31 Il Collegio di Suor Caterina

Sveva scostò la tenda di leggera organza e aprì le imposte che davano sulla parte posteriore della casa. Si sorprese, per la prima volta dopo tanto tempo, ad apprezzare quella vista che tanto l'aveva inorgoglita in passato. Da quella particolare angolazione era possibile vedere il giardino che circondava l'abitazione, il luogo ideale in cui amava rifugiarsi e godere di un silenzio assoluto, lontano dalla frenesia quotidiana. Profumi e colori si armonizzavano con la vegetazione rigogliosa per creare spazi che ben si fondevano con il paesaggio circostante.

Si voltò a guardare Betta che si era appena destata da un lungo sonno. Doveva ancora abituarsi a un'altra presenza in casa.
«Da quanto tempo sei sveglia cara? Sei riuscita a dormire?»

Gli avvenimenti del giorno prima l'avevano tenuta sveglia fino a tardi ma ciononostante Sveva era riuscita a riposare serenamente e si sentiva pronta per affrontare al meglio l'intera giornata.

Libera da ogni tensione, adesso era pervasa da scosse di profonda eccitazione. Decise pertanto di accettare l'invito di Suor Caterina per tenersi occupata: era il turno di Marco e sarebbe stato lui con Francesca in ospedale.
«Sì, ci sono riuscita... nonostante tutto. Hai già dato un'occhiata agli orari dei treni?»

«Cara la mia ragazza, non crederai di liberarti di me così facilmente! Se non hai nulla in contrario avrei deciso di trattenermi qualche giorno qui. Approfitterei per andare a trovare Sonia e Attanasio e magari vedere come si sono sistemati nella nuova abitazione. Sai, manco da Parma dal giorno del loro matrimonio. E poi non mi va di lasciarti sola.»

«Deciso: resterai qualche giorno qui; sono molto felice.»
Le due donne fecero colazione insieme, come ai vecchi tempi, e poi ognuna prese la sua direzione.

Una volta in strada, giunta quasi nei pressi del convento, potè osservare i nidi delle cicogne, di cui tanto le aveva parlato Suor Caterina: sapevano di fiabesco. Scorrevano velocemente quelle immagini sul parabrezza, come in uno schermo televisivo. Mentre guidava, Sveva poteva scorgerne di diversi: ora su di un comignolo, ora sopra un traliccio. In cima ad essi era poi ben visibile ciascuna coppia di quei volatili.
Il becco lungo, lo sguardo sempre vigile, a protezione della covata dalla quale i genitori non osavano allontanarsi fino al primo involo dei pulcini. Quello spettacolo era davvero suggestivo. Il cielo era terso e le nuvole, bianchissime, s'intonavano perfettamente con il piumaggio bianco di quegli uccelli. Non ci mise molto a raggiungere il Convento di Suor Caterina.

Dinanzi al grande portone di legno, ai due lati, erano piazzati in dei vasoni enormi due bellissimi alberi di Araucaria. Sveva non conosceva tantissime piante, ma sicuramente era stata sempre affascinata da quegli strani pini, dalle foglie spinose e taglienti. Da lì poteva benissimo ammirare il campanile della piccola chiesetta attaccata al convento.

Un uomo di mezza età, Ermanno, venne ad accoglierla per mostrarle appunto il convento, il chiostro e la fattoria didattica. Le suore erano riunite in preghiera, quindi avrebbe intrattenuto lui Sveva per almeno una mezz'oretta. L'impianto, seppur modificato, di quello che doveva essere stato prima un monastero femminile, conservava ancora la chiesa conventuale, e parte dell'edificio monastico, rimaneggiato nel corso dei secoli, sembrava tuttavia avere una nota di modernità, data forse dal contesto in cui il tutto era inserito. Si respirava una serenità indescrivibile.

Ermanno, che doveva essere una specie di tutto fare, si occupava dei piccoli lavori di manutenzione della struttura. Da quello che aveva capito Sveva, parte del convento era destinato a ospitare famiglie in difficoltà e tutti coloro che avessero voluto visitare la fattoria didattica per partecipare ai vari corsi. Un perfetto connubio tra natura e vita ecclesiastica, biodiversità e religione.

All'interno c'era anche una piccola mensa, gestita dalle suore, e un laboratorio per la trasformazione delle erbe gestito da Suor Natalina che, a detta di Ermanno, era davvero brava nella preparazione di infusi, estratti idroalcolici, sciroppi. Sveva ne fu colpita. C'era anche una piccola stalla con tre asinelli di razza ragusana e un piccolo spazio dedicato agli animali da cortile, creato nel corso degli anni grazie alla generosità dei volontari. Nella piccola stalla l'attrazione principale era comunque Martino, il piccolo asinello, venuto al mondo l'anno prima.

Mentre era affaccendata a guardare e ad ascoltare Ermanno, Sveva fu presto raggiunta da Suor Caterina che l'accolse con la dolcezza e l'affabilità di sempre.
«Come stai cara? Non sai quanta gioia mi dà vederti qui, davvero! Allora, il nostro Ermanno ti ha mostrato la nostra casa?»

«Sì, certo, ed è stato anche molto paziente e carino a rispondere a tutte le mie domande. È proprio bello qui. Il chiostro mi dà un senso di pace e poi ci sono le piante, l'orto e gli animali. È tutto bellissimo.»

«Sugli animali non avevo dubbi», sorrise la suora.

«E non hai visto nulla ancora, sai? I nostri laboratori sono innovativi. I giovani d'oggi passano troppe ore davanti ai computer. Il nostro intento è di coinvolgerli, staccandoli dalla loro vita così digitale. Siamo convinte che i ragazzi debbano sporcarsi le mani, raccogliere le uova, respirare i profumi della natura... Solo così sarà possibile raggiungere il nostro obiettivo.»
Sveva era entusiasta di tutta quella attività, di tutte quelle spiegazioni.

«Bene cara, adesso voglio farti conoscere Suor Natalina. Vedrai che spettacolo!»

Passarono per il refettorio. Era enorme e luminoso. Nel lato più corto, essendo un rettangolo, c'erano tre grandi finestre e, poste dinanzi a esse, c'era un tavolo con quattro postazioni, destinato forse alle grandi personalità. Lungo tutto il perimetro, disposti a ferro di cavallo, c'erano tutti gli altri tavoli. Sopra le tre finestre troneggiava un enorme quadro con rappresentata l'ultima cena. Il pavimento color miele, probabilmente in cotto, rifletteva la luce e rendeva l'ambiente più caldo.
«Pranzeremo qui», disse la suora.

Passarono per un lungo corridoio: qui la pavimentazione in graniglia, color giallognolo, era decorata da ornamenti floreali. Arrivarono in cucina. La sensazione di freschezza che si avvertiva, nonostante il mix di materiali tradizionali, era immediata: c'era del mobilio in bianco decapato, alternato qua e là da ripiani marroni, attualizzato ancora di più dalla presenza del ferro tinto nero delle sedie con sedute in paglia e da una grande porta, completamente in vetro, con profilati sempre in ferro battuto tinto nero. In sostanza erano due grandi stanze comunicanti. Qui la graniglia era rossiccia, con decori a scacchi nero e bianco.

Il tutto era abbellito da due grosse piante di ficus indiani, dalle foglie carnose e verde brillante, con germogli di color rosso. Entrava una bella arietta dalle porte finestre che qualcuno aveva lasciato socchiuse.
Le tende trasparenti in lino le ricordavano tanto, assieme al pavimento, la casa della nonna. Si muovevano leggere e lasciavano intravedere il piccolo terrazzo ricco di piante aromatiche.

Mentre Sveva cercava di sbirciare e andare con lo sguardo oltre quei vetri, apparve lei, Suor Natalina, con un cespo di alloro in una mano e una pianta di rosmarino nell'altra.
«Oh cara, eccoti. Tu devi essere Sveva?» si affrettò a dire liberandosi le mani.
Si sciacquò, si asciugò sul grembiule che indossava e la baciò. Aveva gli occhi tondi, lo sguardo vispo e la pelle che sapeva di sole, di piante, di natura.

Tutta quella cucina sapeva di buono. Anche quel bacio la rimandò alla nonna, quando l'aiutava da piccola a fare le conserve di salsa, e tutto in casa era un fermento. Erano giorni di eccitazione. Anche in casa della nonna c'era un bel terrazzo, usato in quelle occasioni per bollire, in grandi pentoloni, la salsa. Lei era l'addetta al basilico: asciugava le foglioline che venivano posizionate da lei stessa in ogni singola bottiglia. Le piaceva vedere i tappi, dalla forma a corona, raggruppati nelle buste di plastica.
Che bei profumi!
Che bei momenti!

«Abbiamo pregato per te cara, tanto. Ma perché sei giù, tesoro? Non sta andando tutto per il verso giusto?»
In effetti quell'episodio verificatosi in ospedale non era stato un avvenimento isolato e Francesca iniziava a rispondere ad alcuni stimoli, ora stringendo la mano, ora muovendo le dita dei piedi, ma la ripresa era davvero lenta e Sveva non sapeva ancora cosa aspettarsi.

La suora, vedendo diventare triste lo sguardo della donna, si affrettò a cambiare subito discorso.
«Sai cosa farò con questo rosmarino?»

E così, senza aspettare di avere una risposta, prese a elencare le mille proprietà di quella pianta, cosmetiche e officinali. Parlarono a lungo. Le fece vedere la sua dispensa, con tutte le meraviglie contenute all'interno. Sveva fu attirata dall'etichetta di uno di quei barattoli.
«Rosa canina», lesse ad alta voce. All'interno soltanto frutti rossi essiccati.
«Prendilo pure, cara. Le tisane hanno un effetto stimolante. Vedrai che ogni problema, ogni difficoltà ti sembrerà superabile.»

L'aiutò in cucina, affettò, tagliò le patate. Era bello stare lì.
Chi l'avrebbe mai immaginato?
La suora poi insistette perché vedesse il suo roseto, prima di pranzare. C'erano rose di tutti i colori, rampicanti, a cespuglio. Il profumo era delicatissimo e inebriante. La suora le parlò delle proprietà e del significato dei colori delle rose.
«Ma chissà quante ne avrai avute tu, bella come sei!»

Sveva pensò che quella donna, così esile e longilinea, avesse una vitalità e una forza incredibile, e che non avrebbe mai finito di parlare se non fosse stata interrotta da qualcuno. Pensò a Marco, alle Camelie che le aveva regalato qualche anno prima e che avevano piantato in piena terra: uno dei suoi tanti gesti romantici.

Mentre era assorta in queste sue considerazioni e si accingeva a rientrare nelle cucine, arrivò Ermanno, tutto sudato e trafelato, paonazzo per la corsa improvvisa. «Non riesco a entrare nella stalla, probabilmente qualcuno l'avrà chiusa dall'interno.» Il volto di Suor Natalina, prima sereno, si oscurò all'improvviso.
«Benedetto!» urlò.

Poi rattristata: «L'ha fatto ancora!»
Chiese allora a Sveva se poteva avvisare Suor Caterina perché portasse avanti il pranzo, e si dileguò impaurita verso la stalla.

Arrivarono dinanzi al piccolo ricovero. Nel frattempo anche Sveva, impressionata dal terrore che aveva letto negli occhi di Suor Natalina, aveva deciso di raggiungere il posto indicato dall'anziano. Ermanno tentò di aprire con forza la porta, ma non ci fu niente da fare: era sbarrata.

L'unica alternativa era rappresentata dalle piccole finestre poste sul retro della costruzione. Ci fu un suo primo tentativo, purtroppo non andato a buon fine: lo spazio era troppo piccolo per lui. Poi fu la volta della suora, ma Sveva, vedendola in difficoltà sulla scala, non esitò a lanciarsi.

Per lei, che si era spesso arrampicata sugli alberi per salvare qualche pulcino in difficoltà o per creare piccoli nidi artificiali sotto i capanni dell'Oasi di Orbetello, quello era quasi un gioco da ragazzi. Con un salto, tra lo stupore dei presenti, fu subito dentro. Ascoltava a mala pena le voci che, da fuori, cercavano di guidarla, quando all'improvviso, appena si fu abituata a quella oscurità, vide nel buio due occhi spalancati. Un ragazzo era sdraiato per terra, il viso sporco, forse dalla terra.
«L'ho fatto ancora, non volevo.»

«Cosa hai fatto, non capisco? Stai bene?»
Non circolava aria. Sveva percepiva il movimento degli asini, a malapena visibili, e l'umidità della paglia sotto le sue ginocchia.
«Dobbiamo uscire, fa troppo caldo qui.»

«Oh ti prego, non sono pronto. Non posso», disse il ragazzo trattenendola con un braccio.
«La delusione negli occhi di tutti, di Suor Natalina, non voglio, non posso vederla ancora.»

Intanto da fuori, preoccupati, chiamavano tentando di avere delle notizie.

«Benedetto, dobbiamo andare, su, alzati!» disse Sveva cercando nel buio il braccio del ragazzo. Ma la sua voce diventava sempre più flebile.
«Potrà Suor Natalina perdonarmi? Dirai che le ho voluto bene?»

Sveva ormai sembrava non ascoltarlo più. Lì dentro il caldo era diventato insopportabile. Un ultimo tentativo... Ecco, lo trovò. Afferrò il braccio del ragazzo che era umido, bagnato. Non capiva...
Un brivido la colse.
Quell'odore acre...
Per un attimo restarono entrambi col sospiro sospeso. Poi, a quello che fino a qualche attimo prima sembrava un brutto presentimento, seguì la tragica illuminazione, come una folgorazione.
«Cosa hai fatto, oh mio Dio!»

Lo scosse cercando il capo. Nel frattempo Ermanno, chiamati i rinforzi, buttò giù la porta. Fu luce all'improvviso, quasi accecante come era assordante il rumore di quel silenzio. Il ragazzo non parlava più. Un grido, quasi trattenuto...
Suor Natalina si lanciò sul ragazzo.

«Benedetto, bambino mio!»

Lo scosse, lo baciò.
«Cosa hai fatto, Benedetto. Sono qui... Signore ti prego... Benedetto!» gridava la suora.
Un medico, giunse. Si chinò su quel corpo, pochi movimenti... poi, guardando i presenti e Sveva che era lì immobile, in piedi, disse: «Respira ancora...»

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