, chi spegnendo la piccola lucerna con un soffio pesante e affranto e chi sospirando ansioso e borbottante, ripensando ad un domani che, probabilmente, non ci sarebbe stato.
Ognuno, quella notte, vedeva la propria vita appesa ad un filo, e dai lamenti e dai pianti che sopraggiungevano dalle tende si comprendeva come non vigesse equilibrio: il pessimismo che aleggiava nell'aria spingeva la vita oltre quel filo sottile, nella grande voragine della morte.
Chi pregava gli dei silenziosamente e chi si rassegnava ad un probabile e infausto destino.
Sarebbero state decine, centinaia, migliaia le vite da esaminare durante quella notte, ma Dianna continuava a rigirarsi dentro le lenzuola nella propria tenda da campo che condivideva con due ancelle, senza riuscire a prender sonno o a chiudere quantomeno gli occhi per donarsi un po' di riposo.
Invece, sudava e veniva scossa da spasmi improvvisi, veloci, che non si acquietavano se non con qualche lento respiro profondo.
Dopo numerosi minuti in agonia, la sirena scivolò fuori dalle lenzuola, imbracciò il mantello che le aveva dato Tristan e se lo avvolse attorno alle spalle: ora sentiva il suo profumo e le piaceva.
Quando si affacciò dalla tenda, venne sommersa dall'aria improvvisamente gelida della notte che si sollevava dal mare poco lontano e qualche foglia sradicata prepotentemente dal proprio ramo le sferzava i capelli.
Dianna vide Tritone, in piedi, di spalle, solo, a guardare il campo di battaglia e le onde del mare.
La sirena si avvicinò e, quando lo fece, notò anche Kassandros in piedi accanto alla sua tenda, che scrutava la visibile apprensione dell'amico. Ma quando vide Dianna, si ritirò congedandosi con un breve cenno del capo.
La sirena si accostò a Tristan, gli posò una mano sul petto e ora che lo vedeva meglio -con gli occhi grandi e lucenti e la bocca umettata dal vino che stava sorseggiando da un calice che talvolta portava alle labbra- gli disse: "Sei preoccupato?"
Ma Tritone non rispose.
"Hai paura."
"No," disse lui, ma poi si affrettò a correggersi. "Non per me."
"E allora per chi?" replicò Dianna, ma una folata di vento che le arrivò pesante sulle guance le fece intendere come fosse sciocca quella domanda. "Per me?"
Tristan chinò il capo e tacque: con l'indice disegnò il contorno del calice, ma non rispose.
A quel punto, Dianna lasciò che parlassero i loro respiri. Gli abbracciò i fianchi, chiuse gli occhi e appoggiò la testa sul suo petto. Sentiva sotto la pelle il rimescolamento del sangue di un uomo troppo forte per lottare ma troppo debole per perdere le persone che amava. In qualche modo, Dianna si maledisse per non essere stata capace di amarlo prima.
Rimasero alcuni istanti stretti l'uno all'altro, sino a che Tritone non mormorò, quando il vento si fu placato, gesticolando con il calice stretto nella mano destra: "Ho e avrò sulla coscienza la morte di soldati innocenti, che non hanno nulla a che fare con questa guerra, con queste rivalità assurde che sono state arse dal tempo, che hanno attraversato decenni, secoli, millenni." E poi sospirò. "Forse quel dolore sarà sopportabile. Ma se dovesse accadere qualcosa a te..." Tristan le accarezzò i capelli e indugiò sulle parole da usare: "amore mio, non riuscirei a sopportarlo."
Dapprima, Dianna trasalì alla dolcezza impressa in un discorso tanto triste. Ma poi, stringendolo più forte, disse: "Non mi accadrà nulla, Tristan."
"E se così non fosse?"
"Lo sarà," rispose lei.
Si lasciarono cullare ancora dalla brezza del mare: le dita di lui continuavano a carezzare i capelli di lei e la sirena teneva ancora la testa sul suo petto.
Finché Dianna non disse: "Non riesco a dormire."
"Vuoi che ti mostri cosa fanno i soldati quando non dormono?" mormorò lui.
Dianna sollevò lo sguardo e vide, negli occhi di Tristan, una luce nuova.
E poi un sorriso, mentre le prendeva la mano e la conduceva alla sua tenda.
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Questo capitolo è molto lungo e abbastanza articolato, si passa da Tristan e Dianna a Jana ed Elena e poi si ritorna ai primi due.
Comunque, ho deciso di rendere la vicenda un po' più fantasy, ecco perché ho inserito "la cupola invisibile" della strega che separa i due mondi ed ecco perché ho deciso di far camminare l'esercito attraverso una voragine aperta tra le acque. Chiaramente i soldati non potevano muoversi sulla terra, sarebbero stati visti. Comunque, i soldati camminano e non nuotano, perché -come c'è scritto- è un andito quasi privo di materia, solamente con le pareti costituite dall'acqua.
Che carini Roda e Kassandros! E Tristan che dà il suo mantello a Dianna! *-*
Poi si passa a Jana e ad Elena, che, poverine, sono in punizione! Jana sa farsi valere e non oso pensare come avrebbe usato quella scopa...
Elena è a dir poco inquietante con le sue improvvise parole... "profumo della Grecia". È terrorizzante, lo riconosco.
Per quanto riguarda l'ultima parte... ehehehe, c'è molta dolcezza! Dianna va dal suo amato perché non riesce a dormire, lui la chiama "amore mio" -awwww-, e poi.... eheheh, e poi lascio ipotizzare a voi cosa accadrà e.e.e
Riesco già a sentire la puzza della vostra perversione ahahahah
Comunque, a parte gli scherzi, spero che il capitolo vi sia piaciuto. Fatemi sapere che ne pensate nei commenti! Votate e commentate!
Grazie mille come sempre :*
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