4. Oslo

Bridget

New York, vista dall'alto, appare come un ammasso di palazzi, grattaceli e spazi verdi. Grande e bellissima, piena di vitalità, con i veicoli che sfrecciano e la neve che volteggia tra le strade.

L'aereo per Oslo è appena decollato. Con il naso incollato al finestrino e la malinconia che mi invade, osservo la città per l'ultima volta. Non so quando tornerò; perciò imprimo nella mia mente ogni dettaglio della metropoli.

«Ti trasferisci?» mi domanda la persona seduta al mio fianco.

Stacco gli occhi dal vetro e li poso sulla ragazza che mi ha rivolto la parola. Ha la pelle chiarissima e un paio di iridi castane. Abbozza un sorriso gentile e caloroso, che infonde serenità e ti spinge a ricambiare.

«Non proprio» mormoro, indirizzando un altro sguardo al paesaggio sottostante. «È una sorta di vacanza.»

«Io, invece, dopo una settimana di relax in America, torno a casa mia.»

«Vivi ad Oslo?»

Annuisce. «Tu perché sei diretta lì?»

La sua curiosità non mi infastidisce. Ha un'aria innocente e non sembra essere troppo indiscreta. Poi, fare conversazione e distrarmi mi farà bene.

«Starò qualche settimana con i miei zii» le rispondo.

«Beh, spero che Oslo sarà di tuo gradimento. A proposito, io mi chiamo Thea.»

«Io sono Bridget» mi presento.

«Amerai la Norvegia, Bridget. L'hai mai visitata?»

«Quando ero piccola, ma non ricordo molto.» Storco il naso, fallendo nel tentativo di ricordare il viaggio.

«Starei ore a parlare delle meraviglie norvegesi» dichiara, gli occhi scuri che brillano.

«Abbiamo un sacco di tempo. Ci aspettano sette ore di viaggio» osservo.

Così, trascorriamo le prime due ore a chiacchierare ininterrottamente. Thea mi parla di sé e della sua famiglia. È nata a Bergen, una città sulla costa occidentale della Norvegia, e si è trasferita a Oslo all'età di nove anni. Il suo cognome è Haugen, adora sciare e bere cioccolata calda. Frequenta l'ultimo anno di liceo e tra pochi mesi diventerà maggiorenne. Si è concessa sette giorni di riposo assoluto, a New York, lontana dalla caffetteria dove lavora.

L'iniziale timidezza si è sciolta, rendendola parecchio loquace. Mi ha raccontato ogni aneddoto che le veniva in mente, con tanto di commenti. È buffo il modo in cui si catapulta su di me ogni volta che trova un nuovo argomento, invadendo il mio poco spazio sul sedile.

Cerco di dirle il meno possibile sul mio conto. A qualsiasi domanda sono bloccata in un bivio: le parlo della mia vecchia vita o della nuova? Quando mi ha chiesto quale fosse il mio cognome, sono stata coinvolta in una battaglia interiore.

Rispondo Stewart, mentendo a lei, o rispondo Kelley, mentendo a me stessa?

Il nome della dinastia che regnava su Arcandida non lo sento più mio. Quello dei miei genitori adottivi, però, è falso. Non mi è mai appartenuto. Alla fine, però, mormorato "Kelley", rassegnata.

Adesso, Thea sta dormendo. Ne approfitto per prendere il cellulare, seppellito sotto una coltre di abiti, sul fondo del borsone. Ho un centinaio di messaggi da leggere. Il mio numero lo posseggono esclusivamente i professori dell'Accademia, Mark e i miei amici.

Trovo un messaggio del direttore. "Ti consiglio di tornare, perché le conseguenze di questo gesto saranno pesanti. Se hai intenzione di allontanarti dal tuo destino, sei libera di farlo, ma ti impedirò di portarti via la nostra unica possibilità di salvezza. Stai mandando a monte i nostri piani."

«Mi dispiace, Mark, ma ti impedirò di usarmi e poi di gettarmi» ringhio sottovoce, cancellando il messaggio.

Ce ne sono altri due, da Alexandra e da Carter.

"Con chi faccio gossip, se non ho più la mia migliore amica?"

"Ci manchi, Rossa. Torna presto."

Mi limito a ignorarli. Se rispondo, finirò per farmi convincere. Mi convinceranno a tornare, e non posso permettere che lo facciano.

Il mittente dei restanti novanta messaggi è Mason. No, non li aprirò. Ho paura di leggere odio tra le righe. Sono cosciente di tutto il rancore che mi sta inviando, sia tramite posta elettronica che attraverso i pensieri.

Estraggo la SIM dal telefono. La scheda si spezza tra il pollice e l'indice e cade ai miei piedi, smarrendosi sotto al sedile.

Annullare ogni contatto.

Metto il dispositivo nella tasca della giacca e sospiro, estenuata. Trovo una posizione mediamente comoda e chiudo gli occhi, risposandomi.

Un sonno pacifico. L'ultima dormita serena che avrei fatto.

Perché, a breve, le tenebre sarebbero tornate.

Tornate ad avvolgermi.

Tornate a divorarmi.

****

Sono le sette di sera, quando atterriamo sul suolo norvegese. A causa del fuso orario, a New York sono già le undici passate.

Thea stiracchia le braccia e le gambe, una volta fuori dall'aeroporto. «Siamo arrivate, finalmente.»

La capitale si estende al nostro cospetto in una miscela di luci, freddo e stelle, cucite nel cielo notturno e limpido. Palazzi che sfiorano gli astri, casette colorate, insegne di bar che lampeggiano. Montagne sullo sfondo, verdi e innevate, lontane, affacciate sui fiordi, insieme al vento invernale che ci scuote i capelli e alle strade coperte di tappeti di neve.

«Casa, dolce casa.» Thea respira a pieni polmoni l'aria tersa. «Bella, vero?»

«Spettacolare» ammetto, studiando l'incantevole intreccio tra natura e tecnologia della capitale.

«Ci vorrà un po', a trovare un taxi a quest'ora. Ti accompagno io, se preferisci» propone. «Dammi l'indirizzo dei tuoi zii.»

La ringrazio e accetto. Recupero la foto dalla tasca della giacca e gliela porgo. L'ho presa dalla parete della stanza Katherine e raffigura me e lei davanti al cancello dell'abitazione verso cui sono diretta, da bambine. I nostri genitori avevano acconsentito una piccola gita a Oslo, al tempo.

Thea analizza il nome impronunciabile del quartiere, scritto su un cartello di legno, alle spalle della Katherine della foto.

«È lontano?» le chiedo.

«No, a piedi ci vorranno una decina di minuti.»

Mi restituisce l'immagine e ci incamminiamo. Mi rifugio nella giacca di pelle, ma è troppo leggera per proteggermi dal clima rigido della Norvegia. Siamo a inizio dicembre e l'atmosfera natalizia si fa già sentire: vetrine addobbate, corde di faretti colorati sui terrazzi, persone che lasciano i negozi trasportando regali.

La mia compagna di viaggio mi prende a braccetto, attaccandosi al mio profilo e riscaldandomi lievemente.

«Sarà la vacanza più bella della tua vita!» esclama Thea, e mi sforzo di darle retta. «Potrei anche farti conoscere i miei amici. Ti adoreranno, ne sono sicura. E devo anche portarti a fare un tour della città.»

«Che ne dici di cominciare domani? Non ho grandi programmi e mi piacerebbe conoscere i tuoi amici.»

«È un'idea fantastica! Ti passo a prendere verso il pomeriggio, va bene?»

Acconsento alla proposta. Non so per quanto alloggerò qui, ma un giro in compagnia di altre persone mi aiuterà a scacciare i pensieri che, dalla mia fuga, mi assillano.

«Parli molto bene l'inglese» noto.

«Lo studiamo da quando siamo piccolissimi. È la nostra seconda lingua. La conosciamo tutti alla perfezione.»

«Sarà più semplice parlare con voi, allora.»

«Sì, ma ciò non toglie che ti insegnerò qualche vocabolo norvegese» annuncia, sorridendo furbescamente.

«Ci sto.»

Proseguiamo per le vie affollate della città, con i piedi che sprofondano nella neve gelida. Se voglio sopravvivere a questo clima, dovrò rinnovare il guardaroba.

«Eccoci a destinazione» dichiara Thea, dopo qualche altro minuto di camminata.

Riconosco l'abitazione. La luce del giardino è spenta, le finestre chiuse e l'erba è cresciuta a dismisura. Strano, penso. La zia ha sempre avuto una mania per l'ordine, come mia madre. Non è da lei trascurare il prato.

«Direi di separarci qui» dice Thea, quando arriviamo davanti al cancello. «Noi ci vediamo domani. Farvel, Bridget.»

Suppongo che mi abbia salutata nella sua lingua, quindi rispondo sventolando la mano. Thea si allontana, lasciando me, una folata di vento e il mio insopportabile sesto senso da soli.

Suono il campanello. Non viene nessuno ad aprire.

Suono il campanello. Nessuna voce dal citofono.

Suono altre due, tre, quattro, cinque volte. Nessuno.

«Forse sono fuori casa» ipotizzo a voce alta. È l'unica spiegazione plausibile.

Ignoro categoricamente l'istinto, che suggerisce le peggiori teorie, mentre compongo il numero di mia zia Carmen. Digito le ultime cifre, ma il mio cervello si accorge di un futile dettaglio, mandando un impulso nervoso che tiene il dito sospeso, a un centimetro dal tastierino.

Ho gettato la SIM. Ho frantumato la scheda che mi permetteva di inoltrare chiamate.

Libero un'imprecazione, sbattendo il palmo della mano sulla fronte. Non potevo aspettare un altro po', prima di fare a pezzi il mio unico mezzo di comunicazione?

Non ho intenzione di aspettare davanti al cancello, al freddo, che gli zii tornino a casa da ovunque siano andati. Ci dovrà pur essere una cabina telefonica o qualcuno disposto a prestarmi il cellulare, nei dintorni.

Arranco nella neve, con i brividi che scuotono il corpo e le ossa congelate. Lo strato di ghiaccio bianco inzuppa il bordo dei jeans e le scarpe, che mi toccherà buttare. Seppellisce le mie caviglie, rendendo arduo compiere i più minimi movimenti.

La cabina telefonica che si trova al limitare della via mi dà la forza per lottare l'aria nordica e per continuare. I vetri dell'abitacolo sono cristallizzati dal freddo. Chiudo lo sportello e mi fiondo sul telefono, dove è agganciata una cornetta rossa e dei pulsanti rotondi e ossidati. Li spingo, producendo un suono fischiante, e compongo il numero di mia zia, che ho salvato nella rubrica del cellulare.

«Avanti, rispondi» mugugno tra me, attaccando la cornetta all'orecchio.

Passato il terzo squillo, la sua voce echeggia nella cabina. «Pronto?»

«Ciao, zia, sono Bridget.»

«Tesoro! Come stai?» mi domanda, contenta.

«Bene» mento. «Voi?»

«Alla grande!»

«Dove siete?»

«A Tokyo!» esclama, superando di parecchi toni il frastuono che sento dall'altro capo del ricevitore.

«A Tokyo?» ripeto. «Siete in Giappone

«Sì! Una mia cara amica ci ha regalato una vacanza in Giappone, per il nostro anniversario.»

Tokyo. Giappone. Vacanza.

«Non... non siete a Oslo?» chiedo, spaventata, sgranando le palpebre.

«Te l'ho detto, cara, ci siamo presi un mesetto di ferie.»

«Quando tornate a casa?»

«Tra tre settimane c'è il volo di ritorno. A proposito, che sta facendo tua madre?» investiga, riferendosi ad Amber. Questo mi fa capire che non ha idea del periodo trascorso lontano da casa e dalla mia famiglia adottiva. «È da un'ora che provo a chiamarla, ma non risponde.»

Un tonfo di vetri infranti esplode nella cabina, d'un tratto.

Mia zia trasalisce. «Cosa è stato?»

«Niente. Devo andare, adesso. Dirò alla mamma di richiamarti» taglio la conversazione.

«Va bene, tesoro. A presto.»

Appendo la cornetta nella cavità e incollo la mano a uno dei tre vetri rimasti, per non cadere. Mentre fisso il buco dai margini scheggiati che si è formato sulla quarta parete della cabina, scavato dai miei poteri magici, sono sul punto di perdere i sensi.

Questa non è stata una banale svista.

Spazio Autrice

Buonasera readers❤️

In questo capitolo, Bree parte e arriva a Oslo, la capitale della Norvegia. Sull'aereo, incontra anche un nuovo personaggio. Cosa ne pensate di Thea?

Più tardi, la nostra Bridget é di nuovo colpita dal mainagioia: una volta atterara, scopre di non avere più un posto dove alloggiare. E troviamo un altro segno del malfunzionamento dei suoi poteri. È stata una banale vista, secondo voi?

Xoxo🌬

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