Tutti i suoni intorno a lui si fecero fiochi, ovattati, come se le sue orecchie fossero state otturate dal cotone. Le case annerite dal tempo e dalle intemperie svettavano dietro i tanti corpi che lo circondavano, mentre le alte montagne, parzialmente oscurate da nubi tempestose, dominavano la scena, più severe che mai, e parevano protendersi verso il cielo grigio. Alle sue spalle, la scultura della tigre lo scrutava torva, come pronta a saltargli addosso e a divorarlo. La pioggia aveva ricominciato a cadere delicata dal cielo, e di nuovo lui non la percepiva sulla pelle, ma non ci faceva più caso. Altri pensieri gli galoppavano nella mente come cavalli selvaggi.
Erik continuava a fissare l'uomo sospeso in aria con un misto di astio, meraviglia e terrore. Brennus intanto si dimenava come un delfino, sotto gli sguardi immobili del popolo, troppo spaventato per intervenire. Qualcuno urlava, altri fissavano sbalorditi il generale dell'esercito, uomo autorevole e temuto, ora indifeso, sconfitto da un ragazzo di appena quindici anni. Un coraggioso bambino, carico dell'innocente curiosità tipica dell'infanzia, scattò in avanti per osservare meglio la scena. La madre, colta di sorpresa dalla fuga del figlio, gli corse dietro e lo fermò prima che potesse perdersi in mezzo alla folla. Il piccolo provò a lamentarsi, a dimenarsi, ma la donna lo stringeva forte a sé, ignorando i suoi capricci.
"Sono davvero stato io? No. Non è possibile" pensò il giovane, incapace di elaborare la situazione. Scosse più volte la testa, sbatté ripetutamente le palpebre, ma la scena non cambiava: il tumulto da lui causato lo circondava ancora, soffocandolo. Il respiro gli era rimasto bloccato in gola, la preoccupazione pulsava dolorosamente nel suo petto. Continuò a guardare il soldato sospeso nel vuoto, che gli lanciava contro improperi che percepiva appena e che non lo scalfivano minimamente, come se il suo corpo fosse stato protetto da un'armatura.
«Fammi subito scendere, stupido ragazzo!» gridò il soldato, furente di rabbia. Sembrava volesse ucciderlo da un momento all'altro: la sua espressione faceva paura. Il giovane lo sentì appena. Non aveva idea di come fare a porre fine a quella situazione così incomprensibile ai suoi occhi, ma non aveva intenzione di riportare a terra quell'uomo. Sapeva che, se lo avesse accontentato, quello ne avrebbe approfittato per portare a termine il suo crudele compito.
«E se io non lo facessi?» esclamò il fanciullo provando ad allentare la tensione. Cercò di trovare un lato divertente in quella situazione assurda: vedere il tozzo e muscoloso generale svolazzare come un uccello troppo cresciuto normalmente sarebbe stato esilarante. Tuttavia in quel momento Erik non sentiva proprio il desiderio di ridere.
«Se non lo fai, ti trapasso con la mia lancia quella stupida testolina che ti ritrovi» esclamò in risposta Brennus.
Quando il giovane vide la mano paonazza dell'uomo stringersi attorno al lungo e affusolato manico della stessa lancia con cui aveva tentato di uccidere i suoi due amici, ebbe un moto di spavento. Osservò per un momento Brennus mentre alzava l'asta, pronta a lanciarla nella sua direzione. Poi, all'improvviso, perse di nuovo il controllo del suo corpo. Percepì una fitta al braccio mentre una forza invisibile lo attraversava. Improvvisamente, il corpo di Brennus si immobilizzò, con ancora l'arma dalla punta affilata stretta nel pugno.
«Co... cosa?» mormorò Erik, riprendendosi da quel momento di tranche. Vedendo il corpo immobile del soldato, sempre sospeso in aria, si abbandonò completamente al terrore.
Notò che tutti lo fissavano, ma con sguardi persi, vuoti. Non si percepiva un fiato, né un movimento, né un alito di vento. Il giovane si ritrovò ad ascoltare il canto assordante del silenzio. La natura pareva immota: era come se il tempo si fosse fermato. Solo lui sembrava potersi muovere.
Per un momento l'idea della fuga gli solleticò la mente, ma poi si ricordò dei suoi amici. Louise e Steve erano ancora a terra, accucciati in un angolo, e nei loro sguardi immobili si mescolavano sollievo e tensione. Persino il sangue aveva cessato di sgorgare dalla gamba del ragazzo. Non poteva abbandonarli: quell'innaturale staticità sarebbe presto finita, e a quel punto Brennus, in un modo o nell'altro, li avrebbe uccisi.
Pensò di approfittare di quella situazione così strana. Provò a fare qualche passo e scoprì, con suo sollievo, che effettivamente le sue gambe erano libere di muoversi. Inspirò in profondità, cercando un po' di coraggio. Si attardò a fissare alcuni uomini che stavano cercando di scappare nella direzione del castello. "Stavano andando ad avvertire mio padre" pensò il giovane. Non poteva pensare a come avrebbe reagito il re a sapere una cosa del genere: ci avrebbe creduto? Se sì, aveva delle risposte alle sue mille domande? Sapeva qualcosa che lui non conosceva?
"Certo che no - si rispose Erik - Me l'avrebbe detto".
Arrivato al di sotto del soldato, il ragazzo si fermò, piegò le ginocchia e spiccò un salto con tutta la forza che aveva nelle gambe, per poi aggrapparsi al suo piede, coperto da un rigido stivale di ferro. Lo strinse forte per non cadere e osservò per un momento il vuoto sotto di lui. Il pensiero che l'uomo avesse potuto notarlo, avere una minima reazione di fronte al suo gesto sconsiderato lo preoccupò. Facendo attenzione a non perdere la presa, guardò il volto del più grande, sempre fisso e impassibile.
Tirò un sospiro di sollievo e cominciò ad arrampicarsi sul corpo di Brennus. Afferrò il polpaccio muscoloso, sempre coperto di freddo metallo. Le sue mani cominciarono a scivolare lungo l'armatura, ma lui non aveva intenzione di tornare a terra. Serrò i denti per la fatica e risalì fino all'addome. Si aggrappò quindi con forza ai fianchi ferrei e sollevò una gamba. Riuscì a sfiorare il piede, ma poi il suo ginocchio scivolò e la sua presa si allentò leggermente. Con un moto istintivo strinse più forte, e le sue unghie iniziarono a grattare inutilmente il ferro, che non si scheggiava né si graffiava.
Boccheggiò in cerca d'aria e provò a ignorare lo sforzo. Chiuse gli occhi e concentrò tutte le sue forze sull'esercizio. Alzò nuovamente la gamba e questa volta riuscì ad appoggiare il suo piede su quello del soldato. Con un gemito stremato si sollevò. Avvolse un braccio attorno al corpo del soldato e si allungò fino alla lancia già tesa, pronta a vibrare il colpo. La colpì debolmente e questa si mosse leggermente, ma rimase nello stesso posto. Provò allora a spingerla più forte, ma la mano di Brennus la stringeva con troppa potenza. Tentò quindi di spostargli le dita per allentare la sua presa sull'arma.
Il suo corpo parve rivoltarglisi contro, indignato per l'eccessivo sovraccarico. Lo stomaco gli si rivoltò e una sensazione di nausea lo pervase. Ormai non sentiva più i suoi muscoli. Alla fine riuscì a smuovere le dita di uno spazio sufficiente a lasciargli la possibilità di sfilare la lancia dalla mano nerboruta e violacea. Respirando affannosamente, Erik afferrò il manico dell'asta, che, con estrema lentezza, scivolò via dalla presa di Brennus. Allora Erik, soddisfatto, si lasciò scivolare, tenendo ben saldo il suo bottino.
L'arma, accompagnando il suo corpo nel corso di quel piccolo volo, fendette l'aria statica con un sibilo.
Con un agile salto, Erik atterrò: ora lui era armato, mentre il suo assalitore era come un leone in una gabbia: grande e forte, eppure inerme. Solo in quel momento Erik sentì il desiderio di porre fine a quella situazione e, prima che potesse terminare il pensiero, un leggero sbuffo di vento gli accarezzò il viso sudato, e con esso sopraggiunse un turbinio di suoni, dirompente nel silenzio come il ruggito di una tigre.
Il giovane sussultò sorpreso, mentre il mondo riprendeva il suo solito ritmo battente. Un soffio di vita tornò a rianimare i corpi immobili degli uomini, e la pioggia ricominciò a picchiettare il pavimento in pietra levigata. Corse via in un angolo, tenendo stretta la lancia, e, una volta trovatosi a una distanza adeguata da Brennus, si voltò a guardarlo con l'espressione trionfante che era solito rivolgere ai servitori di palazzo quando provavano a rimproverarlo. Non appena il suo sguardo glaciale incontrò quello nero del soldato, cominciò inspiegabilmente a tremare, come era già successo con Adrian. Le imprecazioni e le minacce del nemico gli perforarono le orecchie.
«Lascia subito quella lancia, razza di mostriciattolo!» ringhiò il generale digrignando i denti, ma Erik, seppur tremante, lo guardò con tono di sfida.
«E perché mai dovrei farlo? Ti è caduta e io l'ho presa» esclamò il fanciullo con tutto il coraggio residuo che riuscì a trovare.
«No che non mi è caduta, idiota. Io so benissimo che cosa hai fatto. Non credere che io sia così ingenuo da non capire che sei stato tu a rubarmela! Sai, se mi fosse caduta, non credi che l'avrei vista?» borbottò Brennus con un ghigno irrisorio. Erik deglutì, non sapendo neanche lui come ribattere.
«Oh, povero sciocco ragazzo. Fino a un istante fa la lancia era nella mia mano, e ora, casualmente, tu la stringi nella tua... Ti sembra normale?»
Il giovane scosse la testa, tremando ma continuando a sostenere con valore lo sguardo dell'uomo più grande. Non voleva mostrargli la sua paura, anche se non riusciva in alcun modo a impedire il frenetico ballare delle sue gambe.
«Oh, povero stolto... Non hai mai guardato i tuoi occhi? Non ti sei mai chiesto perché nessuno di tua conoscenza li abbia di quel colore?» continuò Brennus con voce mielosa.
Al sopraggiungere di quella domanda, Erik rifletté: era vero. Suo padre gli aveva sempre raccontato che i suoi occhi di ghiaccio lo rendevano speciale, proprio perché lo caratterizzavano, distinguendolo da tutti gli altri uomini con caratteristiche simili. Le parole del re lo facevano sentire forte e importante, ma, al sopraggiungere del ricordo di un giorno in particolare, tornò a pensare che il segreto che nascondevano le sue iridi azzurre fosse molto diverso e molto, molto più oscuro.
Il castello era come sempre circondato dalla nebbia. Il giovane aveva appena otto anni, e la mattina l'aveva colto a guardarsi allo specchio, mentre, quasi per gioco, studiava con attenzione i suoi peculiari occhi chiari. I suoi amici glieli avevano fatti notare già più volte, e gli avevano esposto le loro teorie a riguardo.
«Forse quand'eri piccolo una palla di neve ti ha colpito in faccia e ti ha gelato gli occhi» aveva proposto Steve, che per concentrarsi si pasticciava il mento con le dita.
«Certo che no! - era sbottato Marc - è ovvio che non è la risposta giusta! È più probabile che tu sia nato con gli occhi blu come i miei e che poi si siano scoloriti».
Tuttavia Erik non sembrava condividere nessuna delle due teorie degli amici. Se davvero la neve gli avesse gelato gli occhi, non avrebbe forse sentito freddo? E non credeva che le iridi si potessero schiarire in così poco tempo. Aveva sempre sospettato che ci fosse una motivazione più profonda, misteriosa, ma non riusciva a capire quale. Aveva chiesto al valletto di chiamare il padre, cosicché potesse rivolgergli una domanda che gli frullava in testa da un po' di tempo.
Quando lo vide arrivare con in volto un sorriso affettuoso, il bambino si affrettò a rivolgergli il suo interrogativo: «Padre, ma cos'hanno di particolare i miei occhi? Perché nessun altro li possiede?»
Sperava di ottenere una risposta, ma il padre aveva continuato, come già le volte precedenti, a rimanere sul vago: «Oh, Erik, i tuoi occhi sono molto difficili da trovare, ma non sei l'unico che li possiede. C'è una leggenda dietro il loro colore, e forse un giorno, quando sarai abbastanza grande per capire, te la racconterò. Ora sei troppo piccolo».
«Non è vero! Io non sono piccolo! Io sono grande! Se c'è qualcosa che devo sapere, dimmelo ora!» aveva gridato il giovane alzandosi in piedi a fronteggiare il più grande, che lo guardava dolcemente. Ormai si era impuntato: non si sarebbe arreso fino a quando non avesse ottenuto una risposta soddisfacente.
«Te lo prometto, Erik. Un giorno ti spiegherò tutto» aveva concluso il re uscendo dalla stanza, abbandonando il figlioletto ai suoi dubbi, destinati a non venire colmati.
Il ricordo finì e la curiosità del giovane aumentò: forse, finalmente, avrebbe scoperto quella verità a lungo nascosta. Ma era pronto a sentirla? Era preparato a qualunque cosa avrebbe potuto venire a sapere? Un'angoscia ancora più pressante gli attanagliò le viscere. La realtà era davvero così terribile come sembrava? Fino a quel momento aveva vissuto in un lungo, idilliaco sogno? Doveva essere così, altrimenti un fedele servitore di suo padre, che sarebbe dovuto essere suo alleato, non avrebbe tentato di troncare in quel modo la sua giovane vita.
«Io... io non so niente» balbettò inghiottendo la sua paura, che gli piombò nello stomaco come una pietra. Desiderava solo continuare a sognare: non voleva essere risvegliato così brutalmente, trascinato a forza in una realtà che non aveva mai conosciuto.
Brennus lo guardò con i suoi occhi carichi d'odio e disprezzo. Poi scoppiò in una risata crudele, fredda, assetata di sangue. «Ne ero sicuro. Me l'avevi già dimostrato prima, quando eri apparso così stupito di fronte alla mia volontà di ucciderti. Non vedi tutta questa folla? Non vedi i loro sguardi atterriti? Non vedi che non hanno neanche il coraggio di fuggire? Hanno paura di te. Tu sei stato maledetto, mio "povero figliolo", e quelli come te meritano la morte».
A quel punto, le gambe di Erik cedettero. La sua mano si fece debole e la lancia gli scivolò tra le dita, atterrando con un boato poderoso. «M-maledetto?» balbettò. Cosa voleva dire? Aveva fatto qualcosa di male? Era una punizione per tutti i suoi scherzi?
«Proprio così. È possibile che tu sia così lento a capire? Non è poi così difficile. Potrai anche essere un ragazzo innocente, ma non è importante. I tuoi occhi ti hanno condannato. Ed è proprio per questo motivo che devo ucciderti, mostro!»
Quell'ultima parola rimbombò più volte nella testa del principe, rimbalzandogli ai lati delle orecchie e facendogli male al cuore. "Mostro". Nessuno l'aveva mai chiamato così. Lui era il figlio del re. Come poteva qualcuno permettersi di insultarlo in quel modo? L'avevano sempre rispettato tutti, nonostante i suoi frequenti misfatti e le sue scorrerie. Ora perché nessuno allungava un dito per difenderlo? Forse Brennus aveva ragione: forse era davvero lui a incutere in loro tutto quel timore.
Guardò di nuovo i suoi amici, gli unici che si erano schierati dalla sua parte. Erano forse rimasti ancora più sconcertati di lui, di fronte alle parole del soldato. «E... Erik...» balbettò Louise con voce strozzata, incrociando lo sguardo dell'amico. I suoi occhi verdi erano due tempeste smeraldine. Steve tremava appena al suo fianco, ma tentava di nasconderlo.
«Scappate ragazzi! Me la cavo da solo!» urlò il giovane principe a quel punto, facendo sussultare gli altri due. Nonostante la grande angoscia che provava in quel momento, non aveva intenzione di veder morire i suoi compagni di avventure. Non sopportava i loro occhi fissi su di lui come chiodi, carichi di preoccupazione. Non sopportava il pensiero di venire da loro giudicato per via delle parole di Brennus. Voleva solo che se ne andassero, che lo lasciassero solo con le sue paure.
«No, Erik! Non ti abbandoneremo qui! Quell'uomo potrebbe ucciderti!» rispose Steve alzandosi in piedi e reggendosi a fatica sulla gamba sana. I suoi occhi color nocciola, risplendenti di paura, tradivano la sua spavalderia. Il sangue gli imbrattava la pelle abbronzata, e l'emorragia non sembrava intenzionata a fermarsi.
«Beh, adesso non mi sembra proprio in grado di farlo - esclamò Erik rivolgendo un sorrisino di scherno all'uomo sospeso in aria - Ora andate! Tra poco arriverò e faremo finta che ciò non sia mai accaduto». Il soldato, intanto, li guardava con il suo ghigno folle e gli occhi che sprizzavano sangue, come a studiare con cura una mossa che gli avrebbe permesso di combattere nonostante la sua posizione sfavorevole.
Tentò di rivolgere un'espressione gioviale ai due compagni, ma gli uscì solo una smorfia. Si sentiva confuso, frastornato. Percepiva il bisogno di gridare, ma un groppo in gola glielo impediva. Gli altri due ragazzi lo guardavano. Erano così diversi dal solito: i loro volti, di solito sorridenti e amichevoli, erano ora contratti, severi, nervosi. Erik si fece cupo: si era pentito delle sue parole già subito dopo averle pronunciate. Anche lui sapeva perfettamente che, da quel momento, nulla sarebbe più stato come prima.
«Non possiamo ignorare ciò che sta accadendo! Tu hai appena usato la magia!» urlò Louise, rossa in volto. Un sussulto attraversò la folla, che cominciò ad accalcarsi ancora di più, come a cercare nel contatto una forma di conforto. L'odore acre della paura appestava l'aria.
Erik si immobilizzò. Il suo volto era una maschera di terrore. «No... Non può essere...» provò a mormorare. Si guardò le mani: erano avvolte da un'aura bianca, gelida, potente. Il sudore gli imperlò la fronte: non poteva credere alle minacce di Brennus, alle parole dell'amica, alle espressioni dei popolani, ai suoi stessi occhi. Non ci riusciva. Era troppo per lui.
«Gli uomini non possiedono la magia! Mio padre me l'ha sempre detto!» gridò, più per autoconvincersi che per far valere la propria opinione. La magia non era reale: era solo l'argomento di vecchie favole per bambini. I suoi amici erano tornati ad accucciarsi: ormai avevano le stesse espressioni degli altri abitanti del Villaggio dell'Ombra. Aveva perso anche loro.
«E se tuo padre ti avesse... Oh, come posso metterla in modo che tu possa capire... mentito?» sbraitò il soldato, e sembrò smuoversi leggermente dalla sua posizione.
«No... - mormorò Erik cominciando a indietreggiare e continuando a fissarsi le mani - No... non può avermi mentito... non l'avrebbe mai fatto...».
Lottava con tutte le sue forze contro quella che ormai era una certezza: lui era una minaccia, un pericolo per i suoi concittadini. Aveva visto la nebbia e la pioggia non sfiorargli la pelle, scintille azzurre svolazzargli attorno, Brennus venire sollevato da terra, il tempo fermarsi... Era davvero stato lui?
«No!» Si portò le mani alla testa, guardò il cielo buio e urlò con tutte le sue forze. I suoi polpacci sfiorarono il basamento marmoreo della statua.
«E invece sì! Arrenditi! Non puoi sfuggire più alla verità! Non puoi continuare a vivere! Sei un errore, il frutto di una maledizione! Non puoi salvarti! Nessuno di quelli come te si può salvare! Non so come tu abbia fatto a sopravvivere così a lungo, ma oggi metteremo la parola fine alla tua inutile esistenza!» gridò Brennus, più minaccioso che mai. Ormai non si premurava più di essere sospeso in aria: sembrava aver capito come fare a muoversi, e già si trovava a pochi centimetri da terra.
«No! Io non morirò! Io non sono un errore!» esclamò Erik facendosi bruciare la gola. L'aura bianca attorno alle sue mani si stava pian piano dissipando, e il soldato era sempre più vicino a terra. A vedere ciò, salì sul basamento della scultura e cercò protezione tra le zampe dell'enorme fiera.
«Oh, sì che lo sei» in qualche secondo l'uomo armato si ritrovò in piedi, a pochi metri di distanza dal giovane. I loro sguardi si incrociarono di nuovo: quello fiammeggiante di Brennus e quello rassegnato e impaurito di Erik.
Il fanciullo non sapeva cosa aspettarsi: pensava che il generale sarebbe corso verso la sua lancia, pronto a un nuovo combattimento. Non immaginava di certo che, dopo le innumerevoli minacce, avrebbe concluso con quelle due parole, due parole che si trovavano solo in antiche leggende. Leggende che nessuno, fino a quel momento, ricordava.
«Anima Gelida»
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