33 Risolutezza
La floridezza di una bellissima mattinata di sole aveva contaminato l'intera giornata. Le farfalle volavano leggiadre nei prati e le api mandavano avanti, instancabili, il loro lavoro, spostandosi da un fiore all'altro. Il profumo dei gelsomini riempiva l'aria, alternato al profumo del bucato appena steso.
La vita continuava e a ognuno il suo...
Una voce austera si levava da una finestra, impartendo probabilmente le ultime nozioni scolastiche dell'anno, mentre una nonnina, sdraiata su una sedia a dondolo, portava a termine parte del suo lavoro a tombolo, stando sempre molto attenta che i fuselli fossero ben levigati, per evitare di spezzare il filo.
Sveva scostò le tende delle finestre che davano sul cortile interno, dove delle pentole rotte facevano bella mostra di sé stridendo con il decoro del luogo e apparendo come una nota stonata in quel prato ben curato. Le rose, che s'inerpicavano sulla recinzione del cortile, invadendo le mura, nascondevano una piccola porticina che dava sul retro dell'edificio.
Non l'aveva mai notata Sveva.
Cosa ci facesse lì e dove conducesse era un mistero.
Provò a cercare qualcuna delle suore per avere delle spiegazioni ma, d'un tratto, le sembrò di essere sola nel convento. Decise allora che tanto valeva andare a scoprirlo, in fondo non avrebbe fatto nulla di male.
Oltrepassò la porta che dava alle cucine e dirigendosi verso l'uscita, lungo il corridoio, mentre dava un'occhiata dalle finestre, vide quella suorina tirare via con forza qualcuno. Poi un lamento.
Cosa stava succedendo?
Iniziò allora a correre per raggiungere quel posto. Fu subito fuori. Le pentole e la ferraglia, che fino a poco prima erano sparse sull'erba, non c'erano più; poteva tuttavia sentire il rumore stridente di quegli oggetti che proveniva proprio da quella porta, come se fossero trascinati per terra.
Si diresse verso la stessa e, dopo vari tentativi, riuscì a forzarla. Uno strano corridoio angusto le si aprì alla vista. Era buio e a mala pena era possibile vederne la fine. Tutt'intorno umido e ragnatele. Decise ugualmente di seguire il suo istinto e proseguire nella ricerca.
Le mancava l'aria. Da piccole fessure sopra il soffitto entravano raggi di luce che ogni tanto rischiaravano l'ambiente dandogli un aspetto meno tetro ma sicuramente non piacevole. Corse finché non udì nuovamente quei lamenti e poi quei rumori. Si affrettò ancora, raggiungendo quella figura che tentava, suo malgrado, di liberarsi dalla stretta del suo carnefice.
Vide la piccola suorina girarsi, ma non riusciva a vedere il volto di colui che veniva trascinato. Scoperta, quell'esile figura continuò la sua folle corsa ancora più velocemente. Fortunatamente intravide l'uscita, preannunciata dal bagliore del sole che illuminava l'ambiente e poi quegli occhi imploranti che le chiedevano aiuto. Era Benedetto: lo riconobbe. Il suo sguardo, quel dolore... era come se lo conoscesse, come se lo avesse già vissuto. Proteso verso di lei, tendeva la mano verso la sua. Tentò più volte di prenderla, senza successo, fino a quando lui gliela strinse forte.
«Non lasciarmi ti prego, non di nuovo.»
Si riscosse, madida di sudore, mentre stringeva la mano di Betta.
«Ma sei tu, Betta!»
«E chi volevi che fossi, tesoro mio! Mi hai spaventato tantissimo. Ti ho visto accasciata sul sedile: sembravi svenuta. Apri questa benedetta macchina!» la rimproverò sporgendosi dal finestrino.
Sveva spalancò lo sportello dell'autovettura, stentando a ricordare inizialmente dove si trovasse; poi rammentò. Al rientro dal convento l'aveva parcheggiata dietro il viottolino della sua abitazione. Stanca e ancora scossa da quella vicenda, doveva essersi addormentata all'improvviso. Senz'altro era andata così.
Era ancora turbata, le si leggeva sul volto. Scesa dalla macchina, cercò di darsi una sistemata, lisciandosi le pieghe della gonna, quando d'un tratto si accorse dello stupore dell'amica. A giudicare da come la guardava non doveva avere un bell'aspetto.
«Ma cosa diavolo hai combinato? Poi sarei io quella fuori luogo, eh? Hai il vestito sdrucito e se non ti conoscessi come ti conosco, direi che hai avuto una giornatina a dir poco movimentata. Si può sapere dove sei stata?»
Sveva si guardò la gonna; effettivamente doveva essersi scucita mentre tentava di entrare nel ricovero.
«Deve essere successo mentre dalle suore tentavo di entrare nella stalla per soccorrere Benedetto.»
«Oh mamma, cosa sentono mai le mie orecchie! Stalla, suore: cosa farnetichi?»
La trascinò sotto i portici senza che lei potesse fare la benché minima opposizione.
«Adesso mi racconterai per filo e per segno tutto quello che ti è successo stamattina e non me ne andrò via di qui prima che tu non abbia ultimato il tuo racconto.»
Stette ad ascoltare tutto, senza dire una parola.
«Capisci?», disse Sveva, dopo che ebbe terminato. «I suoi occhi, quello sguardo io... non potrò mai dimenticare quello sguardo.»
Ma l'amica non poteva comprendere fino in fondo, anzi, stentava a credere che Sveva potesse barcamenarsi in un'altra storia disperata.
«No, non ci riesco», sbottò, facendosi seria.
«L'unica cosa che mi è chiara è che tu sei un caso disperato, mia dolce Sveva. Adesso che le cose si stanno mettendo per il meglio per Francesca e per te, cosa fai? Ti complichi la vita. Per cosa poi?»
«Quello sguardo, tu non puoi comprendere come mi guardava Benedetto.»
«È solo un sogno Sveva, avanti! Ed è ora che tu ricominci a vivere, a guardare oltre, a pensare al tuo futuro. Ma guardati un po': sei irriconoscibile, io stessa stento a farlo.»
Un groppo alla gola la lasciò senza parole. Poi tirò su col naso e incominciò a piangere. L'amica aveva aperto le braccia e in quel calore trovò conforto, non riuscendo più a trattenere la sua disperazione. Aveva voglia di sfogarsi, di liberarsi.
«Io sento di conoscerlo, di capire quel dolore e sento di dover fare qualcosa», terminò pensando al sogno e a quello che le era successo al convento.
«Tesoro», si girò l'amica che smise all'improvviso di accarezzarle la spalla.
Anche Sveva si scostò per asciugarsi le guance. Qualcosa attraversò gli occhi di Sveva: un luccichio diverso che l'amica notò. Una risolutezza che non poteva ostacolare e che non aveva mai visto prima.
Sentì di non poterla osteggiare, non ora, non in quella situazione. Era davvero turbata e sicura allo stesso tempo. Cosa avrebbe potuto fare dinanzi a così tanto accoramento?
Per sdrammatizzare incominciò a volteggiare su se stessa, mostrandosi in tutto il suo splendore. Poi, con un sorriso mellifluo, mentre si accarezzava il corpetto dell'abito fuxia che le sembrava cucito addosso, disse: «Non vorrai mica restare tutto il giorno così conciata? Odio la sciatteria; una bella doccia calda e un buon caffè ti faranno bene all'anima e non solo...»
Entrambe presero a ridere di gusto, mentre Betta mostrava a Sveva tutte le chincaglierie, frutto del suo ultimo shopping.
«Dovresti farlo anche tu, credimi! È liberatorio.»
E così, con un diverso spirito, si avviarono verso l'interno della casa.
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