20 Quella strana situazione
Sveva era ancora incredula: quell'atmosfera era surreale. Cosa ci faceva lei seduta a un bar, con uno sconosciuto, ancora non se lo spiegava. Eppure nessuno l'aveva costretta e la cosa assurda era che ancora continuava a chiederselo.
La risposta che si diede fu che il suo era semplicemente un comportamento assertivo: non faceva altro che mantenere un atteggiamento comprensivo nei confronti del genere umano e in particolare, in quella circostanza, di quell'individuo.
Si domandava quali potessero essere le ragioni che stavano alla base di una determinata condotta.
Perché l'altro dice queste cose, si comporta in questo modo?
Lei stava semplicemente tentando di rispondere a questi interrogativi, sospendendo ogni qualsivoglia pregiudizio verso quell'uomo, evitando di lasciarsi irretire da preconcetti insulsi.
Era sempre stata una ragazza proattiva, in grado cioè di gestire ogni emozione. Non doveva preoccuparsi adesso delle opinioni e delle valutazioni altrui.
Lei aveva quella, che nella teoria assertiva, si definisce "abilità di risposta": la capacità di scegliere la risposta più adatta in ogni situazione e la controreazione più ovvia a quell'invito era senza dubbio accettarlo.
In fondo faceva caldo; avrebbe preso un caffè d' orzo o qualcosa di fresco. Certo, doveva essere andata proprio così, si disse. Forse quell'uomo era una persona insicura, che cercava di celare le sue debolezze con quel modo di fare un po' spavaldo e lei non stava che agendo per il suo bene.
Ecco perché faceva lo psicologo. Aveva sempre pensato che i deboli scegliessero quel ramo della medicina per conoscere se stessi. Dunque spiegato quel profumo così intenso, così forte, così accentratore; si trattava senz'altro di essenza di Vetiver o al massimo di Bergamotto. Sì, senz'altro la situazione andava interpretata in questo modo. Aveva letto da qualche parte che il Vetiver, con quel suo richiamo alla terra, alle origini, con quelle note di sottobosco, infonde in chi lo indossa un senso di sicurezza.
Forse quel Rashad, dietro le apparenze, nascondeva insoddisfazione per una carriera mal riuscita, per gli insuccessi lavorativi.
Con tutti quei pensieri che le frullavano per la testa non si era accorta della presenza di Rashad che, tornato al tavolino, la stava guardando attentamente.
«Si sente bene?» si affrettò a dirle.
Lei avvampò; non si era accorta del suo ritorno e sapeva che, a detta di molti, diventava buffa quando pensava: il suo volto cambiava continuamente espressione e mal riusciva a celare i suoi stati d'animo.
«Sì, sì, pensavo. Cioè...»
«In tutta la mia carriera non mi è mai capitato a tiro un soggetto come lei... Potrebbe essere oggetto di studio.»
Questa volta era davvero offesa.
«Facevo bene a pensare...»
«A pensare cosa?»
«Che non avremmo dovuto allontanarci, che siamo qui e non abbiamo avvisato l'autista, che tutto questo è incredibile!»
«Ha finito o deve ancora continuare?»
«Lei non mi conosce affatto!»
«Ed è qui che si sbaglia: lei è un libro aperto per me. Il classico tipo lamentoso, che rimpiange per tutta la vita di non aver fatto quello che avrebbe tanto voluto fare, incapace di prendere le decisioni senza pensare al giudizio degli altri. È lì che rimugina sul da farsi... Ho fatto bene, avrò preso la scelta sbagliata? E intanto la vita trascorre inesorabilmente. Cos'è che l'angoscia? Crede di poter risolvere, stando con le mani in mano, tutti i suoi problemi? Crede che prendendo Rescue Remedy tutto si sistemerà magicamente e la sua vita tornerà come prima? Tiri fuori la grinta e abbia il coraggio delle sue azioni! Forse un tempo non era così ma è quel che vedo adesso.»
Fece una pausa scrollando il capo, poi riprese in tono sempre di rimprovero ma più pacatamente.
«Lei è qui perché voleva venire qui, a dispetto di tutto e di tutti. Non si dia una giustificazione.»
Adesso Sveva piangeva, disperata. «Faccio pena anche a lei che non mi conosce e anche a me che piango di fronte ad uno sconosciuto, senza averne un motivo.»
Rashad si alzò, le si sedette vicino, l'abbracciò e lei appoggiò la testa sulla sua spalla.
«Lei non mi fa pena, tutt'altro. Glielo assicuro. Io credo che lei stia attraversando una particolare fase depressiva.»
«Ho la depressione?» disse soffiandosi il naso come una bambina.
Aveva le gote rosse e i capelli, così arruffati, la facevano assomigliare a Meg Ryan in "Insonnia d'amore".
«No, io credo che lei si trovi in una fase negativa temporanea, dovuta a mancanza di sonno e a stress post trauma. Ha capito?»
«Sì.»
«Ma che cosa esattamente la tormenta?»
«Mio marito... Dice di non amarmi. Cioè, in realtà, non ha mai detto di non amarmi, ma semplicemente che non può ritornare da me.»
«Lei si è fatta un'idea di questa cosa? Si è data una spiegazione? La colpa non è mai di una sola persona... Nella coppia si sbaglia in due. È un continuo cedere a compromessi, scendere a patti senza invadere troppo lo spazio dell'altro.»
La guardava affettuosamente. Poi aggiunse: «Potrebbe esserci un'altra nella sua vita?»
«Nella mia?» chiese Sveva, continuandosi a soffiare il naso, gli occhi gonfissimi.
«Ma no!» rise il dottore di gusto, «a meno che lei non abbia delle propensioni particolari.»
«Certo che, se così fosse, sarebbe un vero peccato», le sussurrò nell'orecchio.
Sveva però, allontanandosi d'istinto, rideva e piangeva allo stesso tempo.
«Non credo. Mia figlia è in coma in ospedale...»
«Uhmm, mi spiace tantissimo», disse il dottore cambiando espressione.
«Forse io gli ho dato la colpa dell'incidente. In realtà è stata colpa sua. Forse lui ha una donna: la sua ex fidanzata. Lo diceva anche mia suocera ma in realtà anche Giorgio... Non riesco neanche a capire perché sto affrontando con lei questi argomenti.», concluse in un momento di lucidità.
«Ma lei crede davvero sia colpa di suo marito? Come sono andate le cose? Intendo la dinamica dell'incidente... Le va di raccontare?»
Sveva si rese conto quasi di non ricordarla. Cioè ricordava a memoria quello che aveva sempre detto, la ricostruzione che aveva fatto di quell'avvenimento, cristallizzato ormai nella sua mente, ma non ricordava più l'evento stesso. Era così stanca...
Forse aveva rivissuto quella scena talmente tante volte, anche nei sogni, che adesso la sua mente si rifiutava di ripercorrere quelle immagini.
«È difficile per me... ehm... io non è che non ricordi, ma l'ho raccontato così tante volte che adesso ho in mente soltanto quello che ho sempre detto.»
«Certo. Allora mi dica di Giorgio... Sì, mi parli di lui!»
«Giorgio è un nostro caro amico. In realtà è anche il nostro giardiniere. Comunque, a dirla tutta, non è stato lui a vedere mio marito con un'altra donna ma sua moglie che attualmente aspetta un bimbo.»
«La cosa si fa davvero interessante», ammise l'uomo.
«Ma erano in atteggiamento intimo suo marito e questa donna?»
«Noo», rispose indignata, tra uno sbadiglio e l'altro.
«Quindi ricapitolando: lei crede che suo marito non provi più nulla per lei, ma forse per una fantomatica donna, forse l'ex ritornata dal passato, vista da sua suocera ma forse anche da Giorgio o meglio non esattamente da lui ma dalla moglie in stato interessante. Oggi è qui a parlare con me, alla volta di Pisa, mentre sua figlia è in ospedale in coma.»
«Ma dico - Sveva rinsavendo - ma lei ci gode così tanto a vedere soffrire il prossimo, a vederlo stare male? Lei è...»
Gonfiò le guance per dire le cose più offensive che le venivano in mente. Tutt'a un tratto l'illuminazione.
«È per questo che ha messo il Vetiver, giusto?»
«Prego?»
«La sua essenza è al Vetiver?»
«Sì... è...»
«Ne ero sicura!», lo interruppe lei.
«Chiedo scusa?»
«Niente, è una cosa mia.»
Rashad era sempre più colpito.
«Il Vetiver è una pianta dalle radici robuste», spiegò.
«È in grado di combattere l'erosione del terreno. Mia madre, marocchina, ma con origini indiane, lo chiama Khus. Pare sia in grado di smorzare la calura estiva ed io soffro molto il caldo... è per questo che lo uso. Gli indiani, a questo scopo, utilizzavano stuoie di Khus nelle loro case. Uno spruzzo di acqua aromatizzata era sufficiente per impedire al caldo vento estivo di entrare nelle dimore.»
«Ma poi, di che stiamo parlando? Devo dirle, comunque, che ha la capacità di passare da un argomento all'altro così velocemente da confondermi.»
Ma ormai Sveva, posata nuovamente la testa sulla spalla del medico, si era all'improvviso addormentata, e questa volta pesantemente.
Rashad era fortemente imbarazzato e anche divertito. Assecondò per un po' i suoi bisogni. Intanto fece cenno a un inserviente di portargli dell'acqua ma, quando fece per prendere il portafoglio dal taschino interno della giacca, si rese conto di averlo lasciato imprudentemente sull'autobus. Non gli rimaneva che svegliare quella donna, se non voleva ritornare indietro verso l'autobus: ormai si stava facendo davvero tardi e, vuoi per curiosità, vuoi per deformazione professionale, avevano parlato davvero tanto, intrattenendosi fin troppo. Così prese a tossire, simulando un attacco di tosse.
«Accidenti», disse Sveva, vedendo l'alone che aveva lasciato sulla giacca dello sconosciuto.
«Sono imbarazzata, mi spiace così tanto ma qui dentro fa davvero caldo. Quanto tempo siamo stati qui?»
«Anche troppo», disse alzandosi e correndo verso l'uscita.
L'autobus aveva ripreso la sua corsa alla volta di Pisa. A nulla servì sbracciarsi e sgolarsi. Nessuno si era accorto di loro, tanto più che entrambi viaggiavano al secondo piano del mezzo, trattandosi di un bipiano e lì, oltre loro, non c'era nessuno.
Cosa avrebbero fatto adesso?
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