~ Capitolo undici ~
Con il balsamico odore di resina che gli pungolava le narici e l'armonia perfetta generata dal frusciare delle fronde nelle orecchie, Erik si guardava intorno, vittima di un'innata curiosità che lo portava a soffermarsi su ogni foglia secca che scricchiolava sotto i suoi piedi, o ramoscello che fremeva all'innalzarsi della corrente, o impercettibile movimento nel sottobosco.
Già da qualche minuto lui e Martha si erano lasciati alle spalle il lago e il suo fresco profumo d'acqua e di erba umida, alla volta di un bosco incontaminato, profondo, selvaggio. Il pericolo sembrava celarsi dietro ogni ramo ondeggiante, ogni cespuglio fremente, ogni tronco robusto. Semplici illusioni, dettate da un'immotivata tensione, di fronte a una foresta disabitata, silenziosa, abbandonata.
La ragazza, a differenza di lui, che rimaneva guardingo, incedeva a testa alta, come se quel posto lo conoscesse fin troppo bene. Il suo aroma di muschio si mescolava a quello di linfa e di fogliame che persisteva nell'aria; i suoi occhi giocavano con la poca luce che penetrava le tenebre opache, screziandosi di bianco.
Nessuno tra i due giovani aveva ancora osato infrangere il silenzio che si era creato, temendo di fare un torto alla staticità di quella selva antica. Gli alberi secolari, in prevalenza faggi, larici e abeti, si facevano sempre più alti, più spessi, più austeri, e, curiosi, non rinunciavano a spiare i loro movimenti. Erik, talvolta, sentendosi osservato, ricambiava lo sguardo, ma senza scorgere i loro invisibili occhi. Riprendeva poi a guardare avanti, ad ascoltare il muto canto della foresta.
«Un po' noioso questo posto, non trovi?» si decise a parlare il ragazzo, sentendo il bisogno di percepire un suono, di infrangere quella quiete assordante. Martha annuì con un cenno della testa, senza guardarlo. «Che il mio arrivo abbia traumatizzato tutti gli animali della foresta?»
«Se sono gli animali che cerchi, mi sa che ti trovi nel posto sbagliato» mormorò la giovane, inespressiva. La sua voce si era fatta un po' più fluida, per quanto pur sempre flebile.
«E perché mai?» domandò lui. «Se fossi un animale, non esiterei a rintanarmi in questo bosco... e a spaventare gli ospiti indesiderati!» concluse sghignazzando.
Martha sospirò. Erik perse il sorriso a vedere la reazione della compagna. «Non dirmi che pure la foresta è maledetta...» borbottò tentando nuovamente un approccio scherzoso. Credeva, o forse sperava, di sbagliarsi, per cui fu colto impreparato dal cenno affermativo che ricevette in risposta.
«Cosa? Sul serio? E basta!» esclamò Erik, ruotando gli occhi. «Non bastava che io fossi maledetto, doveva esserlo anche il luogo in cui sarò costretto a vivere!» Esasperato, cominciò a camminare nervosamente in avanti, per poi girarsi e ripercorrere all'indietro i suoi passi. Inveiva contro la sorte ingiusta che l'aveva portato lì, la quale si limitava a ignorare i suoi strepiti colmi d'astio e a burlarsi di lui mentre lo trascinava con sé nel baratro, sempre più a fondo.
Martha lo guardava senza intervenire, forse ponderando le parole da rivolgergli per calmarlo, oppure non sapendo semplicemente come attirare la sua attenzione e intromettersi. «Ehm... Erik?» provò con tono incerto. Vedendo che il ragazzo non rispondeva, ritentò, sempre senza risultato.
«Erik!» urlò infine con una potenza che neppure lei sapeva di possedere, tratta da chissà quale meandro del suo spirito. Lui si voltò dopo un ultimo improperio, fissandola stupito. Lei ammutolì, con le guance imporporate.
«C-capisco tu sia sconvolto» mormorò timidamente, giocherellando con una ciocca di capelli. «L-lo sono stata anch'io al mio arrivo qui. Ma presto ci f-farai l'abitudine.»
«E tu come hai fatto ad abituarti a... questo?» strepitò il principe, provando un improvviso disgusto per il posto deserto dove le sue gambe l'avevano portato. «Insomma... Come hai fatto a sopravvivere in questa mostruosa prigione?»
«Beh» proseguì Martha, non smettendo di lisciarsi il ciuffo tra le mani screpolate. «D-da queste parti s-si trovano delle erbe niente male e, con un po' di f-fortuna, anche delle r-radici tenere.»
«Erbe? Radici? Che schifo! Io quella roba non la mangio!» sputò Erik, inorridito. Se Clio, pur controvoglia, era disposta a nutrirsene e ad Adrian quasi piaceva, lui non si lasciava scalfire neanche dalle suppliche del padre quando si trattava di mangiare della verdura. Anche solo il loro odore gli faceva provare un tale ribrezzo che si trovava costretto ad abbandonare la tavola per non vomitare.
La fanciulla lo fissava con un'espressione peculiare dipinta sul viso, che lui non riuscì a decifrare. «M-ma cosa vorresti mangiare? Grano non ne ho, né orzo, né altri cereali che mi permettano di fare del pane. Animali n-non se ne trovano, per cui non abbiamo a disposizione né carne né latte. Se v-vuoi, possiamo c-cercare dei funghi, ma la maggior parte di quelli che crescono qui sono v-velenosi» spiegò.
«Oh» borbottò il ragazzo. Non avrebbe voluto cedere, ma in che altro modo sarebbe potuto sopravvivere, se non cibandosi di quelle vivande che aveva sempre rifiutato con sdegno? Lasciò scorrere ancora una volta lo sguardo sul corpo scheletrico della giovane che gli stava dinnanzi, e a quel punto comprese: come poteva considerarsi sopravvivenza quella che, agli occhi di un principe viziato come lui, non sembrava altro che un'agonia prolungata, un tentativo estremo di rimanere aggrappati a una vita peggiore della morte?
"Forse sarebbe stato meglio se Brennus mi avesse ucciso quando ne aveva la possibilità" pensò, pentendosene subito dopo. Dovrebbe essere grato al Fato per avergli dato una seconda possibilità, e invece si era ridotto a sperare di essere morto. Si diede dell'ingrato e si costrinse a trovare qualcosa di positivo nel futuro che gli si prospettava: almeno non sarebbe stato solo.
«Sai che bello...» bofonchiò la sua anima, burbera. «Secondo me stavamo meglio da soli, noi due, senza questa selvaggia.»
"Perché, sei gelosa?" replicò mentalmente Erik, ironico.
«Idiota» commentò lo spirito, irritato.
Non appena la voce dell'ombra si dissolse, il silenzio della boscaglia tornò a colmargli le orecchie, mentre la strada proseguiva sgusciando svelta tra gli alberi. Quel paesaggio sempre uguale a sé stesso si era ormai impresso a fuoco sulle sue retine, tanto che ormai lo vedeva anche quando chiudeva gli occhi. Gli sembrava di essere un personaggio ritratto all'interno di un quadro, e che i suoi movimenti, nell'eloquente staticità della pittura, fossero solo illusori. Ormai così abituato a quel susseguirsi ininterrotto di passi, di respiri, di fusti e di foglie secche, quasi non si accorse della ragazza che lo chiamava.
Non sapeva quanto tempo fosse passato, se ore, minuti o pochi istanti, ma fu come se il richiamo di Martha l'avesse ridestato da un sonno profondo. «Siamo arrivati?» chiese, speranzoso di potersi finalmente concedere un po' di riposo.
Lei gli rispose con un delicato sorriso, facendogli cenno di rivolgere lo sguardo verso un punto leggermente spostato sulla sinistra. Erik ubbidì e fu stupito di vedere quello che sembrava un piccolo campo attrezzato, circondato su ogni lato da una muraglia di larici. Al centro del ridotto spiazzo un cerchio di rocce dalle forme variegate racchiudeva una catasta di legnetti anneriti, da cui si innalzava una rarefatta scia di fumo argenteo, che sinuosa risaliva verso il cielo, scomparendo nel vento. Accanto al focolare era situato il tronco abbattuto di un larice, forse da sfruttare come una panca. Più spostata verso gli alberi si intravedeva la forma di una capanna realizzata con rami robusti, al cui interno era ben visibile un materasso di muschio e foglie di faggio. Infine, sul lato opposto si trovava una seconda struttura in legno di poco più grande, dalla cui apertura sbucavano due logori cesti di vimini ricolmi di erbe e bacche, due ciotole di coccio dal bordo sbeccato e due anfore di modesta dimensione adibite a contenere l'acqua.
«Questo è il tuo accampamento?» chiese il giovane a Martha, che rispose in modo affermativo. «Niente male, devo dire. Davvero niente male» esclamò, dirigendosi verso il tronco e sedendovisi sopra: la sua superficie era ruvida e le schegge gli ferivano i polpastrelli, ma lui non se ne curò, troppo intento a studiare i dettagli di quella che a suo parere era come un'oasi in un arido deserto.
La ragazza andò nella direzione del magazzino, afferrò i due vasi e si accinse a ripercorrere i suoi passi, sparendo dietro un'ultima frase: «V-vado a prendere dell'acqua. Tu, se non ti dispiace, puoi cominciare a raccogliere qualche ramo per costruire la tua capanna».
«Perché, non ti va di condividere la tua con me?» domandò Erik, falsamente malizioso. Stava scherzando, ma, anche se non la vedeva più, era sicuro che le guance di Martha fossero diventate più rosse di due fragole mature.
«Oh, che bellezza. Ora siamo di nuovo soli» gongolò la sua anima.
«Sì, ma non ho voglia di parlare con te» rispose il ragazzo, infastidito.
«Come vuoi, Gondar, ma non sai cosa ti perdi! Sai, mentre eri impegnato a fantasticare ho ideato qualche nuovo insulto a tuo danno. Non ti va di sentirli?» propose lo spirito, con tono che sembrava supplichevole, ma che era in realtà solo ironico.
«No, grazie.»
«Dai, solo uno! Li ho realizzati apposta per te! Te l'ho mai detto che sei un ingrato?»
«Va' a quel paese!»
«No, vacci tu! Sai che le mie gambe non mi reggono, e quel paese deve essere lontano...»
Erik, non avendo più la minima intenzione di ascoltare le ingiuriose parole di quello spirito sgarbato, si alzò in piedi per andare a cercare dei rami sufficientemente robusti perché potessero dare origine a una capanna resistente alle intemperie. Ne raccattò cinque, sottratti a un abete abbattuto da un fulmine, e, dopo esserseli caricati sulle braccia, li riportò all'accampamento. Recuperò anche qualche fronda più sottile e flessibile, da poter sfruttare come corde per tenere uniti i due fianchi del rifugio. Lasciò cadere il tutto sul lato destro della capanna di Martha, senza neanche pensare che, forse, avrebbe fatto meglio ad adagiarli con più calma. Erano piuttosto pesanti e, toccando terra, emisero un frastuono analogo a quello di una frana di ridotta portata, alzando un turbine di polvere e foglie, che volteggiarono per qualche istante, per poi appoggiarsi sui suoi piedi.
Ripeté la procedura ancora diverse volte, finché non arrivò ad avere accumulato una catasta di legname di dimensioni piuttosto ingenti. Si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore e sorrise, ammirando soddisfatto il proprio lavoro. "Andando avanti così, diventerò più muscoloso di quel pazzo di Brennus!" pensò, ridendo.
Determinato a dimostrare le proprie capacità e ritenendo di essere capace a costruirsi una capanna confortevole, afferrò due rami spessi e uno flessibile e provò a disporli a formare un triangolo, la cui base coincideva con il terreno. Tuttavia, non gli riuscì di stringere forte a sufficienza la corda e la struttura crollò rovinosamente prima ancora che avesse potuto cominciarla. Erik mugugnò un'imprecazione, sbattendo nervoso il pugno a terra. Tuttavia, non avendo intenzione di arrendersi, riprovò, sempre con scarso successo. "Da quando costruirsi una casa è così stremante?" ansimò dopo l'ennesimo tentativo andato a vuoto.
«Non lo è, sei tu che sei debole» lo canzonò il suo spirito.
Il ragazzo iniziava a innervosirsi e, memore di ciò che la rabbia gli aveva comportato nelle occasioni precedenti, decise di smettere e di attendere il ritorno della compagna. Si alzò tra le risate di scherno della sua anima, si accomodò sulla panca e attese. Guardò ancora un attimo la sua catasta di legno e i resti delle sue fallimentari prove di architettura, rimpiangendo di non aver mai chiesto a Marc e Steve, i costruttori del gruppo, come fare a svolgere quel lavoro solo in apparenza semplice. Distolse poi lo sguardo e fissò un punto imprecisato di fronte a sé, da cui sperava di veder arrivare la ragazza con le sue due anfore ricolme d'acqua. Magari al suo ritorno si sarebbe fatto spiegare come, nella sua condizione, aveva fatto a procurarsi quei contenitori in terracotta.
Ormai erano quasi due ore che l'oscurità l'aveva inghiottita, ed Erik cominciò a chiedersi cosa potesse averla trattenuta così a lungo. Rifletté un attimo, ma non gli riuscì di trovare una risposta: non c'erano belve che potevano averla attaccata, né minacce di temporale tali da spronarla a trovare rifugio in una grotta o in qualche altro luogo coperto. Un'improvvisa spinta emotiva lo portò a temere il peggio. Si rimproverò per i pensieri nefasti che si fecero largo in lui, e si ripeté più volte che, se la fanciulla tardava, non per forza doveva esserle accaduto qualcosa di irreparabile. Eppure, per qualche assurdo motivo, a ogni secondo che passava, si sentiva più spossato, abbandonato, ansioso. Fece vibrare la gamba destra per stemperare la tensione accumulata, si strinse un ginocchio con la mano contratta, ma ancora non si sentì meglio.
"Fa' il duro, Erik. Fa' il duro..." si diceva, non volendo cedere a una fragilità che, d'altra parte, non sentiva sua. Era come se qualcuno lo stesse ipnotizzando, imponendogli contro la sua volontà un'immotivata agitazione.
«Oh, ma quanto sei arguto, Gondar! Non credevo più che ci saresti arrivato» sghignazzò la sua anima, più grave del solito. Erik sentì i nervi irrigidirsi per la rabbia e la vena sul collo pompare sangue amaro.
«Tu... sei tu che mi stai facendo questo...» ringhiò «Non bastava Brennus, ora anche la mia anima comincia a giocarmi questi scherzi...»
«Non paragonarmi a quel verme! Avrà anche detto qualcosa di giusto sul tuo conto, e da molti punti di vista sarà anche migliore di te, ma resta pur sempre un verme!» strillò lo spettro. «Ora è arrivato il momento che tu mi dia ascolto senza replicare!»
«Io ascoltare te senza replicare? Devi proprio starti rivolgendo all'Erik sbagliato» gridò il ragazzo.
«Non ti opporre, sciocco! Se solo vorrai prestare attenzione alle mie parole, ti renderò potente, molto più di Brennus e di tuo fratello Adrian. Potrai tornare al Villaggio dell'Ombra e farla pagare a coloro che ti hanno tradito!»
«Non ho alcuna intenzione di tornare al Villaggio dell'Ombra per farmi ammazzare!» replicò il giovane, sempre più innervosito.
«Sai perché solitamente uccidono le Anime Gelide quando sono infanti e non hanno ancora sbloccato i loro poteri? Oh, certo che scuoti la testa, tonto come sei. Perché un'Anima Gelida con i suoi poteri è imbattibile! Avranno troppa paura anche solo per provare a torcerti un capello!»
«Non me ne importa: preferisco essere un emarginato che un tiranno e un assassino!»
«Pensaci bene: riavrai il rispetto perduto e non avrai più bisogno di questa lurida eremita!»
«Non è una lurida eremita e, quando tornerà, mi aiuterà!»
«Ti sbagli» mormorò a quel punto l'anima, sempre più maligna. «Lei non tornerà più. Ti ha abbandonato, proprio come quella sgualdrina di tua madre.»
«No...» Il giovane abbassò le armi di fronte a quell'ultima affermazione, incapace di difendersi ancora. Un grave errore, che permise allo spirito di intrufolarsi nella sua memoria e di giocare con i ricordi più dolorosi.
«Alba!»
Il grido di suo padre risuonò nelle sue orecchie, potente e straziante come la prima volta. Come una zampa artigliata gli afferrò il cuore e glielo strinse nella stessa morsa di dolore.
«È troppo tardi! Non posso sopportare di vedermeli portare via... Addio!»
La voce di sua madre, rotta dal pianto, arrochita dalla sofferenza, specchio di ciò che stava per accadere. Erik gemette, si agitò, ma non riuscì a scacciarne il suono struggente.
«No! Madre! Non farlo! Non andartene!»
Le inutili suppliche di un bambino disperato, che stava assistendo alla fuga di colei che lo aveva dato al mondo.
Incapace di resistere ancora, implorò la sua anima di allontanare quel ricordo, ma lei si limitava a ridere, a godere della sua sofferenza, a prolungare quell'insopportabile tortura. Davanti a lui solo il vuoto di una foresta spopolata, sorda al suo soffrire. E Martha ancora non tornava.
Urlò in preda a una crisi, così forte che anche la natura sembrò spaventarsi: il vento prese a soffiare più forte, a ululare potente, mentre le fronde si agitavano come danzatrici senza controllo e le foglie si raccoglievano in turbini vorticosi. La testa del giovane pulsava violenta, i suoi occhi bruciavano come trapassati da mille spilli roventi. Le sue gambe si intorpidirono e in breve perse il suo contatto con il mondo. Mentre sveniva, precipitando nel buio, poté udire le parole di una nenia che sua madre era solita cantargli quando, bambino, era destato di notte dagli incubi.
Brilla nel cielo la luna d'argento,
senti il suo canto, la voce del vento.
Un sogno fugge tra campi di stelle,
e dona ai piangenti le rose più belle.
Dormi bambino, che tutto andrà bene,
spezzerà un canto tutte le tue pene.
Poi, fu inghiottito dalle tenebre.
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