~ Capitolo nove ~
«Un... cane? Devo proprio stare impazzendo...» borbottò Erik fissando l'animale che gli si era materializzato davanti.
La bestiola, reggendosi sulle fragili zampette, ricambiava il suo sguardo, e pareva volergli scrutare l'anima con quei suoi occhi di un azzurro chiarissimo, splendenti come due laghi ghiacciati. Le lunghe orecchie penzoloni e il muso, dolce e affusolato, sembravano far trapelare una certa tristezza.
Mosse appena la morbida coda e uggiolò. Il verso che emise, però, più che un mugolio sembrava un latrato, un richiamo mesto, accorato.
«Cosa vuoi da me, bestiaccia? Non ho nulla da darti! Vattene via!» esclamò il giovane gesticolando con le mani, ma la cucciola non si mosse. Il soffice pelo bianco, che la rendeva simile a una nuvola candida, vibrava al ritmo dei suoi guaiti, così acuti che parevano solcare la brezza come frecce.
«Smettila di abbaiare! Zitta!» ordinò, ma le sue parole si dispersero nel vento. La cagnolina si acquattò a terra, tenendo il didietro sollevato. Il suo abbaiare si fece più sonoro, insistente. Quasi ringhiava, ormai. Pareva richiamarlo, ammonirlo, supplicarlo. Le sue iridi erano pezzi di un firmamento in tempesta, nebulose e limpide, quasi spettrali.
«Insomma! Basta!» urlò ancora Erik, facendo per sferrare un calcio nella direzione della cucciola, che però si scansò agilmente, senza spezzare il contatto visivo con il ragazzo. Cominciò a saltellare sul posto, avanzando a poco a poco nella direzione del giovane, che la fissava senza sapere come comportarsi. Era solo un cane di piccole dimensioni, poco più grande di un gatto. Cosa avrebbe potuto fargli, se anche l'avesse attaccato?
All'improvviso, la creatura, che era ormai vicinissima alle sue gambe, addentò l'orlo dei suoi pantaloni e cominciò a tirare con forza.
«Ehi! Ma cosa fai? Mi strappi i pantaloni così!» esclamò il ragazzo provando a divincolarsi, ma la cagnolina non era intenzionata a lasciare la presa. Stringeva le mascelle e ringhiava, piantando gli artigli nel terreno e lasciando dietro di sé piccoli solchi. Certi suoi strattoni erano così forti che al giovane sembrava quasi di perdere l'equilibrio.
Erik digrignò i denti, preso dall'irritazione. Si chinò in uno scatto fulmineo e, senza curarsi della propria irruenza, avvolse le mani attorno all'esile corpicino della bestiola, teso per lo sforzo. L'animale, stranamente, non sembrò farci caso.
A quel punto, il giovane fece per allontanare la cucciola da sé con la forza delle braccia, senza risultato. Cominciò quindi a strattonare il corpicino, scalciando alla rinfusa. La bestiola si teneva forte a lui, serrando ancor più le zanne e ignorando l'inutile violenza che quello stolto ragazzo stava utilizzando contro di lei.
Ma come poteva lui sapere chi era lei in realtà? Come poteva immaginare che quella piccola anima era già stata protagonista di un'altra storia, molti anni prima? E come poteva giungere alla conclusione che essa sarebbe irreversibilmente entrata a far parte della sua storia?
All'improvviso, l'aria fu attraversata da un rumore, quello di un tessuto che si strappa.
La cagnolina bianca si ritrovò catapultata all'indietro, con un brandello dell'orlo dei pantaloni di Erik in bocca. Per qualche secondo i due si fissarono in silenzio.
Quello scambio di sguardi era un enigmatico gioco, una partita a cui nessuno dei due sembrava voler porre fine.
La cucciola non abbaiava più. Si limitava a osservarlo, senza mollare il pezzo di stoffa. Sembrava volergli comunicare qualcosa, trasmettergli un'informazione che lui doveva sforzarsi di cogliere. Erik scrutava quelle piccole, lucide iridi come si contemplerebbe il proprio riflesso tremolante in una pozza d'acqua. Più le guardava, più le assimilava alle proprie.
Turbato da quelle riflessioni e improvvisamente desideroso di allontanarsi da quel posto, il ragazzo avanzò di lato, facendo per aggirare il corpo della cagnolina e, di conseguenza, sfuggire al suo magnetico campo visivo.
Si diede dello sciocco per l'assurda incertezza che trapelava dai suoi movimenti impacciati, lenti, cauti. Eppure, temeva che uno scatto repentino potesse provocare la reazione dell'animaletto, per cui continuò a spostarsi con la lentezza di una tigre che spia il proprio ignaro bottino.
La brama di raggiungere un luogo sicuro si aprì un varco nel suo cuore, aumentandone le pulsazioni finché non furono percepibili nell'aria immobile.
Tuttavia, una ben nota voce giunse a ostacolare i suoi propositi.
«Datti una mossa, Erik. Sottomettila» mormorò la sua anima. «Non avrai mica paura di un cagnolino indifeso?»
«Certo che no!» rispose Erik, stizzito. «Ma quale idiota attaccherebbe briga con un cane? Mi allontanerò silenziosamente e lei non mi intralcerà più».
«Fa' come vuoi...» borbottò ancora lo spirito. «Vorrà dire che morirai ucciso da qualche belva. Se non riesci neanche ad avere la meglio su una pallina di pelo come questa...»
«Non sono mica così debole!» esclamò allibito il giovane.
«Bene. Allora dimostralo. Attacca questa bestiaccia prima che lei attacchi di nuovo te».
«No! Cosa vuoi che faccia? Che mi metta a correre come un idiota dietro a un cane? Ho comunque una dignità da mantenere!»
«Quella l'hai persa venendo al mondo...» sghignazzò la voce, indispettendo ulteriormente un già nervoso Erik. «Ora ascolta. Te lo ripeto ancora una volta: attaccala, codardo!»
«Smettila di darmi del codardo!» bofonchiò adirato il giovane, ma la voce non faceva che ridacchiare.
«Ma è quello che sei, caro! Oh, sì! Un fragile, misero, ripugnante codardo!»
Erik ruggì. La sua anima sapeva bene che tasti premere per farlo scattare come un giaguaro: nessuno poteva dare del codardo alla "tigre". Si avventò sulla cucciola, solo apparentemente inerme. Essa, però, fu più svelta di lui. Si scansò con una velocità tale che la sua figura parve farsi intangibile, rarefatta come l'aria sulla vetta di una montagna.
Cominciò a correre con foga, distanziandolo rapidamente di diversi metri. Ansimava leggermente, tenendo la rosea lingua penzoloni. A ogni passo le sue orecchie le battevano contro il muso, emettendo un rumore sordo simile al battito d'ali di un'aquila. Il tocco delle sue zampe sul terreno era così leggero che esse parevano sfiorarlo appena. Là dove passava, gli steli si piegavano, per poi ritrovare la loro posizione come se nulla fosse successo.
Erik, dal canto suo, non percepiva nient'altro che dolore e rabbia. Una ad una riapparvero le fiammelle azzurre, danzando leggiadre nel nero che lo avvolgeva vorace e sussurrando a ripetizione lo stesso, lugubre, motivo. Si avvicinavano e si allontanavano, ondeggiavano e si rincorrevano, si mescolavano e si respingevano. Scottavano, e allo stesso tempo emanavano gelide scintille che lambivano le sue iridi in un'esplosione di dolore.
Quando l'oscurità cominciò a diradarsi, il percorso davanti a lui era sfocato. Percepiva appena il fragore ritmico dei suoi passi e il leggero scalpiccio della cagnolina. Sentiva il desiderio di gridare, di spaventare, di sottomettere. Era la stessa sensazione che aveva già provato quella mattina, che, se da una parte lo faceva soffrire, dall'altra gli provocava un godimento intenso.
«Sei mia!»
Le parole gli sfuggirono in un automatismo. Non riconobbe la sua voce: la sua sonorità era più profonda, quasi baritonale, e aveva poco di umano. Il suo viso fu stravolto da un ghigno crudele. La cagnolina non dava segno di voler rallentare, aumentando gradualmente la velocità, finché non deviò verso destra. Il ragazzo non notò questo cambiamento di traiettoria, fin quando non fu troppo tardi.
«Arg!»
Se un istante prima era in piedi, a rincorrere una nuvola di pelo candido, quello dopo si ritrovò carponi, con le ginocchia sporche di terra e una caviglia dolorante. Il bruciore agli occhi si spense in un attimo, e con esso la furia. Scosse la testa per scrollare via lo sconcerto, sbatté più volte le palpebre e respirò profondamente. Ansimò per qualche istante, incapace di muoversi. Poi, ripresosi, si girò all'indietro, scoprendo che la causa della sua caduta era una radice sporgente, resistente e nodosa, sotto la quale il suo piede si era infilato.
«Accidenti!» borbottò, rialzandosi e massaggiandosi la caviglia pulsante.
Si guardò intorno, studiando il luogo in cui le sue gambe l'avevano condotto: una profonda selva, probabilmente quella che aveva scorto. Non aveva neanche colto la fatica della salita, a causa della confusione che regnava nella sua testa durante la corsa.
«Bene... e ora?» si chiese, lasciando vagare lo sguardo nelle tenebre rinfrescanti che avvolgevano i fusti degli alberi come coperte fatte di notte. Un fruscio sinistro rimbombava nelle sue orecchie, vorticando tra le chiome e agitando le foglie.
Si alzò in piedi, scrollandosi la polvere e il fango di dosso. Larghi strappi si erano formati in corrispondenza dell'orlo destro dei suoi pantaloni, là dove la cucciola l'aveva strattonato, e delle ginocchia, che, quand'era caduto, si erano sbucciate. Il bruciore, tuttavia, era leggero e quasi insignificante, poco più che un formicolio.
Mosse in avanti il piede destro, per poi adagiarlo in terra a percorrere un primo passo, subito seguito da molti altri. Come un abile felino delle foreste, teneva in allerta tutti i sensi, preparandosi a correre al minimo segnale di pericolo. L'odore del sangue che gli aveva screziato le ginocchia avrebbe potuto attirare qualche animale selvatico, per cui, non avendo nulla con cui lavarsi e disinfettarsi, dovette sfruttare unicamente le capacità acquisite nel tempo, unite a un pizzico di fortuna.
Passarono interminabili minuti, forse ore, e nulla di periglioso si era ancora palesato di fronte a lui, tanto che Erik cominciava a ritenere che quella foresta fosse vuota. Il che sarebbe stato innaturale, vista la grande quantità di alberi su cui animali come scoiattoli o gufi avrebbero potuto costruire le loro tane. Eppure, l'intera fauna sembrava essere fuggita lontano da lui, nascosta in qualche anfratto remoto di quella natura rigogliosa.
«Oh, ma che noia! Forse avrei preferito incontrare qualche belva... Sarebbe stato più divertente...» borbottò il giovane, incrociando le braccia e ruotando gli occhi. Altro che morire sbranato... Andando avanti così sarebbe morto di noia!
Non gli era mai piaciuta la solitudine, e neanche quando la cercava era perché la voleva davvero: di solito era perché sentiva la necessità di isolarsi, di sfogare in autonomia le proprie debolezze, di riparare i buchi che a volte si formavano nella sua armatura apparentemente inscalfibile. Non gli piaceva quel lato della sua personalità: lo rendeva debole, umano, e lui non voleva essere così, né voleva che qualcuno si permettesse di provare a sottometterlo. Per questo aveva cominciato a divertirsi facendo scherzi: in quelle scorrerie trovava il nutrimento per maturare il suo spirito, per soddisfare quella porzione della sua anima che lo voleva potente, invincibile. Quello che inizialmente era un gioco, un passatempo come un altro, era presto divenuto una ragione di vita: senza quella parte non sapeva chi sarebbe diventato. Aveva iniziato a pensare che, seguendo la sua crescente passione per le peripezie, avrebbe potuto trovare la felicità, e così era stato. Si era lasciato abbindolare dal piacere che si scaturiva in lui al vedere i volti furibondi dei servi a cui ricopriva l'interno delle scarpe di colla o a cui attribuiva le colpe dei suoi misfatti, e ne era fiero. Ma ora era tutto finito. Non aveva più nessuno da importunare, nessuno con cui dare sfoggio del suo carattere impertinente, nessuno con cui condividere il suo divertimento. La solitudine che tanto odiava sarebbe divenuta la sua unica compagna.
«Ti stai forse scordando di me, Erik?» domandò la sua anima, falsamente offesa.
Erik sghignazzò: «No, ti ho dimenticata apposta».
«Ma come sei antipatico! E pensare che io non ti abbandonerò mai! Mi ripaghi così?» esclamò la voce. Il ragazzo la ignorò.
Andando avanti, gli alberi cominciavano a diradarsi, lasciando intravedere uno spiazzo che si allargava sempre più, come un buco nel mezzo della foresta. Il profumo rinfrescante dell'acqua colpì Erik in un'ondata, e lui lo inspirò profondamente, beandosi di quella fragranza. Non ebbe bisogno di chiedersi da dove provenisse quell'odore: di fronte a lui cominciò a delinearsi la figura tremolante di un lago, infossato in una depressione circondata dalla foresta. La luce del sole giocava con le acque blu che ne componevano la superficie piatta, dando origine a riflessi argentei, abbacinanti. Una cascata, che scivolava lungo il fianco di un monte, lo alimentava, scrosciando rumorosa. Le gocce che si originavano da quello sciabordio, attraversate dai raggi, si coloravano di diverse tonalità, creando un illusorio arcobaleno.
"Sembra uno di quei luoghi idilliaci in cui sono ambientate le storie che piacciono tanto a Clio... Che noia..." pensò il ragazzo. Poi, però, spinto dalla stanchezza e dalla sete, avanzò e imboccò uno stretto sentiero che attraversava la pietraia, principale ostacolo per il raggiungimento del lago. A ogni movimento, anche minimo, la terra franava sotto i suoi piedi e le rocce accennavano a sgretolarsi.
"Calma e sangue freddo. Calma e sangue freddo" ripeteva, allargando le braccia e serrando le mascelle per mantenere la concentrazione. Sentì improvvisamente caldo e cominciò a sudare: umidi rivoli gli striarono la fronte, scivolandogli ai lati degli occhi. Non doveva fare errori, o rischiava di provocare uno smottamento e di precipitare. Quante volte aveva già rischiato la vita quel giorno? Non abbastanza, evidentemente... Ogni passo che faceva era un rischio, ogni rimbombo sotto i suoi piedi una minaccia di morte. Si sentiva come un funambolo, sospeso sulla sua corda e sempre in cerca di un fragile, prezioso equilibrio, che da un momento all'altro rischiava di spezzarsi e di condannarlo a un'inevitabile, crudele fine.
Quando infine arrivò alla base della pietraia, poté tornare a respirare regolarmente. Si appoggiò con una mano a un grande masso che lo affiancava e riprese fiato con calma, stemperando la tensione accumulata.
«Dai, alla fine non è stato così male! Scommetto che ti sei divertito anche tu a rischiare la pelle!» esclamò l'anima, divertita.
«Sta' zitta, per favore...» borbottò Erik.
Poi, ripresa la posizione eretta, si avvicinò a grandi passi alla riva del lago e si chinò. Tenendo le mani giunte a formare una leggera concavità, le immerse nell'acqua fredda, e subito una sensazione di immenso piacere lo pervase. Si portò alla bocca i palmi traboccanti del liquido trasparente e bevve avidamente, sentendo la sostanza scivolare lungo la sua gola e donargli ristoro. Ripeté il gesto, non ancora dissetato, poi si passò l'acqua sul volto, sulle braccia e sulle ferite. Si sfilò le scarpe dai piedi doloranti e li lasciò scivolare al di sotto della superficie del lago. Un gemito di puro godimento gli lasciò le labbra. Si distese sulla schiena, sostenendosi sui gomiti, e chiuse gli occhi. Si concentrò sullo scrosciare della cascata e sull'ululare del vento, allontanandosi da tutto, disperso in un vuoto ristoratore. Il sole che gli scottava il volto provocava in lui sensazioni contrastanti: se da una parte lo rilassava, dall'altra lo infastidiva. Se una parte della sua anima gradiva quel nuovo calore, un'altra sembrava reclamare il gelo delle Montagne di Ghiaccio. Ignorò quel dissidio interno, rinchiudendolo in una parte remota del suo cuore.
La tranquillità fu infranta da un repentino fruscio proveniente da una manciata di cespugli, come se una folata d'aria fresca ne avesse accarezzato le foglie. Erik si ridestò immediatamente con un sussulto. Infilò i piedi, ancora bagnati, nelle scarpe, guardandosi poi intorno per scorgere la fonte di quel rumore. «C'è qualcuno?» chiese, come aspettandosi una risposta che non sarebbe mai arrivata.
«Magari è solo un coniglietto, oppure una lucertola» si disse, ma non ne era convinto. Sembrava qualcosa di più grande, all'incirca della taglia di un giovane uomo, che si muoveva carponi. Ma perché avrebbe dovuto trovare un altro ragazzo in quella foresta apparentemente deserta? Si convinse che non fosse possibile e, pur rimanendo guardingo, tornò a sedersi.
Quando il mormorio si replicò, decise di investigare con più attenzione, lasciando da parte quella serenità appena scoperta. Si avvicinò con cautela ai cespugli che aveva sentito frusciare, facendo attenzione a non fare rumore.
Non appena fu a pochi passi dagli arbusti rigogliosi, tra le cui fronde si scorgevano bacche blu e apparentemente succose, un sussulto li scosse, spostandosi nella direzione opposta rispetto a quella da cui il giovane stava arrivando. Seguì con lo sguardo le piante vibrare, poi scattò in corsa. Una mossa azzardata, forse, anche per uno come lui, ma Erik non ci fece caso. Fiancheggiò i cespugli, fino a quando non vide il tremolio deviare, inoltrandosi in una parte più fitta di vegetazione nella quale avrebbe fatto fatica a raggiungerlo. Egli, però, non aveva intenzione di arrendersi, né di fuggire come un codardo. Si infilò tra i cespi, arrancando a fatica tra le fronde che gli arrivavano fino alla vita. Navigava in quel mare di sterpaglie anche servendosi delle braccia, tramite le quali cercava di spingersi in avanti e di ausiliare, in qualche modo, il movimento delle gambe. Poteva udire il rumore acuto dei suoi pantaloni che si strappavano, così come il maglione.
Ad un certo punto, si sentì trattenere da dietro. Provò a tirare con tutte le sue forze, ma, sentendosi soffocare, smise. «Ma che diamine...?» borbottò, infastidito. Si voltò e notò che era il mantello che indossava ad essersi impigliato tra i rami, tenendolo prigioniero lì. Vedendo quanto ciò lo ingombrasse, sentì l'idea di separarsene solleticargli la mente.
«Vuoi davvero abbandonare il mantello che tuo padre ti ha donato come regalo per il tuo decimo compleanno?» domandò il suo spirito.
«Lo stesso giorno c'è stata anche la mia Cerimonia dell'Oracolo, e, come ben saprai, preferirei dimenticarla» disse Erik.
«Tanto so che non la dimenticherai mai, per quanto tu lo desideri. E sta tranquillo che ci penso io a custodirla come il più prezioso dei tesori. Non permetterò che tu dimentichi chi sei. Non permetterò che tu mi dimentichi.»
«Come potrei dimenticarmi di me stesso?»
«Se dimentichi la profezia dell'Oracolo, dimentichi te stesso. In quelle parole sta tutto ciò che sei, la tua indole, il tuo futuro» proseguì l'anima.
«Ma molte persone vivono senza conoscere il proprio futuro e non per questo non sanno quale sia il loro vero Io. Non avrei potuto essere un ragazzo normale, ignaro del proprio avvenire?» chiese Erik, ritornando ancora una volta su quel quesito.
«Non a tutti è concesso il privilegio di conoscere il proprio Fato: perciò dovresti essere felice di trovarti tra questi pochi, di distinguerti dalla monotonia. Non desiderare di essere quello che non sei: limitati ad accogliere quanto ti è offerto. Costruisci la tua vita sulla base del destino che tu stesso hai accettato» concluse la voce dello spirito, per poi spegnersi.
Il giovane si riscosse, consapevole di essersi attardato fin troppo. Si slacciò il mantello e lo abbandonò lì, tra i cespugli, una macchia nera dispersa nel verde. Poi riprese ad avanzare, questa volta più velocemente. Quasi correva, ormai: non si preoccupava neanche più delle ferite che le spine degli arbusti gli aprivano nella pelle. In breve tempo poté vedere le piante frusciare a neanche un metro da lui. A quel punto saltò, cogliendo di sorpresa il suo bersaglio che, non accorgendosi di lui, non riuscì a schivarlo.
Successe tutto in pochi istanti.
Un capitombolo, un grido, un tonfo, e la consapevolezza definitiva di non essere più solo: sul viso della sua preda si spalancarono due iridi color ghiaccio, che si specchiarono nelle sue.
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