28 L'ultimo tentativo

Chi siamo noi per decidere il destino degli altri? Quale potere ci viene concesso? È giusto trattenere qualcuno sulla terra senza il suo volere? È altrettanto corretto lasciarlo andare? È possibile, in taluni casi, parlare di "accanimento terapeutico"? Betta non lo sapeva, così come non era dato saperlo a Sveva.

Un dolore sconfinato, senza limiti, un'esperienza emotiva devastante era impressa nel volto di Sveva. No, Betta aveva sbagliato, aveva temuto una brutta notizia, quella di una perdita, ma questa, la comunicazione appena giunta, a stento decifrabile dalle parole di Sveva, era più sconvolgente di quello che si sarebbe aspettata, e forse avrebbe distrutto rovinosamente e irreversibilmente la vita di molte persone.

Proprio così...
Perché è possibile in qualche modo accettare la morte di qualcuno, finanche di un figlio, ma non è altrettanto facile, anzi è quasi impossibile, decidere di lasciare andare via per sempre un proprio caro. È un dolore che uccide il cuore e la mente, perché dietro di sé nasconde due grandi interrogativi: far cessare la sofferenza, propria e dell'amato, ma nello stesso tempo dare fine alla vita altrui.

È un dolore non fisico, no, perché per quello c'è sempre un rimedio, ed è fisiologico il percepirlo, rappresentando il segnale d'allarme per evitare un maggior danno, bensì una lesione dell'anima, capace di lasciare segni indelebili e invisibili. Eppure Betta ne vedeva i tratti, poteva quasi toccarlo quel dolore. Sveva piangeva, a dirotto, asciugando le lacrime sulla sua stessa spalla. Lo faceva mestamente.

Si dannava, non potendo proprio sopportare quella sofferenza. Betta non l'aveva mai vista così. Teneva quel foglio tra le mani, accarezzando quelle immagini con le dita. In quel foglio c'era tutta la sua vita, i suoi più grandi amori: Marco e Francesca.
«Cosa devo fare? Io non ci riesco... È la mia bambina, la mia bambina. Perché sono stata punita così? Perché non si è portato via me? Lei era una bambina, dannazione!»

«E lo è ancora», disse Betta avvicinandosi con cautela.

«E tu ne sei sicura?» diceva mordendosi le labbra. Era lacerata, logorata. Betta poteva scorgere nei suoi occhi un dolore insano, di quelli che non si rimarginano, di quelli che ti portano via il senno.

«Non è più una bambina, no, non lo è più.»

L'assenza di quella creatura aveva quasi distrutto la vita di Sveva, ma la sua determinazione, dettata dalla speranza che un giorno le cose potessero cambiare, aveva fatto sì che il passato non rovinasse il suo presente, non del tutto almeno, dandole deboli speranze: illusioni.

Era sopravvissuta sì, ma lo aveva fatto con dignità, a volte cedendo alla tristezza, alla malinconia e allo scoramento, altre tentando di rifarsi una vita che non somigliasse a un goffo tentativo di non cadere, quanto piuttosto a un coraggioso modo di restare in piedi. Ora che le cose sembravano precipitare, ora che pareva non esserci un futuro, c'erano ombre di follia nei suoi occhi. Betta la guardava con terrore.

«Io le parlo ma lei non mi risponde. Sentirà il mio amore quando l'accarezzo? Di sovente mi capita di farle delle domande, sai? Domande inutili.»
Cedette poi alla stanchezza, allo sconforto.
«Sono soltanto un'egoista... Lei vorrebbe correre e io la tengo legata a quel letto, costretta a sentire la sua mamma che soffre mentre forse vorrebbe sentirmi ridere.»

«Già», disse Betta.
Sarebbe riuscita in quel momento a sopportare tutto quella donna, anche la perdita di quella bambina, e persino di veder trasformare la lotta dell'amica, la battaglia di Sveva, in un dolore sordo e persistente, simile a una resa, ma non si sarebbe perdonata mai di non aver provato a fare qualcosa, qualsiasi cosa, un ultimo tentativo, disperato forse, ma che avrebbe potuto dare una speranza a quegli occhi accecati, persi nel buio.

Una piccola luce nell'oscurità più tetra. Ma lei, Betta, non era un medico, non era nessuno. Si lasciò cadere su una poltrona di vimini, abbattuta, sconfitta. Guardava oltre la finestra le gazze ladre saltellare lungo il prato.

Le verrà naturale... aiutare le persone che amiamo. Non abbia paura!

Le parole di Rashad le risuonavano nella testa, come un mantra.

Poi guardò Sveva, il disegno, ancora Sveva.

Come aveva fatto a non pensarci?

Osservò quel foglio ancora per un attimo, poi disse:

«Quanto tempo abbiamo?»

Sveva che ancora si disperava, piangendo e tormentandosi le mani, ebbe quasi un sussulto, tanto fu sorpresa dalla strana domanda e dal tono con cui era stata proferita.

«Cosa significa?» disse cessando immediatamente di piangere.

«Niente, ho avuto un'idea, forse non è nulla, ma a ogni modo sento che dovremmo provarci.»

«Cosa vuol dire ho avuto un'idea? Mia figlia è attaccata a delle macchine e a te viene un'idea? Bella questa, un'idea. Lei ha avuto un'idea. Me lo vuoi spiegare il significato?» disse alzando la voce, quasi in preda ad una crisi isterica, reagendo a quelle parole in maniera incontrollata.
Aveva uno sguardo talmente sprezzante da far paura.

«Abbi fiducia in me», le disse prendendole il volto tra le mani.
Sveva si girò di scatto, velocemente, mettendole le mani sugli avambracci, quasi a volerele impedire qualsiasi azione, quasi ad evitarne lo sguardo, ma quella insistette.

«Forse non succederà nulla, anzi probabilmente non avverrà nulla di diverso, niente di quello che abbiamo sperato per giorni, che dico, per mesi, ma almeno ci avremo provato. Dammi ascolto, fidati... E ti assicuro che non sarà un modo per liberarsi la coscienza, ma per non avere il rimpianto di non aver cercato fino alla fine di cambiare le cose.»

«E se avessi il rimorso di aver fatto qualcosa che non avrei dovuto fare? Io non potrei mai perdonarmelo!»

«Ascoltami cara e correggimi se sbaglio... Un team si esprimerà per decretare... » ebbe un attimo di tentennamento, poi continuò, «non farmelo dire, abbiamo capito entrambe. Cosa potrebbe peggiorare? Ripeto, non voglio illuderti, è un tentativo disperato e se dovessimo chiedere una qualche autorizzazione forse non ci sarebbe concessa. Te lo chiedo di nuovo: quanto abbiamo perché si esprimano in merito, quanto ci manca?»

Parlavano della possibilità che fosse dichiarata la morte cerebrale di Francesca. Marco, per vie trasverse, aveva saputo che, non essendosi verificata alcuna reazione della bambina a nessun tipo di stimolo, si stava pensando di fare un test per proclamare il triste verdetto.

«Credo meno di ventiquattro ore e poi...»

«Poi?»

«Poi la terrebbero in vita tramite dei macchinari esclusivamente per mantenere ossigenati gli organi, in vista di un trapianto.»

«E allora avvisa i tuoi, dobbiamo fare in fretta.»

Sveva si asciugò le lacrime, ma non aveva ancora ben capito cosa avrebbero dovuto fare.

«Cosa faremo una volta a Parma ma soprattutto come farai con Lorenzo? Io non voglio crearti problemi, non mi va di...»

«Tu non devi preoccuparti di nulla. Lorenzo sarebbe andato in campeggio con i nonni domani: quindi di fatto non cambierà nulla. Io sono in ferie... Dammi il tempo di avvisare Maurizio e poi sarò da te. Tu dì ai tuoi di mettere tutto in valigia. E basta con le lacrime!»

E così, svolte le ultime incombenze, si avviarono alla volta di Pisa.

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