~ Capitolo uno ~
Le stagioni si susseguivano lente e monotone, tutte uguali tra loro. Primavera, estate, autunno e inverno si alternavano regolarmente, in un ritmo marcato e battente. Ma così come la nebbia avvolge ogni cosa, nascondendo agli occhi la verità, un velo di ignoranza era sceso sui membri del popolo, che non sapevano più distinguere né gli anni, né i mesi, né i giorni, né le ore. Tutto avveniva, ma era come se nulla fosse successo. La vita era come un'effimera illusione, qualcosa che ha un inizio e una fine compresi in un singolo, minuscolo istante. La memoria andava dispersa nel vuoto, i ricordi cancellati, e solo il cielo infinito sembrava conservare impresso nelle stelle il destino incerto di ogni singolo uomo. Solo lui sembrava curarsi di quegli esseri senz'anima. Ma non tutti erano avvolti dalla dimenticanza, non tutti gli spiriti erano assopiti, raggomitolati da qualche parte nei cuori spenti della gente.
In un freddo giorno di un mese imprecisato, in un anno indefinito e disperso nell'impetuoso fiume del tempo, ha inizio la nostra storia, quella di un ragazzo come tanti altri che aveva scoperto di essere qualcosa in più.
In quel giorno lontano, il gelo, come sempre, impregnava l'aria umida del villaggio. Uno strato di soffice neve bianca ricopriva i campi, infondendo in chi la guardava una certa pace in mezzo a quel desolato paesaggio. Eppure nessuno ci faceva particolarmente caso, continuando imperterrito a camminare, lasciando orme profonde e scure sulla terra, unico segno del suo passaggio, che presto sarebbero state ricoperte da altra neve.
L'atmosfera era oscurata e incupita da una fitta nebbia. Non una luce si poteva scorgere tra quella coltre grigia e silenziosa, che avvolgeva tutto come una spessa coperta di ghiaccio.
Lassù nel cielo, però, si intravedeva la torre alta e rigida di un castello, che svettava nel cielo come una montagna. Il palazzo se ne stava lì, fermo, a vegliare sul villaggio, che assomigliava a un popolo di umili servitori inchinato di fronte al suo sovrano.
Il vento soffiò turbinando tra l'oscura foschia, andando a bussare alla finestra della torre. I fruscii delle foglie penetrarono in un soave canto all'interno delle dure pareti del castello, arrivando alle orecchie di un giovane che giaceva assopito su un comodo e caldo letto a baldacchino.
Le preziose lenzuola di raso ricadevano morbide ai lati della struttura in pregiato ebano, e risaltavano col loro bianco luminoso sul nero penetrante del legno. Una coperta di cashmere rosso e bianco avvolgeva il corpo del fanciullo, che si crogiolava in quel piacevole tepore, godendosi quegli ultimi istanti di sonno prima di svegliarsi.
Mugugnò a udire il suono del vento sbattere contro la finestra in legno variopinto e rinunciò ad aprire gli occhi. Affondò di più la testa nel cuscino, portandosi le coperte fin sopra la testa.
«Oh, sempre il solito vento fastidioso. Non potrebbe andarsene a soffiare da un'altra parte?» biascicò il ragazzo con la voce impastata dal sonno.
Cominciò ad agitarsi e a lamentarsi sempre di più, ma quegli sbuffi di gelida brezza continuavano il loro fastidioso canto. Il vento sembrava quasi chiamarlo, ma lui cercava di ignorare quei richiami. Lo sbattere della corrente si fece più forte e ripetitivo, come se, esasperata, stesse continuando invano a cercare di richiamare l'attenzione del ragazzo.
A quel punto il giovane, a malincuore, dovette aprire gli occhi. Li puntò per un attimo sul mosaico che decorava il soffitto della sua immensa camera da letto dalle pareti decorate da eleganti spirali dorate e argentate. Esso raffigurava un guerriero armato di spada e di lancia a cavallo di un drago dalle ali blu come il mare, puntinate di tanti piccoli cristalli luminescenti, simili a piccole gocce di pioggia. Era una creatura bellissima e maestosa, dalla cui ampia e appuntita bocca fuoriusciva uno sbuffo di fumo, sempre di colore blu.
Lui non aveva mai visto uno di quei magnifici animali, e avrebbe tanto desiderato poterne cavalcare uno. Suo padre gli raccontava mille leggende sui draghi, e lui lo guardava sempre con occhi incantati, immersi in un mondo da lui inventato. In quel giovane guerriero vedeva se stesso, il suo futuro. Nel suo universo parallelo si ritrovava a volare sulla groppa del più forte dei draghi, che piroettava leggiadro nel cielo come un leggero passero. Si immaginava quella sensazione di libertà che si prova ad essere sommersi nel cielo, circondati dal nulla, col vento che sbatte violento contro il viso e gli occhi pungolati dai colpi dell'aria.
Gridava forte il suo nome al vento nei suoi sogni a occhi aperti, e il vento gli rispondeva come un amico fedele. Alzava le braccia verso l'alto, si godeva il volo, e rideva, rideva come un pazzo. La sua spada fendeva l'aria, e il mondo si inchinava al suo cospetto. La sua espressione diveniva seria, imperiale. Si sentiva potente, come un sovrano. Tutto gli apparteneva: con un solo gesto, poteva ordinare al vento di frenare la sua corsa infinita, o comandare al mare di innalzare il suo livello, o addirittura al tempo di arrestarsi.
"Sì, questo sarà il mio futuro" pensò, lasciando che un sorriso si dipingesse sul suo volto roseo e giovanile, per poi spegnersi un istante dopo. Guardò ancora per un secondo il mosaico, poi voltò lo sguardo.
Perso ormai l'interesse di continuare a dormire, il fanciullo decise di alzarsi dal letto e di affacciarsi dalla finestra. Non appena i vetri colorati si aprirono, una ventata di freddo gli colpì il viso, facendolo tremare leggermente.
«Accidenti, fa proprio freddo oggi!» esclamò stringendo le braccia attorno al corpo nel tentativo di riscaldarsi.
Allungò poi una mano fuori dalla finestra e percepì sulla pelle pallida e delicata l'umidità di quella fitta nebbia.
«Ancora questa nebbia. Che noia...» borbottò ruotando gli occhi e continuando ad agitare il braccio fuori dalla finestra, come a voler spazzare via quella coltre di nuvole basse e grigie. A un certo punto la foschia cominciò a diradarsi piano piano. Il ragazzo ritrasse subito la mano, sconvolto da quel repentino cambiamento climatico.
«Cosa... cosa è successo?» si chiese guardandosi le mani ricoperte di goccioline di nebbia liquefatta, che già iniziavano a sparire, vaporizzandosi e volando via come finissima sabbia. Strizzò gli occhi più volte e guardò nuovamente fuori, ancora incredulo, e vide che le nuvole basse e umide erano tornate a oscurare il cielo.
Pensò subito si fosse trattata di un'allucinazione. Come poteva anche solo aver pensato di essere lui stesso, un giovane inesperto, il responsabile di quel fenomeno misterioso?
Si riaffacciò alla finestra, esponendo l'intero capo al gelo mattutino, e il vento gli arruffò i capelli neri come il carbone. Inspirò profondamente, permettendo all'aria fresca di penetrare nei suoi polmoni, per poi espirare con altrettanta velocità. In quel paesaggio desolato vedeva la sua casa, il suo mondo, il suo punto di riferimento fisso. Per quanto triste potesse essere vivere perennemente avvolti dall'oscurità, il ragazzo si trovava bene lì. Da una parte sentiva il bisogno di andarsene, di allontanarsi da quel suo piccolo nido, per scoprire cosa c'era oltre le montagne che da sempre dominavano la vallata nella quale viveva. Ma l'uccellino, nonostante la sua mente piena di sogni, non aveva il coraggio di spalancare le ali e di volare verso il traguardo ignoto del suo destino.
"Perché arrischiarsi - pensava - se si può evitare il destino? Ci penserò quando sarò pronto. Per ora, è sufficiente crogiolarsi nei sogni. Intanto, i sogni difficilmente si avverano, specialmente in un mondo difficile come questo. Là fuori c'è solo l'ignoto. L'ignoto fa paura, l'ignoto porta morte".
I suoi occhi si fermarono sul manto bianco di neve che rivestiva la terra. Sul suo viso si dipinse un'espressione gioiosa, proprio come quella dei bambini giocosi.
«Finalmente è nevicato! Dopo giorni e giorni di oscurità, ci vuole proprio un po' di allegria» gridò dimenticandosi dei suoi pensieri e del freddo che gli pungeva il volto.
Emozionato, corse ad afferrare un paio di pantaloni neri, comodi e caldi, e una maglia di soffice e pregiato cashmere, di colore blu. Indossò inoltre un mantello, sempre di colore nero, in modo tale da proteggersi dal freddo penetrante delle Montagne di Ghiaccio.
Corse rapido fuori dalla sua stanza, ignorando i passi del valletto che stava venendo a svegliarlo e vestirlo.
«Signorino Erik! Dove state andando così di corsa? Scommetto che vostro padre non approverebbe a vedervi correre in questo modo per il castello» gridò l'uomo rivolto al giovane. I suoi capelli scuri come il legno di noce gli formavano una cornice riccioluta attorno al volto paffuto, mentre due occhi color castagna scrutavano con attenzione il corpo slanciato del ragazzo che sfrecciava per gli stretti corridoi del castello, rapido e agile come un cavallo.
Il ragazzo, Erik, si voltò verso di lui, rivolgendogli poi un sorriso beffardo: «Lascia perdere, signor Shaze. Mio padre mi conosce più che bene e approva il mio comportamento. E ora, se ne vada e la smetta di importunarmi». I suoi vispi occhietti risplendevano vivaci, come fiumi illuminati d'argento dai raggi del sole.
«Ma, signorino Erik...» borbottò il valletto strascicando incerto le parole. Cominciò a rigirarsi tra le dita un lembo della livrea nera pece, ragionando attentamente su come avrebbe potuto reagire alla provocazione del giovane irrispettoso. Alla fine, decise di tacere e abbassò la testa, sconfitto: era consapevole del fatto che il ragazzo aveva ragione. Il padre gli lasciava fare di tutto e soddisfava ogni suo capriccio.
Ormai il fanciullo stava diventando irritante con quel suo atteggiamento strafottente: non portava più rispetto a nessuno, neppure al padre che si impegnava tanto per compiacerlo. Non faceva che gironzolare per il palazzo e combinare disastri. Ogni volta lo scovava mentre correva rapido come un fulmine per i corridoi del castello, senza curarsi degli oggetti che talvolta, incurante, lasciava cadere a terra. Intanto era consapevole che la colpa se la sarebbe addossata qualche ingenuo domestico.
«Proprio la reazione che mi aspettavo» ridacchiò Erik guardandolo con sguardo di superiorità, tenendo il mento sollevato. Il suo cuore si riempì d'orgoglio e la gioia per quella piccola vittoria cominciò a inondargli le vene. Riprese quindi a correre più veloce di prima, urtando erroneamente con un braccio un prezioso vaso di cristallo, che sembrava riflettere la luce, risultando brillante come una stella. Il suo valore doveva essere elevatissimo, e solo un sovrano poteva possedere una quantità d'oro così grande da poter pagare un vaso del genere.
Shaze balzò in avanti rapido come un leprotto che fugge da un lupo, cercando di salvare il prezioso oggetto. Arrivò persino a buttarsi in terra e allungare le braccia in un tentativo disperato, mentre dalla sua bocca uscivano a ripetizione le stesse due lettere: «No, no, no...». Alla fine il suo tentativo non fu vano e il vaso gli ricadde tra le mani, integro. Tirò un sospiro di sollievo e riappoggiò con cura l'oggetto sul mobile, per poi asciugarsi la fronte umida di sudore.
"Se quel ragazzo non si calma entro poco tempo, farà una brutta fine. Glielo garantisco" pensò indignato muovendo qualche passo in avanti, pestando i piedi a terra con tutta la sua forza. Era consapevole che quel gesto sarebbe risultato inutile se non dannoso, ma desiderava mostrare quanto fosse contrariato dal comportamento del ragazzo, le cui urla entusiaste ora risuonavano in un'eco assordante tra le rigide e grigie pareti del castello.
Ma Erik era solo desideroso di godersi al meglio la sua giovane vita. Lui era il principe del Villaggio dell'Ombra. Tutto il territorio compreso tra le severe Montagne di Ghiaccio apparteneva alla sua famiglia da generazioni. Sapeva tuttavia che non avrebbe ereditato il regno, non essendo il primogenito. Aveva infatti un fratello maggiore di nome Adrian. Lui, a differenza sua, era composto ed educato. Prestava sempre molta attenzione alle sue azioni e rispettava chiunque, persino i più umili servitori. Era molto amato dal personale, a differenza di Erik. Ogni persona che lo conosceva vedeva in lui un sovrano giusto, l'erede ideale, che avrebbe portato al Villaggio dell'Ombra un periodo di prosperità.
Erik si fidava ciecamente del fratello, e non provava invidia verso di lui. Erano l'uno l'opposto dell'altro, ma per Erik questo non era un problema. Uno spensierato, desideroso unicamente di divertirsi, di ridere, di scherzare. L'altro concentrava tutte le sue capacità nello studio e nella preparazione in quanto erede legittimo. Uno entusiasta, irresponsabile, irriverente. L'altro serio, pensieroso, diligente.
Il mondo di Erik era per lui come un immenso parco-giochi, pieno unicamente di piaceri e divertimento. Nemmeno l'infinita coltre di eterna nebbia che lo avvolgeva era in grado di oscurare quel sorriso abbagliante, quegli occhi perennemente sprizzanti energia. Solo l'ignoto lo spaventava. Per questo non aveva mai visto il paesaggio al di fuori delle Montagne di Ghiaccio. Era come se una catena fatta di paura e insicurezza lo imprigionasse all'interno del suo villaggio, impedendogli di andare incontro al suo futuro.
I corridoi del castello continuavano a susseguirsi in un intrigato labirinto di pareti. I ritratti di famiglia scrutavano severi i movimenti di Erik, che ormai era quasi giunto alla sua destinazione. Svoltò l'ultima curva, sfiorando la superficie ruvida del muro con un dito. Si fermò poi per un secondo davanti alla porta, a contemplare il paesaggio: neve e nebbia sembravano giocare insieme, mescolandosi tra loro e volteggiando leggiadre per aria, come farfalle di ghiaccio. Un freddo pungente lo avvolgeva, ma il suo corpo non sembrava percepire le rigide strette del gelo. Anzi, sembrava quasi trarne ristoro, come se questo fosse una soffice e tiepida coperta.
Tuttavia, Erik ignorò questa particolarità e continuò a osservare quei leggeri fiocchi svolazzanti. I suoi occhi, di un azzurro pallido come l'acqua e gelido come il ghiaccio, guizzavano rapidi come pesciolini da una parte all'altra, scrutando la coltre di nebbia. All'improvviso, un'ombra nera che si aggirava incerta tra la foschia attirò la sua attenzione. Se tutto il corpo appariva circondato da uno strato spesso di bruma, di certo quei due pozzi neri come la notte non passavano inosservati. Un sorrisetto beffardo si dipinse sul volto di Erik.
"Adrian non se la prenderà se gli preparo un bello scherzetto..." pensò portandosi la mano davanti alla bocca per nascondere una risatina dispettosa. Cominciò a ragionare su come avrebbe potuto prendere alla sprovvista il fratello. Un'idea si accese nella sua mente come le stelle la notte, sprigionando una luce così abbagliante da fargli brillare gli occhi chiarissimi, simili all'acqua cristallina.
"Ma certo! Cosa c'è di meglio di una bella battaglia a palle di neve? Adrian non le sopporta!" esclamò Erik sfregando le mani e ridacchiando sotto voce.
Fece per uscire dalla porta, ma si sentì come bloccare. Atterrito e sorpreso, si immobilizzò. Si voltò e si trovò di fronte la sorellina, Clio, che lo tratteneva per un lembo del mantello. I capelli della bambina, di un biondo pallido tendente al nocciola in alcuni punti, svolazzavano accompagnati dalla brezza che penetrava all'interno dell'edificio, come se stesse volando. Gli occhi verdi come smeraldi erano fermamente fissati sul volto del fratello, illuminati da una timida scintilla che sembrava aver paura di spuntare fuori dal suo rifugio.
«Tu come sei arrivata qui? Non ho sentito i tuoi passi. Mi hai spaventato!» esclamò Erik. La principessa ignorò la sua domanda.
«Erik, dove vai?» chiese innocentemente, la sua voce infantile simile al sussurro delle foglie scosse dal vento.
«Non sono affari tuoi!» rispose sgarbatamente Erik
«Vai a infastidire Adrian, non è vero? - domandò Clio con un vivace sorrisino sulle labbra - Posso venire anch'io?»
Erik la guardò severamente, rivolgendole parole taglienti: «No. Torna a dormire!»
Clio lo guardò con occhi umidi e supplicanti, visibilmente ferita dalle parole insensibili del fratello maggiore. La sua bocca si piegò verso il basso e alcune piccole lacrime perlacee, simili a gocce di rugiada, cominciarono a rigarle le guance morbide e lisce come petali di rosa. Alcuni delicati singhiozzi iniziarono a rimbombarle in gola, spingendo per uscire al di fuori ed esplodere come tuoni durante una tempesta.
Erik la fissò infastidito, ruotando gli occhi. Cercò di ignorare i lamenti della sorellina, ma poi, temendo che il padre o Adrian potessero scoprirli, appoggiò una mano davanti alla bocca di Clio, intimandole di fare silenzio.
«Starò zitta solo se mi porterai con te» esclamò la principessa, producendo un lieve solletico sulla mano del fratello. Erik la ritrasse e se la grattò, infastidito.
«No!» ribatté testardo, cominciando ad arrabbiarsi. Perché sua sorella doveva essere così impicciona?
«Dai... Sarò brava. Non ti disturberò minimamente. Sarò silenziosa come un pesciolino in un fiume» mormorò Clio rivolgendogli occhi languidi, simili a cascate che stanno per esplodere in migliaia di schizzi lucenti.
Erik, alla fine, fu costretto a cedere. «E va bene. Ma non fare rumore» borbottò con un tono di voce biascicato più simile a un lamento che a un permesso. Clio esultò e sfoggiò il più abbagliante dei suoi sorrisi.
«Dobbiamo fare molto piano, seguimi» bisbigliò Erik, in modo tale che solo la sorella potesse sentirlo.
Clio annuì seria, prestando molta attenzione alle parole del fratello maggiore, colui che, nonostante il suo carattere, era per lei come una guida, qualcuno che non l'avrebbe mai tradita. Lei e il re erano praticamente gli unici a sapere che nel petto di Erik batteva un cuore buono e puro, per quanto diverso da quello di tutti gli altri uomini. In fondo ognuno ha la propria anima, nella quale è incisa la propria sorte.
«Brava la mia sorellina» sussurrò Erik sorridendo, per poi sgattaiolare di soppiatto al di fuori del castello. Così come le pecorelle seguono ogni passo del pastore e si fidano di lui, Clio rispettava diligentemente le indicazioni del fratello, zampettandogli dietro come una gattina dietro alla propria madre.
Non appena mise un piede fuori dal prezioso portale in legno di noce, ornato con fastosi bassorilievi raffiguranti scene di battaglie combattute dalle precedenti generazioni della casata reale, Erik cominciò a sentirsi addosso una sensazione strana: non percepiva più l'umidità dell'aria, come se la nebbia rimbalzasse sul suo corpo.
Provò ad allungare una mano in avanti, e vide come una specie di aura di foschia si fosse formata intorno al suo braccio, racchiudendolo in una specie di invisibile gabbia.
«Che strano» pensò.
Si girò verso Clio, che lo guardava con sguardo interrogativo.
«Come mai ci siamo fermati?» chiese con tono innocente avvicinandosi di più a lui.
«Ma... ma non vedi cosa mi sta succedendo? Non vedi che la nebbia mi evita?» le chiese incredulo Erik. In quel momento sentì gocce di foschia ricominciare a inumidirgli le mani e i vestiti.
«Cosa?» mormorò Clio.
«Niente, lascia stare...» replicò Erik riprendendo a camminare come se non fosse successo nulla. Ma la sua mente continuava a rimuginare sugli strani avvenimenti di quella mattinata. Che la sua immaginazione stesse giocando con lui?
Un saluto a tutti coloro che hanno deciso di partire con me per questa nuova avventura. Spero che questa storia possa piacervi ed emozionarvi. Che ne pensate di Erik? Sarà stata la sua immaginazione a giocare con lui? Oppure quegli avvenimenti strani si sono verificati davvero? Continuate a leggere per scoprirlo. Al prossimo capitolo!
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