61. La Leggenda del Fiume

Mason

Un'espressione sofferente mi contrae i lineamenti del viso, mentre avvolgo le ferite nelle bende. Rivesto il taglio sul braccio con la garza, dopo averlo ripulito, e fascio anche il polso. Credo sia fratturato: riesco a malapena a ruotarlo.

Quando finisco di medicarmi, ripongo l'attrezzatura di pronto soccorso nella mia sacca da viaggio. Torno a sedermi sulla vecchia coperta a quadri - è diventata il mio letto, già da due notti - e studio ciò che mi circonda.

È la seconda notte che dormiamo in tenda. Abbiamo trascorso un paio di giornate intere a camminare per le Pianure, sfidando il freddo e la stanchezza. In compenso, però, siamo vicinissimi ad Arcandida: entro domattina varcheremo la barriera magica del regno, a detta di Mark.

Con mia immensa gioia, questa sarà l'ultima notte che passerò qui dentro, in una tenda stretta e soffocante, nell'accampamento provvisorio che abbiamo allestito. Non avevo mai sperimentato il campeggio, ma posso affermare che questa, come prima volta, è stata tremenda.

La lanterna accesa riflette il proprio bagliore nel minuscolo abitacolo. In un angolo sono ammassati i bagagli e la coperta-letto è adagiata al centro dello spazio. Mi accorgo della mia divisa da Generale, stropicciata e abbandonata tra i borsoni. Allungo il braccio e afferro gli indumenti che compongono l'uniforme.

Mi soffermo sulla giacca strappata. Dovrei farla rattoppare. Era di mio padre, in fin dei conti. Scruto la manica sinistra, ridotta in brandelli, e il tessuto intriso di sangue. Il sangue di Sophia. Mollo la presa sulla giacca, di scatto. Con i ricordi che riprendono a mitragliarmi la testa, appallottolo furiosamente i vestiti e li metto nella sacca, con movimenti incuranti e rabbiosi.

Perché è solo rabbia, che provo, quando ripenso a Sophia.

Rabbia verso le Ombre, verso me stesso.

Non riesco a cancellare dalla mente i suoi occhi dorati, che si spegnevano gradualmente sotto i miei. La sua espressione agonizzante, i suoi respiri corti. Il momento in cui mi sono girato, in cui ho visto la freccia che l'ha uccisa. Quella scena mi tormenta continuamente da giorni.

Ho sempre considerato Sophia come una sorella minore. Come Piper, la sorellina che mi è stata strappata via troppo presto. E, adesso, ho perso anche lei.

Sono già morti troppi Guerrieri, e siamo ancora al primo round di quella che sarà una lunga e tortuosa guerra.

So che non ne ho motivo, eppure non posso fare a meno di sentirmi in colpa. Sono il Generale, ho la responsabilità dell'Esercito e, in quel momento, tutti i Guerrieri presenti erano sotto la mia supervisione.

E non li ho protetti.

Non ho protetto nessuno.

Non ne sono mai stato in grado.

E ora un peso mi pressa il petto, spingendomi in un pozzo infinito di dolore e rimorso.

A distrarmi dalle mie considerazioni è un lieve mugugno. Abbasso lo sguardo. Al mio fianco, rannicchiata sulla coperta usurata, Bridget dorme. Le scosto i capelli dal viso e le accarezzo la pelle chiara. Osservo i suoi lineamenti rilassati, mente sonnecchia, e penso che, forse, qualcosa di bello mi è ancora rimasto.

L'ho trascurata, in questi due giorni, e ne sono consapevole. Mi sono comportato da vero egoista, ma avevo bisogno di stare da solo e di immagazzinare gli ultimi eventi. In me si è creato troppo scompiglio. Mi serviva un po' di tempo per sciogliere tutti i nodi.

Sono stati giorni sprecati: non ho risolto nulla. Ho passato la maggior parte delle ore a maledirmi e a crogiolarmi nel pentimento.

Accanto a me, Bridget si rigira sulla coperta. Cambia posizione un paio di volte e mormora qualcosa, così piano che non la sento. Ripete la stessa parola più volte, poi, le mie orecchie la captano.

«No» biascica, gemendo. Sul suo volto si scolpisce una smorfia, i tratti smarriscono la precedente tranquillità, piegandosi in un cipiglio angosciato. «No, no.»

Scuote la testa, come per enfatizzare le sue negazioni. Ha gli occhi chiusi e sono sicuro stia dormendo, ma non la smette di dimenarsi e di sussurrare quei "no".

«Basta» farfuglia, con la voce afflitta e la sofferenza che si stampa in faccia.

Comincio a preoccuparmi. L'apprensione aumenta quando i suoi respiri diventano affannosi e irregolari.
Sta facendo un incubo.

Le appoggio una mano sul braccio e la scuoto delicatamente, provando a svegliarla. Non apre gli occhi. Al contrario, si agita di più.

Si dimena, scuotendo la testa, ansimando e proseguendo a parlottare tra sé. Supplica qualcuno di smettere di fare qualcosa, e non ho idea di come aiutarla.

«No» quasi urla, «basta.»

«Bree» la chiamo, scrollandola leggermente.

Non mi sente.

Non avendo altra alternativa, le premo il palmo dietro la nuca e genero una tenue scarica elettrica, che la fa svegliare di botto.

Sobbalza e si mette a sedere. Si guarda velocemente intorno, l'espressione terrorizzata velata dai capelli, che le sono caduti davanti al viso, e il respiro pesante. Le sposto le ciocche dalla fronte sudata, liberando gli occhi lucidi e spaventati.

A quel contatto, si gira di scatto verso me. Tra le scaglie dorate delle sue iridi, coperte da una patina di lacrime, scorgo una paura cieca, buia, che risucchia la lucentezza dello sguardo.

La attiro contro il mio petto, circondandola con le mie braccia. Si lamenta e prova a staccarsi, ma la tengo stretta.

«Sta' calma. Sono solo io» la tranquillizzo, passandole le dita tra la chioma ramata.

Smette di divincolarsi e affonda il viso tra la mia spalla e il collo. Il suo corpo trema contro il mio; ascolto i respiri corti e qualche lacrima che le sfugge mi bagna la pelle. Continuo ad accarezzarle i capelli, finché non sento che si rasserena. I fremiti si bloccano e torna a respirare regolarmente.

«Solito incubo?» le domando, quando si è ripresa.

Fa un cenno d'assenso con la testa, strusciando la guancia sul tessuto della mia maglietta. Mi ha raccontato degli incubi che le trasmetteva Selene, da quando ha lasciato l'Accademia. Però, dalla notte in cui è tornata nella scuola, non è più successo. Dev'essere merito di Seth, stavolta.

«È stato diverso» sussurra. Nel suo tono basso percepisco un residuo di timore.

«Vuoi parlarmene?» chiedo, con cautela, senza sciogliere la presa sul suo corpo e proseguendo a carezzarle le onde rosse della chioma.

Scuote il capo, rifiutando di confidarsi.

«D'accordo» mormoro, accettando la sua decisione.

Rimaniamo fermi in quella posizione, seduti sulla coperta, nella tenda da campeggio. Lei raggomitolata tra le mie braccia e io che le bisbiglio parole rassicuranti, posandole baci tra i capelli e districandoli con le dita.

«Usciamo a prendere un po' d'aria?» le propongo, trascorso qualche secondo di silenzio.

Sorprendentemente, annuisce. Sgrovigliamo i nostri corpi intrecciati e ci alziamo. La prendo per mano, guidandola fuori dalla tenda, dopo aver raccattato la coperta e averla piegata sotto braccio.

All'esterno, tira un leggero venticello fresco. La temperatura bassa non è insopportabile. È mezzanotte passata e l'accampamento è immerso nella quiete. Al centro crepita un fuocherello, intorno al quale sono riunite una cinquantina di tende. La luce emessa dal falò rischiara il buio pesto che ci avvolge, permettendoci di scrutare il paesaggio circostante.

Andrew, l'Ufficiale dell'Esercito, è seduto vicino al fuoco. Probabilmente, è il suo turno di vedetta. Quando si accorge di noi, ci lancia uno sguardo confuso, con i suoi occhi marroni. Rispondo con un cenno della mano, facendogli intendere che è tutto a posto, e mi allontano con Bridget.

Usciamo dai confini dell'accampamento, calpestando la neve soffice, con il vento che ci accarezza la pelle. Attraversiamo un tratto delle Pianure Ghiacciate. Le vette dei monti Himmelsk, che si stagliano all'orizzonte, sembrano bucare il cielo, insieme alle stelle.

Ci inoltriamo in un boschetto di conifere, dove gli aghi color smeraldo degli abeti sono rivestiti di uno strato bianco. A un certo punto, gli arbusti si interrompono, lasciando spazio a un corso d'acqua.

È lì, che ci fermiamo. Slego le mie dita da quelle di Bridget e stendo la coperta sul terreno, davanti alla sponda del fiume. Mi siedo e la invito ad affiancarmi. Lei mi si posiziona accanto, per poi sdraiarsi e appoggiare la testa sulle mie gambe.

Ammiriamo il cielo sopra di noi, una tela blu scuro tempestata di puntini argentati e brillanti. Gli astri sembrano risucchiarti in un vortice infinito di magia, ti catapultano nello spazio più profondo, facendoti nuotare tra le galassie e i pianeti. Le stelle sono tantissime, minuscole e splendono, in compagnia della luna, rendendo la notte meno tenebrosa. Il firmamento si riflette sulle acque del fiume, che scorrono, placide e scure, increspandosi dolcemente.

«Questo posto è fantastico» commenta Bridget. I suoi occhioni si impigliano nei miei. Finalmente, il dolore è sparito dalle venature dorate, sostituito da una vivace luce di curiosità. «Come fai a conoscerlo?»

«I miei genitori me ne parlavano continuamente. Era il loro posto segreto, dove venivano a rifugiarsi, durante i primi mesi della loro relazione. Mi hanno raccontato questa storia così tante volte che ho imparato a memoria la strada per raggiungerlo» le spiego, sorridendo spontaneamente al ricordo di mamma e papà intenti a narrarmi le loro avventure ad Arcandida.

Incurva le labbra con dolcezza, guardandomi dal basso. Poi volta la testa, in direzione del fiume. Non parliamo per i seguenti minuti. Ascoltiamo la sinfonia che vibra nell'aria: il frusciare dell'acqua e i fischi del venticello si sono uniti in una danza melodica, aggiungendosi ai rumori della notte. La pace e la musica regnano sovrane, in questo piccolo angolo di paradiso.

«Di che fiume si tratta?» Bridget spezza il silenzio.

«È il fiume di Vann» rispondo, rammentando ciò che ho imparato riguardo la geografia di Antylia, durante le lezioni accademiche. Un altro particolare mi balena in mente. «Ricordi quando, qualche sera fa, prima di partire, ti ho accennato delle leggende che mi raccontava mia madre?»

«Sì, ricordo» conferma.

«Una di queste era proprio sul fiume di Vann. Ti piacerebbe sentirla?»

Come mi aspettavo, accetta senza pensarci due volte.

«Dunque» attacco, riordinando le vicende nella mia testa e riflettendo su come esporle, «millenni fa, Arcandida era popolata da due fazioni di dèi: le divinità dell'acqua e le divinità del ghiaccio. Erano gli uni gli opposti degli altri, sempre in disaccordo e in guerra. Tra le due parti scorreva un odio viscerale e reciproco. Perciò venne istituita una severa regola, che proibiva a due dèi di diverso schieramento di entrare in contatto. Se avessero disobbedito, gli dèi del ghiaccio avrebbero rischiato di essere sciolti dagli dèi dell'acqua, mentre questi ultimi di essere congelati dai primi. Come puoi immaginare, però, qualcuno infranse la legge. Una notte, Vann, un dio dell'acqua, e Snøe, una dea del ghiaccio, si incontrarono sulle rive di questo fiume. Tra loro fu amore a prima vista. Così, iniziarono a frequentarsi e a incontrarsi ogni notte, alla stessa ora, sulle sponde del fiume, che al tempo era soprannominato Grande Corso. Vann e Snøe non potevano toccarsi senza rischiare di farsi del male a vicenda, perciò vissero la loro storia d'amore a debita distanza, ma questo non li spinse a mollare. Continuarono così per mesi, vedendosi in segreto. Una notte, però, Snøe non si presentò all'appuntamento notturno. Vann l'aspettò per ore, ma lei non arrivò mai. E quando tornò a casa, dopo essersi arreso al fatto che la dea quella notte non sarebbe venuta, scoprì cos'era successo: il padre di Snøe aveva scoperto che sua figlia stava intraprendendo una relazione con un dio dell'acqua.»

«Come l'ha scoperto?» mi chiede Bridget, interrompendomi.

«Aveva notato i comportamenti strani di Snøe e una notte l'aveva beccata mentre usciva di nascosto. L'aveva fatta tenere d'occhio da qualche suo conoscente, che aveva scoperto della storia d'amore della dea e l'aveva riferito immediatamente a suo padre. Proibì alla figlia di vedere ancora Vann, ma lei rifiutò. Il padre di Snøe era un dio altolocato, membro del consiglio giudiziario degli dèi del ghiaccio, perciò prese la decisione che, a detta sua, era più giusta. Ne parlò con il consiglio e decisero di condannare a morte la dea, in modo che anche le altre divinità capissero la lezione e non commettessero il suo stesso errore. Snøe non rivelò mai l'identità di Vann e riuscì a salvarlo dal patibolo.»

Bree sposta lo sguardo dal fiume e lo rivolge a me. «È stata giustiziata, alla fine?»

«No, la sua fine fu diversa» dico, sistemandole una ciocca ribelle dietro l'orecchio. «Lei e Vann organizzarono un ultimo incontro, sulle sponde del loro fiume, la notte prima della cerimonia di morte, per dirsi addio. E capirono che ormai niente aveva più importanza, perché Snøe sarebbe stata uccisa e Vann sentiva di non poter vivere senza di lei. Così infransero la prima regola, quella che vietava contatti fisici tra dèi dell'acqua e dèi del ghiaccio. Si baciarono, e questo li portò alla morte. Vann divenne una statua di ghiaccio e Snøe si sciolse. La mattina seguente, le guardie divine setacciarono Arcandida da cima a fondo, ma di Snøe non c'era traccia. Finché non arrivarono al fiume e trovarono una statua di ghiaccio e una pozzanghera d'acqua. Non ci volle molto a capire come erano andate le cose. Snøe si unì alla neve del suolo e la statua di Vann venne gettata nelle acque gelide del fiume. Si dice che i resti del dio si possano rinvenire nei fondali del fiume, e che lui ne sia diventato il custode. Per questo motivo, nel corso dei secoli, prese il nome di Vann.»

«Wow» esclama Bridget, finito il racconto. «È una storia straziante. Ma è bellissima.»

«Sapevo ti sarebbe piaciuta. Era la leggenda preferita di Piper, sai? Io, invece, la trovavo disgustosamente romantica» le confesso, facendola ridacchiare sulle mie gambe. «Stai un po' meglio?» la interrogo pacatamente.

«Molto» mi rincuora con un sorriso, e dal bagliore di serenità nelle sue iridi capisco che è sincera.

«Vuoi...»

«Sì» mi precede, intuendo la domanda. «Voglio parlartene.»

«Va bene» sussurro, lisciandole i boccoli con le dita e infondendole sicurezza.

Respira profondamente, alzando la testa dalle mie gambe e mettendosi seduta. Dopodiché, si decide a confidarmi i suoi tormenti. «Non si trattava dell'incubo che mi trasmetteva Selene. Questo era diverso, e sono certa che sia opera di Seth. Nell'incubo mi trovo ad Arcandida - o, almeno, credo di trovarmi ad Arcandida - e sono da sola in una specie di tempio o cattedrale. All'improvviso arriva Seth, inizia a rinfacciarmi tutto quello che ho fatto quando vivevo nella Tana, il male che ho causato, le persone che ho ferito» il suo tono si spezza e gli occhi si fanno lucidi, «e a ricordarmi come ha distrutto la mia famiglia e la mia vita. E io non ce la faccio ad ascoltarlo, lo supplico di smettere, ma lui continua. Poi, prende un pugnale, si avvicina e...» non riesce a continuare; abbassa le palpebre, forse per scacciare dalla mente l'immagine terrificante dell'incubo, e una lacrima le riga la guancia.

«Non c'è bisogno che continui, davvero» le assicuro, asciugandole le lacrime.

Non mi dà retta e prosegue. «E lui... lui mi uccide, esattamente come ha fatto con mia madre» termina, le lacrime che le solcano con irruenza il viso e il terrore che è tornato a impadronirsi del suo sguardo.

La stringo e la lascio piangere silenziosamente nell'incavo della mia spalla. Poi la scosto da me, mettendole una mano sulla guancia bagnata.

«Ascoltami» dico, inflessibile, incastrando le nostre iridi, «Seth non ti farà del male. Non ti sfiorerà nemmeno. D'accordo?»

«Non puoi promettermi una cosa del genere, Mason. Quell'uomo è capace di tutto» ribatte, tirando su col naso.

«Non importa. Devi fidarti di me.»

Sospira. «Okay» acconsente in tono flebile, «mi fido.»

Le sorrido, ribadendole che impedirò a Seth anche solo di avvicinarsi a lei, e si corica nuovamente, appoggiando la testa sulle gambe e chiudendo gli occhi. Qualche minuto più tardi, quando credo che ormai si sia addormentata, mi pone una domanda.

«Tu come stai?»

Voglio rispondere con un semplice "bene", per non farla preoccupare, però non riesco a mentirle. Non a lei.

«Male» ammetto, quindi. «Sono stati giorni infernali. Mi dispiace un sacco, se ti ho ignorata o ferita, ma non ce la facevo, Bree.»

«Non fa niente. Hai tutto il diritto di stare male.»

Osservo le increspature sulla superficie del fiume di Vann e il riflesso delle stelle che luccicano, illuminando l'acqua.

«Non ho nessun diritto» contesto, in un sibilo frustrato.

«Mason» Bridget scandisce il mio nome con severità e, al tempo stesso, dolcezza, «smettila di addossarti ogni responsabilità. Non è colpa tua, se Sophia è morta. Non l'hai uccisa tu.»

Tra noi scende un silenzio invalicabile, durante il quale penso e ripenso alla sua affermazione, mentre gioco con le ciocche dei suoi capelli, attorcigliandomeli intorno alle dita. A crepare la pace sono i respiri lenti e regolari di Bridget - segno che si è addormentata - e i suoni della natura.

Alzo lo sguardo al cielo. E, in mezzo a quella miriade di stelle luminose, ci sono tutti gli Arcandidi che l'Accademia ha perso. Ci sono i Guerrieri uccisi dalle Ombre, ci sono i miei genitori, c'è mia sorella. C'è Sophia.

«Mi dispiace» bisbiglio nel buio, con gli occhi rivolti alle stelle. «Perdonatemi.»

Spazio Autrice

Buon pomeriggio, readers💖
Ma quanto è bello il nuovo divisore? 👆
Vi piace? A me da impazzire.

Comunque, passiamo al capitolo. Come vi avevo accennato, è molto più soft rispetto ai precedenti, ed è interamente dedicato ai nostri Maset. Non se la passano tanto bene: Mason è a pezzi, a causa della morte di Sophia, è arrabbiato con se stesso e non fa altro che darsi la colpa, mentre Bridget è ancora tormentata dagli incubi.

Per fortuna che riescono sempre a consolarsi a vicenda. Mason porta Bree in riva al fiume, per distrarla da Seth e dagli incubi, e le racconta la leggenda  di Vann e Snøe. È una storia completamente di mia invenzione e spero che vi abbia colpito. Fatemi sapere se vi è piaciuta ❤💬

Ricordatevi anche di stellinare, mi raccomando 💫💫💫

Ci vediamo venerdì, con il capitolo 62. Ci sarà un drastico cambio di POV e location e rivedremo un personaggio che a molti di voi manca. Idee?

Xoxo📿

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