38. Le Membra di New York
Bridget
Quando apro gli occhi, al posto dell'inondante luce solare che penetra dalla finestra, trovo una coltre di buio.
Per un istante, ho l'impressione di essermi svegliata nel cuore della notte. Non sarebbe una novità. Però, manca qualcosa. Quel qualcosa che mi ricordava l'Accademia.
L'aria è strana. Faccio fatica a respirarla: l'ossigeno è ruvido e torrido. Eppure, nonostante l'afa, il freddo mi sferza addosso. Il gelo mi punge la pelle e il caldo opprimente mi brucia i polmoni.
Poi, noto un cambiamento nell'aura circostante. Quella degli Arcandidi non è così pesante. Sento delle particelle magiche troppo forti, tiranniche, feroci. Oscure.
Mi metto seduta sul materasso dove stavo dormendo. Miracolosamente, non sono stata disturbata da incubi. Appoggio i piedi scalzi sul pavimento ghiacciato e una folata fredda mi investe, salendo dalle suole alla radice dei capelli.
Riconosco il materiale. Ho imparato a distinguere la massa della pietra, grazie alla prigionia. La roccia è levigata e liscia, al contrario di quella dei sotterranei accademici. I miei occhi si stanno lentamente abituando all'assenza di luce, ma le uniche sagome che riesco a percepire sono ancora confuse e distorte dalle tenebre.
Provo ad alzarmi, con cautela, ma uno spietato capogiro mi spinge di nuovo sul letto. Sbuffo, scostandomi una ciocca di capelli caduta sul viso. Ed è proprio quel banale movimento del braccio, che mi sbatte in faccia la realtà.
Le catene.
Incredula, mi tocco il polso sinistro. Con il solo aiuto del tatto, percepisco i tagli sulla pelle. Le ferite pizzicano tuttora, ma non ho sfiorato il ferro gelido, né i granelli di ruggine delle catene. Nessun fruscio metallico mi è giunto alle orecchie, finora.
Sono libera.
In un impeto di adrenalina, scatto all'in piedi, ignorando le fitte alla testa. Mi tengo al muro con una mano e arranco nell'oscurità. Tasto l'intera parete - urtando qualche pezzo d'arredamento - finché i miei polpastrelli non arrivano a una sporgenza. Abbasso il pulsante e un'onda anomala luminosa si abbatte su tutta la stanza, travolgendomi.
Stringo le palpebre e le sollevo alcuni secondi dopo. Poi le spalanco, meravigliata, non appena scopro il meccanismo che ho innescato.
Attaccati a ogni parete, svettano dei candelabri d'argento. Sui tre bracci sibilano delle piccole fiamme nere, crepitanti e dalla luce intensa. Magia nera, senz'altro. Le arti oscure sono un incanto, ma nascondono i pericoli del mondo delle tenebre.
I candelabri rivelano la stanza in cui sono stata ospitata. I mobili sono in legno scuro, quasi a voler rispecchiare l'anima cupa delle Ombre. Le dimensioni della camera sono pari a quelle di una reggia reale. È intrisa di dettagli raffinati ed eleganti, in stile antico, a partire dal letto a baldacchino fino ad arrivare all'armadio a parete.
Sul comodino che affianca il letto, noto un pezzo di carta. Afferro il bigliettino, scritto con una calligrafia minuziosa, e leggo il messaggio. "Dopo esserti sistemata, raggiungimi nel salone".
Il mittente è chiaro. Seth. Mordicchio un labbro, nervosa e a disagio. Improvvisamente, percepisco la sensazione di essere schiacciata da queste quattro mura.
Mi trovo nel suo covo. Nel suo territorio. Nella sua dimora.
Abbandono il foglietto tra le pieghe delle lenzuola ricamate e mi risiedo sul letto. I ricordi si accozzano nella mia testa. Rammento i rumori di due lame che si scontrano, tre Ombre che irrompono nella mia prigione, un ragazzo che mi libera dalle catene e le sue braccia che mi stringono. E lo sguardo di mio padre, nel momento in cui i suoi occhi si sono posati su di me.
Il resto è sfocato. Credo che quell'Ombra mi abbia lasciata sul letto, per poi andarsene. Ha scambiato qualche parola con Seth, prima di uscire dalla camera. L'ultima memoria che riesco ad acciuffare sono io che crollo a causa della stanchezza, con le iridi di mio padre inchiodate addosso.
Ho lasciato l'Accademia. Di nuovo.
I Guerrieri mi odieranno. Di nuovo.
Me ne rendo amaramente conto, per la seconda volta. Ma non ho intenzione di rimuginarci più del dovuto: che sia sbagliata o no, è stata la mia scelta definitiva.
Adocchio una porta che conduce a una stanza adiacente. Mi alzo, raggiungendola, e intrappolo la maniglia rotonda e dorata tra le mie dita titubanti. Quando schiudo l'ingresso, scopro un bagno. A differenza della camera da letto, il pavimento è piastrellato. I mosaici neri e bianchi delle mattonelle si arrampicano anche sulle pareti, costruendo disegni aggrovigliati.
Non esito e mi fiondo nella doccia. Il getto dell'acqua mi colpisce con violenza, ma il senso di sporcizia che la prigione mi ha attaccato sul corpo non accenna a scivolare via. Nonostante la pelle sia completamente pulita, la percepisco ancora macchiata. Il ricordo delle torture la imbratta ancora.
Resto per più di un mezz'ora sotto la pioggia artificiale. Le gocce mi accarezzano, raccolgono la polvere, il sangue secco, il sudiciume e li trascinano giù, nello scarico. Ma la mia anima non è affatto purificata. La metà di Ombra sta spargendo la propria lurida essenza su quella di Arcandida.
Resterà sporca in eterno.
Rabbrividisco sotto l'acqua, che è diventata gelida. Esco dalla cabina. Sul mobile del bagno trovo una maglietta e un paio di pantaloni; li indosso, sostituendo alla svelta quegli stracci in cui ero avvolta in prigione.
Finalmente, posso togliere anche la collana che Mark mi costringeva a tenere. Lascio il ciondolo dei Kelley sul ripiano. È come se mi fossi liberata di un macigno.
Sono pronta a uscire e incamminarmi verso il salone - ovunque esso sia - eppure, una forza innaturale pianta i miei piedi sulle mattonelle decorate.
Sulla parete è affisso uno specchio, circolare e dalla cornice in ferro. La lastra di vetro appannata mi sta attirando a sé. Non osservo il mio riflesso da almeno due settimane, durante le quali sono stata rapita e imprigionata, massacrata e ferita.
Non ci riesco. Non voglio provare odio nei confronti di me stessa. Perché, se dovessi specchiarmi, vedrei a tutti gli effetti in cosa mi hanno trasformato le mie decisioni ribelli.
Ma è da troppo che ho perso la capacità di fare la cosa giusta. Perciò, avanzando di un paio di passi, mi piazzo davanti all'ovale. Appoggio il palmo sulla superficie di vetro e, in una mossa secca, rimuovo una parte di vapore acqueo.
Dopo giorni, mi rivedo.
La doccia ha contribuito a mascherare parzialmente i segni profondi della prigionia. Non tutto è stato risanato, però: le chiazze rosse delle ustioni mi marchiano le tempie, contrastando in modo netto con il mio incarnato chiaro.
Sciolgo la crocchia con cui ho legato i capelli, ancora umidi, e li sistemo ai lati del volto, per nascondere le ferite dell'elettroshock. Per mia fortuna, le maniche lunghe della maglietta nascondono i tagli sui polsi e le bruciature sulle braccia.
Rilascio un sospiro sconfitto. Non è cambiato niente: le mie iridi sono ancora accese di una luce blu e malsana. Lo specchio antiquario mi restituisce un'immagine limpida delle mie sfere dagli svariati colori.
Disloco lo sguardo dal mio riflesso opprimente. Sono stanca di disprezzarmi. Sto declinando, scendendo alla rovina. Eppure, non riesco a fermare la caduta. In alcun modo. Forse, mi dico, è ciò che voglio. Affondare e brancolare nel buio. C'è qualcosa di confortevole, in questo tuffo tra le tenebre.
Esco dal bagno e dalla camera. Non permetto al dubbio di bloccarmi, mentre spalanco la porta. Senza timore, metto piede all'esterno.
Un lunghissimo tunnel di pietra e torce mi accoglie. L'ipotesi di essere ancora intrappolata nei sotterranei dell'Accademia mi trapassa la mente, bucando il velo di calma e lucidità che mi era rimasto.
Poi, esamino con attenzione le fiaccole. Il fuoco che crepita non è formato da lingue rossastre e vivaci. Sono fiamme nere e furiose che, assurdamente, rischiarano la strada con una luce bianca.
Mi avvicino, e le sento crepitare nei miei occhi, riflesse nelle mie pupille. Allungo le dita e sfioro il fuoco. La torcia si spegne, esplodendo in una nuvola di fumo e scintille.
L'energia oscura della fiamma si insinua nel mio corpo. Trasalisco, per l'impatto che esercita dentro me. È una piccola fonte di potere, ma mi restituisce un po' dell'energia che mi è stata sottratta dalle torture e dalle catene.
Mi posiziono davanti alla fiaccola successiva e la assorbo, semplicemente toccando le falde del fuoco nero. La debolezza che mi impediva grandi sforzi si ammorbidisce leggermente.
Non sapevo di possedere questa capacità. In realtà, non ci avevo mai provato. Sono in grado di prosciugare un concentrato di magia con un banale movimento della mano. Come fanno le Ombre, che possono privare un essere vivente della propria energia, rubargliela e utilizzarla per rafforzarsi. È così che loro uccidono e indeboliscono i Guerrieri.
«Serve l'allenamento, per arrivare a certi risultati.»
Mi giro, sbattendo la schiena contro la parete rocciosa. Il fumo che si libra dalla fiaccola spenta mi annuvola parzialmente la visuale.
«So a cosa stai pensando» riprende colui che mi ha sorpresa. «Credi davvero di essere all'altezza della Tana?» mi punzecchia, con un tono derisorio e sicuro delle proprie affermazioni.
«Chi sei?» sibilo, mentre il fumo di dissolve.
La figura avanza, scindendo le particelle della nube scura, e si mostra. Adesso, l'interlocutore si trova davanti ai miei occhi, e sul suo viso pallido affiora un ghigno di scherno.
È un ragazzo. Un'Ombra, per l'esattezza. Ammetto che mio padre ha fatto un ottimo lavoro, nel dare un corpo ai suoi alleati. Sembra un normale essere umano. Due iridi nere, in perfetta armonia con un ciuffo altrettanto corvino, mi scrutano di rimando.
«Sono Luke.»
Il mio cervello non associa il suo nome a niente, all'inizio. Poi, una serie di immagini distorte e di frasi concitate mi riempie la scatola cranica.
"«Luke, dobbiamo scappare, prima che arrivi qualcuno.»"
"«Luke, sbrigati.»"
Il ragazzo deve aver notato i ricordi sbocciare tra le screziature dei miei occhi assottigliati. Infatti, il suo sorrisetto sardonico di allarga.
«Mi hai riconosciuto, Erede?»
«Eri tu. Ieri, nei sotterranei. Con altre due Ombre» farfuglio, in preda alle memorie confuse.
«Esattamente. Ti abbiamo portata via dalla squallida Accademia di Smith» conferma, sprezzante. Pronuncia l'appellativo del direttore e dell'istituto con un astio velenoso, e le sue iridi sono invase da un lampo di collera.
«Grazie» dico, istintivamente.
«Ho solo eseguito gli ordini del mio Padrone.»
Le sue spalle, fasciate da una maglietta sbracciata, si sollevano e si riabbassano, in un gesto di indifferenza. Sposto lo sguardo sul pavimento, formato da rettangoli di pietra marroncina. Non riesco a osservare gli occhi di Luke. Dentro essi, il nero predomina, mangiando ogni sfumatura o emozione. Vuoti e apatici, mi riportano in mente quelli di Mackenzie, l'Ombra che è morta davanti ai miei occhi, dopo avermi rivelato chi sono davvero.
«Cosa intendevi dire, con il fatto che non sono all'altezza di questo posto?» gli domando, per distrarmi dal pensiero della ragazza che ha spinto mio fratello a tradirmi.
«Ho solo detto la verità. I tuoi poteri sono forti, certo, ma non hai idea di come controllarli. Sei troppo umana. Ti lasci comandare dai sentimenti» decreta, come se mi conoscesse da una vita.
Le mie guance si scaldano, sia per la vergogna che per la stizza. Ha ragione: la mia magia sfugge da qualsiasi forma di comando. Mi irrita che sia così evidente. Eppure, non sarà un'Ombra sfacciata a dirmi che non merito di stare qui.
È il mio posto, che lui lo voglia o no.
«Chi sei tu, per giudicare me? Devo ricordarti che stai parlando con l'Erede di Seth? La tua energia non sarà mai paragonabile alla mia» sbotto, incenerendolo con un'occhiata.
Al contrario della furia che mi aspettavo, Luke scoppia a ridere. Il mio viso brucia completamente di sdegno. Stringo i pugni, pronta a disintegrarlo con i miei poteri.
A fermarmi sono le sue dita fredde che mi strizzano la guancia imporporata. «Sei carina, quando ti arrabbi. Diventi rossa come i tuoi capelli, sai?»
Si sta palesemente divertendo, nel prendermi in giro. Gli schiaffeggio la mano e lo sorpasso, camminando lungo il corridoio costeggiato dalle torce nere.
«Dove vai?» mi richiama Luke, seguendomi.
«Mio padre mi aspetta nel salone» lo informo, senza arrestarmi.
«Conosci la strada?»
«La troverò.»
L'Ombra mi raggiunge e mi affianca, prendendo il mio ritmo spedito. «Ti perderai.»
«Una scusa in più per non incontrare Seth» mormoro tra me.
«Ti spaventa?» indaga, eccessivamente interessato.
«L'ho conosciuto nei miei incubi peggiori. E, fidati, non è stato così piacevole» gli spiego, in breve.
Luke schiude un'altra volta le sue labbra chiare, per ribattere. Con un paio di falcate lo supero e mi allontano, facendogli intendere che non ho voglia di chiacchierare con lui. La distanza dura poco: riesce a fiancheggiarmi di nuovo, dopo soli cinque secondi.
«Cosa ci facevi fuori dalla mia porta?»
«Non è la tua porta. È la porta di Seth» puntualizza. «Comunque, stavo aspettando che ti svegliassi e che uscissi, in modo da poterti accompagnare fino al salone. Anche se ci arriveresti benissimo da sola.»
«Dove si trova?»
Luke mi illustra la struttura della Tana, che a lui piace definire "Le membra di New York". È scavata su due dislivelli, a un centinaio di metri sotto un'area abbandonata di Manhattan. Al centro si trova il salone, collegato tramite gallerie ai locali circostanti. Questi ultimi consistono in una decina di dormitori, due palestre, una mensa e vari depositi.
«Qualsiasi corridoio imbocchi, alla fine troverai il salone. È come il centro di un labirinto» mi spiega. «Tranne... i tunnel bianchi» aggiunge, e sembra titubante.
«I tunnel bianchi?»
«Sono corridoi identici a questi, con una sola differenza: il fuoco delle torce è bianco, e non nero. Per questo li abbiamo soprannominati così. Si tratta di passaggi secondari che conducono al piano sottostante, in luoghi vietati per noi Ombre. Seth ne fa spesso uso. Sono riservati solo a lui.»
«Interessante» sussurro, con lo sguardo incollato al pavimento e gli ingranaggi del cervello che cominciano a elaborare.
La mano di Luke mi circonda il braccio, fermandomi. «Rimangiati subito quell'idea, Principessa» intima, accostando il suo volto cereo al mio. «Ho visto la luce ribelle che hai negli occhi. Nessuno disobbedisce alle regole del Padrone, sua figlia inclusa. Togliti dalla testa di esplorare quei posti. Non sei più in Accademia.»
Strattono il braccio e mi sgancio dai suoi artigli. «Non esagerare. Non farò niente di trasgressivo. Rilassati» mento, riprendendo l'andatura. «Sono un angioletto.»
«Sei un angioletto che sta camminando sul suolo dell'inferno.»
Non ammetterò mai a voce alta che ha ragione: detesto il ghigno di soddisfazione che deforma la linea sottile della sua bocca e il tono orgoglioso che assume la sua voce.
«Sì, sto camminando all'inferno, ma non sono un'intrusa. Ne sono l'Erede» dico, fiera, lanciandogli uno sguardo di superiorità.
«Mi piaci quando ti fingi invincibile» ridacchia. Prima che possa difendermi, mi interrompe nuovamente: «Siamo arrivati».
Una porta a doppio battente ci sbarra la strada. La vernice scarlatta e i decori neri rappresentano con eccellenza la raffinatezza inquietante della Tana. Per osservare ogni disegno e intreccio devo alzare lo sguardo fino al soffitto. Immagini astratte e stilizzate, curve, linee, intrichi e righe incatenate solcano i rettangoli rossi e imponenti.
Luke abbassa la maniglia di un battente e questo si apre di qualche centimetro. Sento la sua mano gelida posarsi alla base della mia schiena e spingermi con leggerezza oltre l'uscio.
«Va', angioletto. È ora che il Padrone e l'Erede delle tenebre si alleino.»
Spazio Autrice
Buon pomeriggio, readers!
Come vi avevo anticipato, Bree si è svegliata nel nascondiglio delle Ombre. Fa anche la conoscenza di Luke, il ragazzo che l'ha salvata nello scorso capitolo. Iniziamo a scoprire sempre più dettagli sulla Tana, e io non vedo l'ora di farvela esplorare tutta!
A fine capitolo, Bree raggiunge Seth. Cosa si diranno i due?
Prossima fermata: Accademia. Mason cosa farà, dopo la seconda fuga di Bree?
Aspetto i vostri pareri e le vostre stelline💕
Xoxo🐛
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