16. Melodia dell'Anima
Bridget
Oggi è il ventiquattro dicembre.
Il giorno del mio compleanno.
Almeno, questo è ciò che mi hanno fatto credere per diciassette anni.
La mia prima mattinata da diciassettenne inizia con schegge di ceramica che volano ovunque. Le occhiatacce di Karina mi hanno fatta innervosire a tal punto che ho ordinato alla mia magia di distruggere quel suo sorriso da "so tutto io", insieme alla sua ciotola di cereali. Ma, invece, dato che i miei poteri sono totalmente fuori controllo, a subire la mia ira è stato il piatto che Agnes stava pulendo nel lavabo.
Adesso, la signora Larsen è alle prese con la sua mano fasciata. Sono mortificata per averle causato quel taglio, ma non posso scusarmi. Secondo loro, è stato un incidente. Mikkel e Karina - che hanno assistito alla scena - la pensano così.
Finn no.
Non la smette di guardarmi di sottecchi. Ha capito che la colpa è mia. Mi tiene costantemente sotto osservazione, dalla scorsa notte.
Sono capitati altri due "incidenti", di cui sono sempre la responsabile.
Ieri sera, ho bloccato il segnale tra l'antenna satellitare e il televisore. I programmi in lingua norvegese sono incomprensibili e noiosi. La mia stizza nei confronti delle battute che recitavano gli attori - alle quali Agnes prestava massima attenzione - non ha esitato a riversarsi.
Un rumoroso tuono ha squarciato il cielo grigio, abbattendosi sull'antenna. Finn mi ha rivolto uno sguardo spalancato e sconvolto, mentre Agnes imprecava contro la TV.
Stamattina, invece, oltre a deturparle il palmo della mano con un profondo graffio, ho anche versato una tazza di caffè sul giornale preferito di suo marito.
Ovviamente, è stato un gesto involontario e dettato dai miei malsani poteri magici; ma che posso farci, se Mikkel Larsen mi detesta quanto Karina?
Agnes va in bagno, dato che la ferita continua a sanguinare. Mikkel è uscito in anticipo da casa, per comprare un nuovo quotidiano e leggerlo pacificamente sul posto di lavoro, senza Principesse impulsive tra i piedi.
«Vado da mamma. Non uccidetevi, nel frattempo.» Finn avverte me e Karina, poi si alza e sparisce dietro la porta della cucina.
Immergo lo sguardo nel liquido ambrato che galleggia nel mio bicchiere, tentando di sfuggire alle iridi glaciali di Karina. Lei, però, non demorde, e continua a buttarmi occhiate affilate.
«Potresti fingere di non odiarmi, per una volta?» sbotto. «Solo per oggi. È il mio compleanno.»
«Auguri» dice, riempiendo la parola di sarcasmo e falso interesse.
«Perché mi detesti?»
Non ho mai trovato il coraggio di domandarglielo apertamente. Persino lei pare stupita dal mio interrogativo. Si ricompone e decide di dissolvere i miei dubbi.
«Perché ti sei presa tutto, da quando sei arrivata» risponde, tranquilla, dopo poco. «La mia casa, l'interesse dei ragazzi, la mia migliore amica, e pure mio fratello. Vi ho visti, due notti fa. Vi ho visti dormire insieme. Hai preso il mio posto al fianco di Finn. Mi hai rubato ogni cosa, Bridget. E non sperare di passarla liscia.»
Sbatte le mani sul tavolo color betulla, scattando all'in piedi. Anche lei esce dalla stanza, abbandonandomi nella più completa solitudine.
«Non volevo» sussurro, nonostante non possa più udirmi. «Non volevo affatto, che andasse così.»
****
Nel pomeriggio, Finn apre il discorso. I signori Larsen sono allo studio legale, Karina nella sua camera e noi sul divano del salotto, avvolti dal calore del camino.
«È dall'altra notte, che cerco un'occasione per parlartene» Scorre di due posti, avvicinandosi il più possibile a me. «Allora?»
«Cosa?»
«Che problema hanno i tuoi poteri?» chiede, schietto.
Le sue iridi azzurre reclamano risposte. I miei occhi si perdono tra i fili rossi e intrecciati del maglione di lana che indosso.
«È iniziato quando sono scappata. Credo di aver perso completamente il controllo» mormoro, tirando con le dita il tessuto scarlatto. Noto come la tonalità dei miei capelli, decisamente più chiara, contrasti con quella dell'indumento.
«Sai perché?»
«No» sibilo, con una palpabile frustrazione nella voce.
«È una cosa... distruttiva» osserva.
«Io sono distruttiva.»
Quando sollevo gli occhi, trovo i suoi, cosparsi di disappunto. «Non è vero.»
Contro ogni preavviso, Finn mi stringe tra le sue braccia calde e protettive, per enfatizzare la sua teoria. Non mi divincolo dal suo abbraccio, perché riesce a tranquillizzarmi.
«Sei una vittima degli errori del passato, non una colpevole, Bree.»
E, per una volta, mi voglio illudere che sia così. Lascio che la stretta di Finn mi culli e mi rassicuri. Lascio vivere questa bugia.
Il suono acuto del campanello si diffonde nel salotto. Finn scioglie l'abbraccio e va a vedere chi c'è alla porta. Giocherello con il bordo della manica del maglione, pensando alle sue affermazioni.
"«Sei una vittima.»"
"Sei una vittima di quei Guerrieri", interferisce Seth.
"Perché devi sempre confondermi le idee?"
"Ti dico solo la verità, Bridget. Quel ragazzo non sa di cosa parla. Ti sta illudendo. Lo stanno facendo tutti."
Scaccio la voce fastidiosa di mio padre dalla testa, facendo dissolvere le sue parole come se fossero sbuffi di vapore su un vetro appannato. Non voglio ascoltarlo.
«Gratulerer med dagen!» esclama qualcuno.
Due braccia mi circondano il collo, da dietro, e una chioma castana mi solletica la guancia. Thea.
«Ha detto "Buon compleanno"» traduce Simon, mettendosi davanti a me.
«Chi ve l'ha detto?» indago.
Simon indica Finn, e lui si stringe nelle spalle. «Volevo che il tuo primo compleanno a Oslo fosse piacevole» si giustifica lui.
Gli sorrido, riconoscente. Thea mi libera e fa il giro del divano, per raggiungermi. Si posiziona accanto a Simon, sul tappeto, e mi porge un pacchetto.
È una scatolina quadrata, rivestita da una carta azzurra con stampe invernali. Tolgo l'incarto, scoprendo una marca norvegese di gioielli. All'interno del contenitore c'è un braccialetto, incastrato nella gomma piuma che lo ripara dagli urti.
Lo estraggo. È una cordicella bianca con un ciondolo a forma di stella. Da un lato vi è inciso "Vennskap".
«Significa "amicizia"» spiega Thea. «Giralo.»
Eseguo l'ordine e leggo la frase sul retro: "La vera amicizia resiste al tempo, alla distanza e al silenzio".
«Anche quando tornerai a New York, sarai comunque mia amica. Volevo che lo sapessi» dice, sorridendo timidamente.
Mi catapulto addosso a lei e la stringo fortissimo, per esprimerle la mia gratitudine. «Grazie. Ti prometto che sarà così» le sussurro all'orecchio.
Ci sleghiamo e faccio scivolare il bracciale intorno al polso. Calza alla perfezione.
«Tocca a me, ora» annuncia Simon, dandomi un biglietto piegato.
Lo apro. "8.00 p.m.", c'è scritto.
Gli tiro un'occhiata confusa.
«È una sorpresa» annuncia, con un sorrisetto furbo.
Thea si alza dal tappeto del soggiorno e mi incita a seguirla al piano di sopra. Ci lasciamo alle spalle Simon e Finn e raggiungiamo la mia attuale camera.
«Sai cosa ha in mente Simon?» le chiedo, quando si è chiusa la porta della stanza degli ospiti alle spalle.
«Sì, e devi iniziare a prepararti.»
«Ma mancano più di due ore, alle otto» notifico.
Thea non ammette repliche e spalanca l'armadio.
«Dobbiamo fare shopping, uno di questi giorni» decreta, con palese disappunto verso la mia scarsità di indumenti eleganti.
Afferra uno degli abiti che mi ha regalato lei stessa. «Che te ne pare?» me lo mostra.
È un vestitino semplice: il corpetto è bianco e la gonna a vita alta è nera. Thea abbina un paio di collant e un coprispalle di pizzo, insieme a due stivaletti a caviglia. Mi dirigo in bagno e indosso i vestiti, tornando qualche minuto dopo.
Conclude il look sfumando un ombretto nero sulle palpebre e legando le ciocche laterali dei miei capelli in una treccia a corona.
«Sei fantastica» commenta, allontanandosi di qualche passo per gustare il suo operato da ogni angolazione.
«Il merito è tuo» la adulo. «Ma vuoi dirmi perché mi sono preparata?»
«Hai un appuntamento: non puoi presentarti in jeans e maglietta.»
«Non capisco perché Simon voglia uscire con me.»
«Ti adora» risponde, come se fosse ovvio.
«Ne sei sicura?» domando piano.
Ho paura che dica "sì". Anzi, ho paura di un "no". in verità, temo entrambe le risposte. Non voglio essere costretta a spezzare il cuore a qualcuno o, peggio, a subire una delusione amorosa.
Non un'altra.
Dev'essere tutto stabile e neutrale. Devo soffocare i sentimenti. La Norvegia è un punto di passaggio, non può diventare la mia costante.
Simon Berg non può diventare la mia costante.
****
Precisamente alle otto e tre minuti, percorro il vialetto di casa Larsen, diretta verso il cancella del cortile recintato.
«Non agitarti. Non arrabbiarti. Non pensare a nessuno. Divertiti, ma non troppo» si è raccomandato Finn. «Non voglio rimanere senza migliore amico.»
«I miei poteri non sono così sensibili» gli ho sibilato contro, guardandolo male.
«Meglio essere prudenti» ha chiuso il discorso, per poi spingermi letteralmente fuori dalla porta.
Alla fine della stradina di ciottoli e neve, mi aspetta Simon. Indossa una camicia blu scuro e un paio di normalissimi jeans. I capelli castani sono privi di gel e sembra che vi abbia passato numerose volte la mano, contribuendo a scombinarli.
Però, sta bene lo stesso.
«Ciao» mi saluta. Il suo tono è basso: come se voglia riparare la nostra conversazione dalla brina, dagli alberi, dal cemento o dalle orecchie indiscrete.
«Ciao.» Imito il suo timbro leggero, sorridendo piano.
Indica con un cenno la sua automobile nera, parcheggiata al nostro fianco. Il veicolo si confonde col cielo buio e nuvoloso. Mi accomodo sul sedile anteriore e lui prende posto al volante. Questa macchina sarà anche scura come la notte, ma credo che gli occhi di Simon bastino a illuminarla, con il loro colore vivace e brillante.
«Allora? Dove mi porti?»
«È una sorpresa» ripete la frase che mi ha rifilato oggi pomeriggio, sghignazzando.
Sbuffo, fingendomi scocciata, mentre accende il motore. La prima parte del viaggio è silenziosa: Simon è concentrato sulla guida e io a fissare le luci di Oslo che corrono, oltre il finestrino.
«Non mi hai ancora fatto gli auguri» gli ricordo, all'improvviso.
«Ogni cosa ha il suo tempo» dichiara.
Lo scruto lateralmente. Sembra al massimo della serenità. Poi noto la forza con cui chiude la mano destra intorno al volante, il suo piede che batte sul tappetino dell'auto, il modo in cui morde il labbro con i denti.
E capisco che Simon è nervoso. Esattamente come lo sono io.
Non provo a intavolare un discorso, né a stuzzicarlo, né a insistere su questa sorpresa. Rispetto il suo silenzio, nella stessa maniera in cui lui ha sempre rispettato il mio.
Il viaggio di andata dura circa mezz'ora.
Scendo dalla macchina e ammiro il luogo: Simon mi ha portata al mare. Ciò mi sembra, all'inizio. Poi, aguzzando la vista, capisco che non è una spiaggia qualsiasi, che non è un mare qualsiasi e che questa non è una sorpresa qualsiasi.
«È... è un fiordo» biascico, a voce alta e stupita.
«Il fiordo» mi corregge. «Il fiordo principale di Oslo: l'Oslofjiord.»
La costa è rocciosa e ripida. Tutt'intorno si stagliano vette di alture e pareti di pietra, coperte di chiome verdi e bianche. L'assenza di luce artificiale favorisce lo splendore delle stelle, che si specchiano nell'acqua placida del fiordo. È semplicemente il paesaggio più magico che abbia mai visto.
Niente insegne colorate, niente edifici illuminati, niente veicoli, niente nuvole di fumo.
Solo natura.
Niente rumore, niente caos.
Solo pace e armonia.
E riesco davvero a sentirmi in tregua con me stessa, finalmente.
Niente Arcandidi e niente Ombre.
Solo io e Simon.
Lo seguo mentre scende una scalinata di legno scricchiolante, che conduce alla spiaggia. Sfilo gli stivali e i grossi granelli di sabbia mi solleticano la pianta dei piedi, attraverso il tessuto leggero delle calze.
Simon raggiunge il confine tra mare e sabbia e srotola una tovaglia a scacchi rossi, pescata nello zaino strapieno che porta in spalla. La arreda con piatti, posate di metallo, bicchieri, contenitori termici e persino una candela, al centro.
«Pic-nic?»
Annuisce. «So che non è una cena prelibata in un ristorante di lusso...»
«È perfetto» lo blocco. «Davvero.»
Adesso che l'ho rassicurato, pare molto più tranquillo. «Meno male. Pensavo non fosse abbastanza romantico.»
Abbozza una risata che soffoca non appena vede il rossore sul mio viso.
Romantico.
«No, no, va bene» sussurro, ancora imbarazzata.
Abbandono le scarpe tra la sabbia e mi siedo sulla stoffa di cotone. La fiammella della candela è debole, ma sufficiente a rendere visibile i nostri visi e le pietanze.
Mangiamo e chiacchieriamo del più e del meno. Simon ha cucinato un piatto tipico norvegese, che ho già assaggiato qualche giorno fa, grazie ad Agnes. È squisito come me lo ricordavo, se non migliore.
«Sei anche un cuoco, oltre che un cantante?» lo punzecchio.
«Un po' entrambi» risponde, modesto.
La cena vola tra risate e rumori del mare che si abbatte sulla riva. Un'onda increspata si ritira nell'acqua, senza riuscire a toccarci.
«Vado a prendere una cosa» mi avvisa Simon, alle dieci e mezza.
«Okay» mormoro.
Risale i gradini di legno, poi le piante che troneggiano nel parcheggio lo sottraggono dalla mia vista.
Approfitto della sua assenza per porre una domanda a mio padre. "Che giorno è, in realtà, il mio compleanno?"
Passa un minuto intero, prima che la voce di Seth mi fornisca la risposta. "Il quattordici dicembre."
"Dieci giorni dalla mia nascita e mi avevate già abbandonata", appuro.
Seth non conferma. Non prova a giustificarsi, o a dare la colpa a Selene, né a portarmi sull'orlo della rabbia. Tace. Forse, i ricordi sono troppo dolorosi anche per uno come lui.
«Eccomi.»
Mi distraggo da questi pensieri, concentrandomi su Simon.
Ha preso la chitarra. Una meravigliosa, lucida, chitarra scura a corde, con il nome della band incollato sulla cassa armonica.
«Sai suonare anche la chitarra?»
«Sì, ma Finn è più bravo, perciò è lui il chitarrista della band. Io mi limito a strimpellare qualche nota.» Scrolla le spalle, sistemandosi a gambe incrociate sulla sabbia fresca.
«Cosa mi canti?» Mi siedo a un passo da lui.
«Una canzone - una poesia - che ho scritto ultimamente.»
Schizza qualche nota per accordare lo strumento. In seguito, schiarisce la voce e si prepara a cominciare, traendo un respiro di auto incoraggiamento.
E io lo fisso incantata, mentre la melodia della sua anima sguscia fuori attraverso le corde vibranti.
"Stella del cielo,
onda del mare;
dall'oro fragile
e dal rosso brillante.
Occhi di vetro,
cristalli splendenti;
capelli di fuoco,
di fiamma ardenti.
In trappola nella libertà,
una bugia costruita nella verità.
Splendida luce,
distrutta dal male;
splendida arte,
distrutta dal bene.
Sei un'incertezza, un disastro, un imbroglio.
Pericolosa, un rischio attraente.
Una corsa contro il tempo,
un grido mangiato,
una lacrima salata.
Sei il cielo stellato,
da ammirare per sempre.
Sei un mistero da risolvere,
una ragazza da non perdere."
Simon, che ha tenuto gli occhi chiusi per tutto il tempo, adesso li apre, cercando la mia reazione. Credo che le mie iridi lucide e il sorriso che non riesco a cancellare bastino.
«L'hai scritta per me?» sussurro, la voce che trema per l'emozione.
«Ti ho in testa da quella sera, al Blå Lys. L'ho capito fin da subito, che nascondevi qualcosa, ed ero intenzionato a scoprirlo. Mi sono reso conto che nessuna ragazza mi ha mai preso così tanto, al punto da dedicarle una canzone.» Appoggia la chitarra sulla tovaglia. «Non fraintendermi: so che avevi una vita a New York, e probabilmente una relazione o qualcosa di simile, ma voglio solo dirti che tu mi piaci. Mi piaci tanto. Sei così diversa, una ventata d'aria fresca. Non è una proposta di fidanzamento, ma solo per conoscerci meglio. Accetti?»
Conclude con un sorriso, e io mi avvicino fino a sfiorare la sua fronte con la mia. «Simon...»
«Cosa?» bisbiglia sul mio viso.
«Esattamente diciassette anni fa sono stata adottata. È questo il motivo per cui sono in Norvegia. Manca un tassello, che spero di poterti raccontare, un giorno, ma devi sapere soltanto che ho vissuto la mia vita nelle bugie e nei segreti. Sto scappando. Oslo è un rifugio temporaneo. Mi ero detta di non affezionarmi troppo a nessuno, per non soffrire quando arriverà il momento di tornare a casa. Ma il punto è che New York non è più casa mia. Mi sento una dispersa, che non trova un posto. Finn dice che forse è questo, il mio posto. E, magari, ha ragione.»
«Perché ha ragione?» Appoggia completamente la sua fronte contro la mia. I nostri respiri si mescolano.
«Perché su questa spiaggia, in mezzo alle stelle e al buio, con la tua canzone e con te, mi sono sentita veramente a casa. Quindi, sì, accetto la tua proposta, Simon. Voglio sapere ogni cosa di te, e voglio che tu sappia ogni cosa di me. Voglio potermi fidare di nuovo di qualcuno, e voglio che quel qualcuno sia tu.»
Restiamo così, con gli sguardi incastrati, i visi vicini e il moto dolce delle onde ad avvolgerci.
Spazio Autrice
Buon pomeriggio, cari lettori🌤
In questo capitolo, la nostra Bree compie diciassette anni e Simon le prepara una sorpresa speciale. Una cena in riva al mare, una canzone e una "dichiarazione". La scintilla di cui vi parlavo è scoccata proprio tra loro due.
Spero vi sia piaciuto il modo e il contesto in cui è accaduto. Bree ha bisogno di distrarsi un po', ma questa sarà la strada giusta? Sta a voi deciderlo, nei commenti 👉
Non preoccupatevi per Mason: anche lui avrà un bel regalo di Natale, nel prossimo capitolo🤭
Xoxo🎂
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