~ Capitolo dieci ~
Erik si ritrovò a studiare il volto di una ragazza all'incirca della sua età, forse di poco più grande, che, terrorizzata, cercava inutilmente di evitare il suo sguardo, le braccia sottili bloccate sotto la sua stretta poderosa. Il suo corpo fin troppo esile, racchiuso in una corta veste celeste lacerata in diversi punti, tremava violentemente. Lunghi capelli color castagna, resi crespi da polvere, fango e frammenti di foglie, le incorniciavano il viso pallido per lo spavento, facendone risaltare gli occhi, la caratteristica che più sconvolse il principe: erano uguali ai suoi nel colore, nella forma e nelle sfumature. Era come aver trovato una copia di sé stesso, ma al femminile.
«Tu... Tu sei...» si ritrovò a balbettare, incapace di formulare una frase completa, troppo emozionato per seguire un filo logico nel suo discorso.
«Un'Anima Gelida, sì, lo è. Ed è anche un po' scarsa, devo dire, per essersi lasciata sopraffare da un buono a nulla come te» gli rispose la sua anima.
Una tale scoperta fu per lui come una lancia che si infrangeva inesorabile contro la vetrata, già debole e traballante, delle sue convinzioni. Osservò i cocci rovinare davanti a lui, ma non si apprestò a raccoglierli: ormai erano perduti, svaniti, dimenticati.
"Ma... ma è impossibile!" ribatté mentalmente Erik.
«Credevi davvero di essere l'unica Anima Gelida? Il solo con le iridi azzurre? Non ti sono bastati i discorsi di Brennus e di tuo padre?» domandò lo spirito, captando il suo pensiero.
"Evidentemente no... che dici?" concluse il giovane. Ora aveva la prova che suo padre non gli aveva mentito, o almeno, non del tutto: i suoi occhi, per quanto rari, non erano unici!
Come se quella vetrata che prima si parava davanti ai suoi occhi fosse stata opaca, una volta distrutta Erik poté tornare a vedere e a prendere atto di ciò che stava facendo. Si sentì vittima di un improvviso disagio, che gli colorò le guance di rosso. Lui era la tigre, la giovane sotto di lui l'inerme, fragile antilope. Avrebbe scherzato sulla semplicità con cui era riuscito a sottomettere la sua preda, dando adito a tutta la sua indole impertinente, se solo fosse stato in sé.
La sua anima, invece, sembrava gongolare di fronte alla paura della fanciulla: la sentiva danzare nel suo cuore, agitarsi frenetica come un fuoco, ridere sguaiatamente. Si stava comportando come lui era solito atteggiarsi in passato, forse solo in modo più estremo, come se nessuna regola morale, neanche la più elementare, fosse intervenuta a placarla. Non apprezzava quella crudeltà eccessiva, ma neanche l'imbarazzo di cui si sentiva prigioniero. Ma allora, in chi poteva identificarsi? In chi era o in chi credeva di essere?
Non volendo arrovellarsi troppo su quell'ulteriore questione, proseguì a esaminare la ragazza misteriosa, che non aveva ancora reagito. Tutto ciò che sapeva di lei era il suo essere un'Anima Gelida, termine che neppure lui sapeva ancora spiegare pienamente. Era una selvaggia, nata nella foresta e allevata dai lupi? Era una giovane avventuriera desiderosa di scoprire il mondo e per questo inoltratasi troppo in profondità nella selva? E poi, un'Anima Gelida poteva anche non essere umana? Poteva essere una ninfa delle foreste? O una sirena che si trasformava in donna uscendo dall'acqua, come Nicole, l'eroina che Clio tanto ammirava?
«Ti rendi conto dell'idiozia di ciò a cui stai pensando? Non siamo mica in una favola!» gridò la sua anima. Questa volta Erik non poté darle torto. Ma allora, da dove veniva? Dato l'aspetto trasandato, ipotizzò che si trovasse lì da molto più tempo di lui.
«Ne sei sicuro? Guarda che neanche tu sei ridotto benissimo...» sussurrò lo spirito, sprezzante, alludendo ai pantaloni e al maglione strappati.
"Lo so, grazie per avermelo ricordato..." bofonchiò mentalmente Erik, in risposta, per poi scorrere lo sguardo sull'abbigliamento della ragazza. "Ma sono certo di non sbagliarmi: non hai visto questo abito? Starebbe stretto pure a Clio!"
La veste, di stoffa grezza e modesta fattura, era completamente lisa, tanto che al di sotto di essa si intravedevano le forme di un corpo magrissimo, consumato dall'inedia e dagli stenti.
Cercò nuovamente gli occhi, percorrendo i tratti del suo viso che, per quanto scavato e deperito, conservava ancora una certa delicatezza. Voleva vederli meglio, leggerli, studiarli, memorizzarne ogni dettaglio, come lo studente diligente fa con i propri libri. Li trovò. Non permise loro di dileguarsi di nuovo e, per far sì che non potessero sfuggirgli, vi piantò dentro i suoi, come chiodi. Erano due pozzi d'acqua dolce che, se si avvicinava abbastanza l'orecchio, si potevano sentir scrosciare, mormorare, raccontare. Erik, però, non comprendeva la loro lingua fatta di silenzi e di impercettibili sussurri, per cui si limitava a fissarli senza capire cosa volessero comunicargli, come aveva già fatto con gli occhi di suo fratello il giorno della Cerimonia dell'Oracolo.
Ciò lo scoraggiò alquanto, dato che sperava di svelare qualche dettaglio ancora sulla misteriosa giovane, a cui, suo malgrado, non poteva dar credito: cosa poteva aspettarsi da una ragazza della quale non conosceva neanche ancora il nome? Forse avrebbe potuto sfruttare una sua distrazione per ribaltare la situazione. Forse la sua paura era finta, i suoi tremiti semplice recitazione, la sua silenziosa richiesta di pietà un tentativo di indebolire i suoi propositi. In fondo, la fiducia è un dono inestimabile di cui pochi sono veramente degni.
La strinse più forte, finché non la sentì gemere di dolore. Sembrava sul punto di piangere, ma le lacrime, come intrappolate negli occhi di cristallo, non le rigarono il viso, sempre più bianco. Non opponeva resistenza in alcun modo: si limitava a subire, senza provare a divincolarsi. Sembrava non esserne capace: i suoi muscoli, appena percepibili sotto la pelle, erano tesi per la sofferenza, ma non tentava neanche di allontanare da sé l'assalitore con la forza degli arti. Ma come avrebbe potuto, dato che sembrava sul punto di spezzarsi, fragile com'era?
"Se è un'attrice, devo ammettere che recita bene... Quasi meglio di me... Sarà un'altra caratteristica di noi Anime Gelide?" pensò Erik.
«Non perdere tempo con queste stupidaggini, stolto d'un ragazzo! Estorcile informazioni!» comandò lo spirito, autoritario.
"E che informazioni vuoi che le estorca?" si disse il ragazzo.
«Devo proprio dettarti le domande da fare, neanche fossi un bambino di sei anni?»
"Certo che no! E non ho intenzione di mantenere questa posizione a lungo. È piuttosto scomoda..." ribatté mentalmente Erik, scansandosi e infilandosi in un arbusto. Ignorò i ramoscelli che gli pungevano la schiena.
La giovane si divincolò rapidamente, sempre senza pronunciare una parola. Inoltrò lo sguardo tra i cespugli, in cerca di una via di fuga. La paura non aveva ancora lasciato il suo viso, che sembrava scolpito in un blocco di marmo. Il respiro era affannoso, le alzava e abbassava ritmicamente il torace. Poi, inaspettatamente, tornò ad appostarsi carponi e provò ad allontanarsi da lui.
«No! Aspetta!» la richiamò Erik, allungando una mano fino a sfiorarle una spalla. La clavicola era ben percepibile contro la pelle tesa. Lei sussultò a quel tocco, voltandosi di scatto e fissando il suo sguardo di diamante in quello del ragazzo.
«Chi sei tu?» le chiese. Non sapeva se la sua domanda sarebbe stata accolta o rifiutata con sdegno, ma voleva almeno tentare. Se chiunque altro avrebbe pensato che quella fanciulla così pallida e gracile da sembrare un fantasma fosse inquietante, lui la trovava invece interessante: emanava un gradevole odore di muschio e di foresta, e dalle morbide labbra leggermente imbronciate trapelava una dolcezza diversa da quella che aveva sempre visto nella sorellina, una dolcezza più matura, aggraziata, lieve.
Lei non rispose: muoveva la bocca ma da essa non usciva alcun suono, se non un debole soffio. Era forse muta? Erik si arrischiò a chiederglielo, e lei scosse la testa, persistendo tuttavia nel suo attonito silenzio.
«Ma allora, se non sei muta, perché non mi parli? Ti sembro forse una creatura pericolosa? Vedi per caso delle ali mostruose dietro la mia schiena? Sai, non sarebbe male averne un paio... Mi farebbero comodo...» scherzò Erik. La giovane non cambiò espressione.
«Capisco, fai fatica a fidarti di uno come me. Tranquilla, non sei la sola. A volte neppure io mi fido di me stesso...» proseguì lui nel tentativo di approcciarsi, invano. Era come parlare a una statua di pietra, che, nella sua infrangibile staticità, ascoltava tutto, pur senza rispondere.
«Eddai... Pensavo che volessi attaccarmi! Ho agito d'istinto! Chiunque nella mia situazione avrebbe fatto lo stesso!»
Ancora nessuna reazione, se non quei sussurri concitati, più un movimento di labbra che un tentativo di parlare. Erik sentì una crescente irritazione avvinghiarglisi attorno come una fune.
«Senti, mi dispiace di averti atterrata in questo modo, neanche fossi stata una criminale. Ma, capiscilo, non ti volevo fare alcun male! Nonostante la mia reputazione non sia delle migliori, ti posso giurare che non ho mai ucciso nessuno! Al massimo ogni tanto mi diletto con qualche scherzo, niente di più! Dai, parlami! Dimmi almeno il tuo nome!» esclamò a quel punto, forse con eccessiva irruenza.
Un refolo di vento smosse alcune ciocche brune della ragazza, che ricaddero sulla sua fronte a coprirle in parte gli occhi, come a volerli proteggere dallo sguardo affamato del giovane.
«M-Martha.» Una voce piattissima, uno sbuffo o poco più, fu tutto ciò che Erik riuscì a sentire. Eppure quel suono così delicato conteneva un nome.
«Ah, ma allora ce l'hai la lingua! Credevo che un gatto te l'avesse mangiata!» esclamò con impeto. Sorrise, felice che, finalmente, la ragazza si fosse decisa a rivelargli quel minuscolo brandello della sua identità.
«Martha... Martha... Sai che sei la prima Martha che conosco? Beh, non che abbia incontrato molte altre ragazze prima di te, e della maggior parte di queste non conosco neanche il nome, però...» esclamò il principe, senza smettere di sorridere. «Comunque, io sono Erik.» Le porse una mano affinché lei gliela stringesse.
La giovane lo fissò qualche istante, senza muoversi. Vedendo l'espressione sul volto dell'interlocutrice, Erik ritirò il braccio, imbarazzato. Si grattò la nuca con fare disinteressato e ridacchiò, in cerca delle giuste parole.
«Beh, mi sembra che tu abbia altro da fare. Allora... ti lascio sola. Me ne torno nel mio angolino desolato, tutto solo, ad attendere la morte. Addio, Martha» disse, senza sforzarsi di celare il sarcasmo, facendo per voltare le spalle alla fanciulla.
«N-no, aspetta» si sentì richiamare Erik. Martha si era tirata su a sedere, e ora teneva le gambe incrociate, fissandolo con occhi malinconici. Quell'espressione accentuava le già evidenti occhiaie.
«Ebbene?» domandò lui, cercando di sembrare serio.
«N-non andartene» mormorò la giovane. «Mi d-dispiace m-mostrarmi così, ma...»
«Tranquilla, sono abituato con mia sorella Clio. Anche lei si comporta così con gli sconosciuti, sai?» esclamò il ragazzo con tono gioviale. Martha, come colpita da un improvviso male, abbassò la fronte e dette in un profondo sospiro.
«Ho forse detto qualcosa che non va?» chiese Erik.
«N-no, niente» sussurrò lei, rialzando la testa e portando i capelli nodosi dietro le orecchie, così da lasciar sporgere sulla fronte solo un ricciolo ribelle che, birichino, si annodava su sé stesso in un'elica.
Il giovane attese qualche istante prima di parlare. «O-ok... Quindi...»
«D-davvero non mi farai del male? N-non mi ucciderai?» uggiolò Martha con tono supplichevole, pietoso.
Erik rimase scioccato di fronte a quelle domande. «E perché mai dovrei ucciderti? Te l'ho detto: non sono un assassino!» esclamò spalancando le palpebre fino a sentirle bruciare.
«N-non è questione di essere o meno un assassino. A-anche la persona più m-mite e caritatevole al mondo non si farebbe scrupoli a f-fare del male a quelli come me. N-non vedi che s-sono un'Anima Gelida, uno spirito maligno dai p-poteri incontrollati?»
«Spirito maligno? Poteri incontrollati?» si incuriosì il giovane, portandosi una mano fin quasi a sfiorarsi le palpebre, come se sulle dita potesse vedere il riflesso dei suoi occhi. Martha annuì.
«Ok, d'accordo, ma non ho ancora capito una cosa... Perché mai dovrei ucciderti io, che sono tanto Anima Gelida quanto lo sei tu? Ci manca che provi a far fuori chi si trova sulla mia stessa barca!» esclamò Erik, indicandosi gli occhi.
«T-tu? A-Anima G-Gelida? M-ma i t-tuoi occhi... I-i tuoi occhi sono neri!» disse Martha, confusa.
«Cosa? No! Sono uguali ai tuoi!» strepitò lui, scosso.
Martha tremò, e a quel punto Erik quasi smise di vedere per la confusione che riprese a vorticargli nella mente, ottenebrando quella piccola certezza che credeva di aver conservato, quel ridotto frammento di vetrata che la lancia non aveva ancora colpito. No. A quello non avrebbe ceduto.
«Sono azzurri! Lo giuro! Sarà l'ombra che ti inganna...» esclamò, stringendo tra le mani quella convinzione che prima era solida, ma che ora era come tutte le altre: vacillante, incerta, fragile.
Si alzò in piedi e cominciò a correre verso il lago. Schivava i cespugli senza neanche accorgersene, mentre altri sembravano ritrarsi impauriti al suo passaggio, come sudditi al cospetto del loro sovrano. Sentiva il suo spirito in fiamme, per la confusione e per la paura. In poco arrivò e si affacciò sull'acqua, in spasmodica ricerca del suo riflesso. Quando lo trovò, si calmò un poco, tirando un sospiro di sollievo: i suoi occhi erano del loro abituale color ghiaccio.
«Erik!» Era Martha che lo chiamava, appena sbucata dai cespugli e ricoperta di sterpi. «C-cosa fai?»
«Dovevo averne la conferma...» disse soltanto il ragazzo, guardandola.
La giovane rimase immobile sul posto, a bocca spalancata. Erik quasi temette di aver fermato di nuovo il tempo, quando però la vide ricominciare a muoversi. «O-ora i tuoi occhi s-sono azzurri, come d-dicevi! M-ma... ma al-lora era d-davvero l'ombra c-che mi ingannava. C-chissà quanto t-ti sarò s-sembrata sciocca...»
Più tranquillo, seppur non ancora completamente rasserenato, il principe rispose: «Non preoccuparti, sono cose che capitano. Ma ora, fidati di me – oh, quanto mi fa strano dirlo! – Vorrei essere tuo amico. È giunta l'ora che io abbandoni, almeno in parte, il mio atteggiamento da mascalzone. Sai, non ti appaga quando sei da solo...» Si fermò un attimo, per cogliere una reazione nell'interlocutrice, che per ora si limitava a fissarlo, attenta. «Tu sarai sicuramente più esperta di me su questa foresta. D-diventerai la mia... guida?» Pronunciò l'ultima frase con enorme sforzo, a causa della sua anima che cercava di trattenerlo.
Martha arrossì leggermente, ma provò a nascondere l'imbarazzo guardando nella direzione del lago, le cui acque, in un piacevole sciabordio, si infrangevano sulla costa, levigando i ciottoli. Questi, accarezzati dal sole, scintillavano come lacrime di roccia. «N-non so se ne s-sarò in grado. Sono anni che non incontro anima viva, e quasi mi sono s-scordata come fare a parlare» mormorò, arrotolandosi tra le dita una ciocca di capelli.
«Dai, per favore! Io... io non ce la farò da solo!» Non gli costò poca fatica ammetterlo, ma era vero: non sapeva nulla di quella selva, né sulle creature che la abitavano. La "tigre" si stava sottomettendo, ma ne valeva la pena: solo così avrebbe avuto qualche speranza di prolungare la sua breve esistenza. Forse per questo il destino gli aveva affibbiato il peso di una maledizione: per cambiarlo, per renderlo migliore. «Allora, mi aiuterai?» chiese ancora.
Ormai disperava di ricevere un "sì" come risposta. In fondo, non si era comportato bene con quella giovane: prima l'aveva aggredita, poi l'aveva abbandonata tra i cespugli senza darle una minima spiegazione. Avrebbe avuto tutti i diritti di negare, di andarsene, gettandolo tra le mani della sorte. Proprio per tutti questi motivi, Erik si sentì invadere dalla gioia quando sentì la giovane rispondergli con quelle tre semplici, inaspettate parole: «Sì, lo farò».
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