~ Capitolo sette ~
«Perché?»
Una sola domanda continuava a rimbalzare nella mente di Erik, echeggiando sonora in mezzo a quel doloroso silenzio che lo stritolava, rotto solo dallo scalpiccio frenetico dei suoi piedi sul terreno morbido e umido di condensa.
Una pietra granitica opprimeva inesorabile i suoi polmoni, impedendo al prezioso ossigeno di raggiungerli. La gola gli bruciava, come se si fosse trovato immerso in un ruscello, imprigionato sotto un'infrangibile lastra di ghiaccio. Non aveva più voce per gridare, né fiato per continuare a correre. Eppure, nonostante i minuti si susseguissero rapidi, proseguiva la sua fuga, senza il desiderio di voltarsi. Dietro di lui si trovava il ricordo di un vissuto ormai passato, perso, svanito come polvere nella brezza.
«Perché?»
Le grida dei popolani ormai non erano che fievoli sussurri assorbiti dall'ululato del vento e dispersi nell'aria resa scura dalla nebbia, ma ancora gli facevano più male del morso di una tigre. Loro l'avevano tradito, l'avevano ripudiato, l'avevano condannato a morte.
Come se la sarebbe cavata, tutto solo, di fronte a quell'ignoto che l'aveva sempre spaventato? Ora era un dissidente, un fuggitivo, un criminale. Avrebbero continuato a dargli la caccia, o l'avrebbero lasciato fuggire verso il suo destino incerto?
«Perché?»
Quella domanda lo stava torturando. Strinse i denti, trattenendo un nuovo grido che spingeva per uscirgli dalle labbra. Tutto era cambiato, ma lui non voleva accettarlo. Non lo sopportava. Non ci riusciva.
Che fine aveva fatto l'Erik che era stato? Svanito, come la sua vita? Qualcuno l'avrebbe ricordato, o la sua intera esistenza sarebbe passata inosservata, come un topolino che, nascosto nell'erba, sfugge allo sguardo avido del gatto? Qualcuno avrebbe sperato in un suo ritorno, o tutti, per paura o ripicca, gli avrebbero augurato una fine dolorosa? Se fosse stato così, sarebbero stati accontentati: lui sarebbe morto.
Morto
Quella parola non l'aveva mai spaventato così tanto. Ma ormai la consapevolezza era piombata su di lui come un falco dagli affilati artigli: non aveva speranza di sopravvivere da solo, in un mondo che gli era ostile, che aspettava solo di vederlo soccombere. Se non fosse stata una belva a ucciderlo, ci avrebbe pensato la fame, la peggiore nemica dei vagabondi.
Non aveva mai imparato a cacciare, e ora se ne pentiva amaramente: non aveva niente da mangiare, né armi, né la capacità di procurarsi provviste. Era indifeso, vulnerabile, alla mercé degli eventi.
Lui, la "tigre", ora si ritrovava a essere un innocuo cerbiatto, vittima di un mondo pronto a divorarlo.
«Perché?»
Con quella domanda giunsero impetuosi mille ricordi, che lo dilaniarono come belve feroci. Uno in particolare si fece distinto, vivido, palpabile. Era la memoria del giorno che gli avrebbe stravolto l'esistenza, che l'avrebbe trascinato controvoglia verso un fato impietoso, al quale non si poteva sottrarre.
La sala del banchetto era gremita di persone, le cui voci entusiaste e soddisfatte risuonavano nell'aria come il clamore prodotto dalle armi durante le battaglie. L'odore sfizioso dei cibi prelibati inebriava i sensi dei convitati. Le vivande erano servite da numerosi camerieri su raffinati vassoi d'oro bianco e sembravano riscuotere un grande successo. Alcuni degli invitati, ubriachi, si esibivano, caracollando come oche, in divertenti coreografie e cantavano canzonacce, per poi esplodere in risate profonde e gorgoglianti. Il re non faceva nulla per impedire ai commensali di assumere tali atteggiamenti irrispettosi: si limitava a fissarli, scuotendo la testa contrariato.
Clio e gli altri bambini pranzavano in un tavolo a parte. Una parete divisoria separava, così come avviene nella vita, la gioventù, l'età dell'innocenza, dalla maturità, il tempo delle responsabilità. La stanzetta aveva le pareti dipinte d'azzurro e di verde, a rappresentare un vasto prato sormontato da un cielo profondo, sterminato. Qua e là, dispersi tra l'erba di un vivo color smeraldo, si potevano scorgere fiori variopinti e delicate farfalle, mentre tra le fronde fruscianti degli alberi, che a tratti interrompevano la distesa verdeggiante, svolazzavano festosi gli uccellini.
La principessa si era lamentata a sentire i genitori dirle che avrebbe dovuto rimanere in quella piccola stanza: non aveva intenzione di restare separata da tutta la sua famiglia. Non avrebbe neanche più potuto contare sulla compagnia di Erik che, con la sua imminente Cerimonia dell'Oracolo, sarebbe ufficialmente entrato a far parte dei "grandi".
«Perché devo stare con i piccoli? Voglio essere grande!» strillava sempre Clio, pestando i piedi a terra e brontolando, infastidita dalla sua condizione di ultimogenita.
Erik spesso la stuzzicava, dicendole di essere più grande e che, per questo motivo, lei era costretta a obbedirgli.
«Presto ci sarà la mia cerimonia, e tu sei ancora una nanerottola!» sghignazzava frequentemente facendo arrabbiare la sorellina, che scoppiava a piangere e correva a cercare la madre per farsi consolare.
Il ragazzo era così orgoglioso di poter finalmente varcare la soglia che lo separava dalla maturità. Un universo di nuove esperienze si protendeva davanti ai suoi giovani occhi, stuzzicandolo. Non desiderava altro se non sganciarsi dalle opprimenti catene che lo tenevano unito agli ultimi, interminabili, momenti d'infanzia. Per lungo tempo si era preparato per la cerimonia, scegliendo minuziosamente le parole da pronunciare in presenza dell'Oracolo e la domanda da rivolgergli.
La curiosità si intrecciava con l'agitazione nella mente del fanciullo, dando origine a un groviglio di emozioni contrastanti. Tuttavia, all'improvviso, un senso di timore cominciò a pulsare dolorosamente nel suo cuore, prendendo il sopravvento su ogni altra sensazione: cosa stava nascosto dietro quegli imperturbabili occhi di pietra? Una belva pronta a balzargli addosso e a divorare i suoi sogni e le sue speranze? Una spada che avrebbe tranciato di netto il suo futuro, condannandolo a un destino di sofferenza?
Il buio si era ormai fatto strada in lui. Il nero divenne l'unico colore che riusciva a vedere: nero era il cielo, nere le case, nera la terra. Il mondo era un'unica, eterna notte, oscura come il colore che, ormai ne era convinto, avrebbero assunto gli occhi dell'Oracolo. Li vedeva già davanti a sé, grandi e severi, fissi nelle sue piccole iridi azzurre, mentre pian piano si scurivano, fino a diventare neri come quella che sarebbe stata la sua sorte.
Ora, con le sue paure strette attorno al cuore, si ritrovava al tavolo del banchetto, seduto a capotavola e circondato da una folla serrata, mentre, stringendo in mano una forchetta d'argento dal manico di madreperla, punzecchiava distrattamente la fetta di torta che aveva nel piatto. Ascoltava negligentemente il vociare confuso che si faceva sempre più forte intorno a lui, sospirando imbronciato.
Fissava il dolce ma senza vederlo, in quanto i suoi pensieri erano interamente diretti all'Oracolo e a ciò che gli avrebbe profetizzato.
"Adrian si sbaglia. Andrà tutto male. Lo so già" pensò continuando a giocherellare con il cibo, sempre più teso. Poi scosse la testa, nel tentativo di scacciare quel terribile presentimento.
"Ma mi ha promesso che non mi succederà niente. Io mi fido di lui" ribatté mentalmente alla sua precedente supposizione.
"Ma mi posso fidare?"
Piantò più a fondo la forchetta nella torta, stringendo il manico fino a farsi male. Sentiva il bisogno di gridare, ma si trattenne.
Il re alzò gli occhi dal suo piatto e, vedendo il volto corrucciato del figlio, si sollevò dal suo posto e gli andò vicino. «Che ti succede, figliolo? Non ti senti bene?»
Il giovane si immobilizzò sotto lo sguardo indagatore del padre. Doveva dire tutto? Doveva confessare il timore che lo dilaniava? Ma come poteva fare? Dove avrebbe trovato il coraggio per parlare?
«No, no, va tutto bene, padre...» mentì Erik senza guardare l'uomo.
«Ne sei sicuro? Non hai neanche assaggiato il tuo Pan del Giglio. E pensare che è il tuo dolce preferito» ribadì il sovrano con uno sguardo preoccupato.
«Ah, vero...» mormorò il bambino portandosi alla bocca un pezzo di torta con la posata. Il delizioso sapore di latte e vaniglia non bastò a calmarlo.
Il re lo guardò per qualche istante e, intuendo che il ragazzo preferisse non parlare con lui, disse: «D'accordo. Se va davvero tutto bene, io torno al mio posto».
«Va' pure a sederti, padre» borbottò Erik masticando a fatica la torta. Si morse a sangue il labbro inferiore, pur di impedire alle sue emozioni di esplodere.
«Ok, come vuoi» mormorò l'uomo, allontanandosi da lui.
Una fitta alla testa riportò il ragazzo alla realtà. Gemendo fiocamente, si portò una mano alla fronte, percependola fredda e sudata. Ormai il suo respiro si era fatto frenetico. Con lo stomaco in subbuglio portò lo sguardo sul sentiero che stava percorrendo, racchiuso tra quelli che un tempo dovevano essere stati campi coltivati a frumento, e che ora erano vaste lande terrose, ricoperte da un velo di desolazione e di morte. Alcune chiazze di neve candida donavano un tocco di vita a quel tetro marrone, simili a rose bianche in un'arida distesa di polvere.
Erik rimase sconcertato a vedere ciò: racchiuso nel suo piccolo mondo, non aveva mai visto l'universo che si estendeva oltre le sue mura. Un universo immenso, sterminato. Percepì freddo, ma non per un abbassamento della temperatura: se conosceva così poco la terra che circondava la sua casa, come si sarebbe orientato in quel mondo immenso?
«Hai paura, codardo? Ammettilo, Erik! Te la stai facendo sotto dalla paura!» sghignazzava malignamente la voce della sua anima, che con il suo suono stridulo gli pugnalava il cuore in profondità.
«Oh, ma sta zitta...» borbottò il giovane, nel tentativo di liberarsi da quella presenza fastidiosa.
L'ombra ridacchiò, sadica. «Mi disgusti... Sei così debole che non trovi neanche la forza per ricordare la tua Cerimonia dell'Oracolo... Tanto furbo ti credi, tanto sveglio, ma in realtà non sei niente! Brennus ha avuto ragione su di te!»
«Quand'è che mi lascerai in pace?» mugugnò Erik a denti stretti, faticando a sopportare quei sussurri maligni.
«Mai, mio caro. Io vivo nella tua testa. E poi, come faresti senza di me, che ti ricordo costantemente chi sei in realtà?» asserì la voce.
«Ti odio...»
«No, tu mi ami».
«Ti ho detto di lasciarmi in pace!»
«Se io me ne andassi, tu moriresti».
La risata cristallina della sua anima echeggiò per tutte le cavità del suo corpo, scrosciando in ogni anfratto del cuore e pulsandogli nelle orecchie. Persino lei gli si era ritorta contro. Ormai non poteva contare neanche più su se stesso: era proprio quello il frutto della maledizione a cui aveva accennato Brennus? Era quello il significato di Anima Gelida? Il suo spirito era davvero glaciale come i suoi occhi?
All'improvviso, si ritrovò costretto a proseguire il viaggio intrapreso nella memoria di quel giorno maledetto. Mentre la sua mente si accingeva a rintracciare il flusso dei pensieri precedentemente abbandonato, la voce del suo inconscio continuava a rimbombare sonora dentro di lui, come un'armonia discordante di cupi canti.
Il bambino incedeva incerto, impaurito, scortato da un gruppo serrato di persone, che racchiudeva il suo piccolo corpo da ogni parte, come un gregge di pecore che stringe nel centro gli agnelli. Le sue gambe erano macigni difficili da trascinare, la schiena, come quella di un penitente, era piegata in avanti sotto il peso del suo timore, gli occhi erano globi vitrei privi di luce. Con sguardo vuoto scorreva i volti sereni dei suoi compagni, come un soldato sul punto di partire per una guerra dalla quale, probabilmente, non avrebbe più fatto ritorno.
Un sentiero estraneo, sinuoso come un serpente del colore della terra, scorreva infinito davanti ai suoi occhi, scivolandogli sotto i piedi e sparendo dietro la sua visuale.
Già da parecchio il gruppo aveva abbandonato le confortevoli mura, inoltrandosi tra gli alberi che popolavano la piccola foresta situata al largo del versante occidentale del villaggio. I fusti delle piante erano scavati dal tempo, solcati dalle cicatrici di una vita lunga e dolorosa, segnata da un gelo impenetrabile, che, come una terribile malattia, mieteva molte vittime. L'ombra penetrava quelle scanalature, tingendo la corteccia di nero. I rami erano lunghi e aggrovigliati, spogli delle loro foglie, e perforavano la nebbia, allungandosi quasi a sfiorare le spalle degli uomini in cammino. I loro respiri glaciali si manifestavano in sinistri scricchiolii, che si opponevano al silenzio dilagante. I richiami spettrali delle creature del bosco, ogni tanto, fendevano l'aria come frecce avvelenate, raggiungendo le anime di chi li ascoltava e trafiggendole, provocando in esse brividi di freddo e terrore.
Erik fissava ora rapito la terra scorrere sotto i suoi piedi, ascoltando lo scalpiccio ripetitivo dei suoi passi e il battere frenetico del suo cuore. Un debole sussurro di vento gli penetrò le orecchie. Sbuffò e una nuvola di umido vapore si formò davanti alle sue labbra, incurvate in un'espressione mesta, rassegnata. La testa gli doleva in modo innaturale, come se mille acuminati aghi di cristallo gli stessero trapassando il cervello. Se fosse stato nella sua camera, avrebbe affondato il capo nel guanciale, attendendo la fine di quella tortura. In quel momento, invece, si ritrovava costretto a mascherare la sua sofferenza, proseguendo imperterrito a camminare e non permettendo ai gemiti di lasciargli la gola.
Sollevò brevemente lo sguardo nella direzione dei famigliari, che avanzavano con tranquillità. Suo padre lo precedeva di pochi passi, mettendo in mostra il suo portamento fiero e gli ondulati capelli di un biondo tendente al bruno. La madre lo seguiva, tenendo per mano la piccola Clio, che spesso si lamentava per l'eccessiva lunghezza del cammino. Adrian, invece, incedeva alle sue spalle, fissandolo intensamente con i suoi penetranti occhi neri. Quello sguardo parlava, lo consigliava, gli diceva che sarebbe andato tutto bene, ma Erik vi colse anche qualcosa che non riusciva a decifrare, qualcosa che il proprietario di quelle iridi cercava di nascondere con tutto sé stesso, qualcosa che lo costrinse a voltarsi con un tremito.
L'entrata di una buia caverna era sempre più vicina, e presto le sue invalicabili tenebre li avrebbero inghiottiti. La vasta frattura nella roccia bigia era incorniciata superiormente da appuntite stalattiti, simili ai denti di un mostro enorme, mentre ai fianchi spiccavano antichissime incisioni rupestri. Erik riconobbe i simboli sacri del passato, del presente e del futuro, collegati tra loro da una scia più profonda, intarsiata di gemme che la accendevano di una luce sovrannaturale: il Fato.
All'improvviso, a un cenno del re l'intero gruppo arrestò la sua avanzata. Il fanciullo vide il padre venire verso di lui, con occhi carichi di orgoglio. Si costrinse a guardarlo, ma la vista gli tremava.
«Da questo momento in avanti dovrai proseguire da solo» mormorò il sovrano, appoggiando una mano sulla spalla del figlio e stringendola con dolcezza. «Ricorda: prosegui sempre dritto e non prestare attenzione ai sussurri delle ombre.»
«Sussurri delle ombre?» sussultò Erik, confuso e un po' teso.
Il padre gli sorrise e strizzò la spalla un po' più forte. «Tranquillo, figliolo. Non è altro che il vento che soffia tra le pareti della grotta. Non farti spaventare.»
«Non succederà» esclamò il ragazzino alzando il mento e celando malamente la preoccupazione.
«Molto bene. Sono fiero di te» sussurrò il re, e l'increspatura delle sue labbra si allargò. «Buona fortuna, figlio mio».
Il giovane si accinse a entrare nella caverna, accompagnato da saluti e incitamenti. Clio lo fissava, imbronciata, stringendo sempre la mano della sovrana. La madre appariva tesa quasi quanto lui, mentre agitava nella sua direzione la mano tremante.
I piedi del bambino attraversarono l'ingresso. Il futuro era davanti a lui. Vi si era tuffato dentro di getto, come una lontra che si lancia in un torrente senza tastarne prima la temperatura. Quell'abisso d'ombra lo soffocava, quel buio gli faceva male agli occhi. Continuò a camminare, allungando in avanti le braccia sottili.
La grotta emanava un delicato odore d'acqua e di antico, che egli inspirò a pieni polmoni, come se, mescolato all'ossigeno, potesse trovare il coraggio. La roccia era ruvida, polverosa, e rimbombava sotto i suoi piedi. Le pareti della cavità lo accerchiavano come una schiera di soldati granitici, e sembravano quasi sussurrare.
«Erik».
Il suo nome.
Il ragazzo scosse la testa. "Non farci caso, Erik" pensò. "È solo il vento che soffia tra le rocce".
«Erik».
Ancora quel sibilo. Era debole, supplichevole, quasi un soffio. Ma alle sue orecchie divenne un grido, un ululato, un boato. «C... coraggio... P... puoi farcela. Non è niente!» balbettò aumentando il passo.
«Erik».
«No!» Il bambino si coprì le orecchie e cominciò a correre, senza preoccuparsi di andare a sbattere contro la dura pietra.
«Erik».
Le tenebre continuavano a mormorare, sempre più sonore, sempre più assordanti. «Basta!» voleva gridare il ragazzo, ma sapeva che sarebbe stato del tutto inutile. Quello non era solo vento che soffiava tra le rocce...
«Erik».
Il tempo correva con lui, rapido e vorace. Le ombre lo inseguivano come spettri, i loro sussurri lo ostacolavano, facendolo inciampare. Ma quanto era lunga quella caverna?
«Erik».
Improvvisamente, il suo piede incontrò un sasso. Le gambe di Erik cedettero e il bambino si trovò in terra, carponi. Gridò, aspettandosi di venire aggredito. I sussurri, però, si spensero dietro un ultimo richiamo. Il silenzio lo avvolse come una cupola.
Sorpreso, il ragazzino sollevò il mento e scorse nell'ombra il volto enorme e rugoso dell'Oracolo, illuminato fiocamente da una luce mistica, che sembrava emanata dalla pietra stessa. Sussultò e si trascinò sulle braccia, allontanandosi di un passo.
«Benvenuto, giovane Erik» esclamò la statua con una voce profonda e cavernosa, antica come le montagne, o forse addirittura come il mondo stesso.
«S... salve...» rispose il bambino con voce tremolante. Fece per fare ancora un passo indietro.
«Alzati, fanciullo» ordinò autoritaria l'effigie umana. Erik si irrigidì, per poi obbedire.
«Sei qui per la tua cerimonia, devo presumere» mormorò l'Oracolo, scrutandolo severo. Il ragazzo annuì.
«Allora, giovanotto. C'è qualche quesito che vuoi porre a me, l'Oracolo, l'onnisciente custode del Fato?» chiese solenne, sottolineando le sue parole con un tono ancora più basso, inquietante.
Davanti a quella domanda, Erik dimenticò tutte quelle parole che aveva provato ripetutamente, tutti quei desideri che ora riteneva inutili. Tutte le formule e i rituali svanirono dalla sua mente. Nulla aveva importanza davanti a quello sguardo di pietra.
Tutto ciò che gli uscì dalle labbra fu una semplice, istintiva richiesta: «Voglio... voglio solo la verità».
«La tua è una richiesta ragionevole, ragazzo. Tu mi hai chiesto la verità. Una domanda recondita nelle menti di ogni creatura, ma quanti, nella realtà, sono pronti ad accettare la risposta? Molti la cercano, pochi la trovano, ancor meno le sopravvivono».
Erik sgranò gli occhi: allora aveva ragione? La verità era davvero così terribile?
«Io scorgo in te un grande coraggio, Erik. Un coraggio che ti sarà utile nel corso della tua esistenza. Perché ricorda: può capitare di perdere la via, o la speranza, o persino il senno. C'è solo una cosa che non deve mai venire meno: proprio lui, il coraggio, il coraggio di andare avanti» esclamò l'Oracolo.
«Il c... coraggio di andare av... vanti?» balbettò il fanciullo. Le sue parole si persero nell'ombra.
La scultura continuava a fissarlo con occhi che sembravano sempre più grandi, ipnotici, avvolgenti.
«Il ghiaccio scorre potente nelle tue vene, impetuoso come un fiume. Ma le sponde sono strette, l'acqua è sempre più violenta, e presto strariperà. Una nuova forza esploderà in te, e ciò che fu unico sarà spezzato in due. Sarai ghiaccio, ma anche fuoco. Sarai gelo, ma anche calore. Sarai rassegnazione, ma anche speranza. Dolore e gioia. Guerra e pace. Morte e vita. Male e bene».
«Cosa?» mugolò Erik, gemendo come un cucciolo ferito di fronte all'insensatezza delle parole di quella profezia. L'Oracolo lo ignorò nuovamente.
«Forte irromperà la tempesta nel tuo cuore, ma non ci sarà il sole a infrangerla con le sue frecce infuocate. Solo il vero Erede potrà sconfiggere l'ombra, cancellando il passato e scrivendo il futuro».
Il gelo avvampò nel corpo immobile e rigido di Erik, stringendolo in catene di terrore. Il sudore si era ghiacciato sulla sua fronte e brillava cristallino alla luce degli occhi dell'Oracolo, che avevano cominciato ad accendersi.
Passarono alcuni istanti. Il respiro del giovane era debole, silenzioso, quasi impercettibile. Poi, la sua paura esplose.
Le iridi dell'effigie non erano divenute bianche, né nere.
Erano azzurre.
Azzurre come l'acqua.
Azzurre come il ghiaccio.
Azzurre come i suoi occhi.
Erik non riusciva più a muoversi, tanto forte era la sorpresa. No. Quella non poteva essere la sua Cerimonia dell'Oracolo. Quello era un incubo. Lui era nel suo letto, ad agitarsi in preda a un sonno tormentato. Pregò le sue palpebre di spalancarsi sul suo mondo, di mostrargli le famigliari mura domestiche. Ma ciò non avvenne. Ormai quell'incubo l'aveva afferrato con le sue zampe artigliate, e non l'avrebbe più lasciato andare.
Poi, la voce dell'Oracolo irruppe nuovamente nel cunicolo roccioso, rimbombando con una tale forza che, Erik ne era convinto, chiunque lo avrebbe sentito.
«Ora va', giovane Anima Gelida, e scrivi il tuo destino».
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