Libertà

Mintaka uscì dalla pagoda reale e una folata le schiaffeggiò il viso.

Un gruppo di nobili dai volti rugosi, sia uomini che donne, camminava nella sua stessa direzione. Mintaka si fece da parte. La superarono col capo alzato e senza degnarla di un saluto. Dietro di loro venivano giovani e giovinette dagli sguardi spenti e chini che procedevano con passo sincronizzato.

Se li lasciò alle spalle e calcò il ponte che dava sull'esterno: si stendeva sopra a un fiume che circondava il palazzo reale come un anello e in cui galleggiavano dei fiori di loto rosei. Carpe albine e scarlatte, grandi quanto un infante, continuavano a saltare fuori dall'acqua. Mintaka non seppe dire se stessero giocando o cercando di fuggire da quella prigione. Se ci fossero riuscite, sarebbero morte. Valeva la pena di morire, pur di essere liberi?

Rivolse le sue attenzioni al Drago Dormiente: benché potessero contare su truppe scelte, egli era il vero guardiano dell'isola su cui Korban era stata fondata. Le sue spire erano mura che avvolgevano l'intera isola, le squame merli, la testa, rivolta verso il mare, dava vita a una spumeggiante cascata. La leggenda voleva che fosse la cavalcatura del primo Mizar, in attesa del ritorno del suo padrone. Che fosse realtà o mito, la sua maestosa presenza aveva spinto alla fuga intere flotte barbariche. I draghi marini, fiere cavalcature dei nobili, a suo confronto parevano appena usciti dall'uovo.

Ai tempi dell'infanzia, Mintaka era solita sdraiarsi e ascoltare quello che credeva essere il flusso del suo sangue. Maturando aveva scoperto che era solo acqua che scorreva attraverso dei condotti.

Procedette lungo la scalinata che l'avrebbe portata sulle mura. Le sentinelle le offrirono fugaci inchini senza che i loro volti mutassero. Lo sconfinato mare, invece, era sempre in movimento: ospitava creature provenienti da tutti i regni, una gigantesca orchestra in cui i ruoli erano decisi dalle capacità e non dalle imposizioni di un ordine superiore. Simbolo della scoperta, aveva permesso ai Mizar di portare la civiltà e costruire floride colonie, dando una vita degna di essere vissuta ai rozzi popoli che avevano assimilato. 

Mintaka amava paragonarsi a quella distesa: quieta in superficie ma in preda a un tumulto interiore, con un prezioso tesoro che attendeva in profondità. Il suo tesoro era però visto come un orrido mostro che attendeva di essere liberato per portare la rovina. 

Non aveva il coraggio di affrontare Alnilam. Avrebbe voluto partire per la capitale e ricongiungersi con Acrux e Muliphein, ma nessun Mizar imperfetto poteva offrire i propri servigi alla Dea.

Prima di arrivare alla cascata volse lo sguardo alle Stelle Gemelle: erano due altissimi scogli, circondati da altri più piccoli. Teatro di molteplici duelli, ricordavano che l'onore e l'onestà non valevano niente, se non supportati dalla forza. Forse, un giorno, anche lei avrebbe invocato quel confronto. 

Ricominciata la camminata, si accorse che un giovane in preghiera l'aveva preceduta. Attese il proprio turno e, quando lui si girò, lo riconobbe come l'attendente di Elnath. «Mia signora!» sussultò.

Lei gli fece un cenno amichevole. «È giusto che tu chieda il sostegno del Drago Dormiente». Non aveva preso la decisione a cuor leggero, perché si poteva domandare qualcosa solo una volta l'anno e una preghiera sbagliata poteva portare alla rovina. "Risolutezza". La lady gettò una pietra con l'incisione tra le acque.

La osservò sprofondare e attese. Non percepì sollievo e non vide attorno a sé segni divini.

Delusa, si rivolse all'apprendista che ancora la guardava. Mintaka lo trovò carino, coi lineamenti androgini, i capelli castani e quell'aria timida. «Salute a te. Con chi ho il piacere di parlare?»

«Algorab dei Mizar, mia signora!»

«Molto bene, Algorab. Ti concedo di scortarmi».

Lui eseguì un inchino, si spostò per farla passare e la seguì. Mintaka pensò a qualcosa d'incoraggiante da dire e fece numerose prove nella sua testa. Si voltò appena per vederlo in viso: Algorab teneva lo sguardo chino e deglutiva. «Sei uno dei partecipanti al torneo. Per essere arrivato così in alto devi essere un guerriero formidabile».

«Vi ringrazio, mia signora».

«Di quale accademia sei?»

«Arcturus» rispose lui, confuso dalla domanda retorica. Quell'accademia era specializzata nell'addestrare cacciatori di streghe.

«Oh, anche io ho studiato lì» disse frettolosamente la giovane lady. Nominare suo padre le portava alla mente un'idea orribile che nessuno proferiva.

Algorab si passò le mani sul collo e non la guardò negli occhi neanche quando lei si girò. «Cosa ne pensi della proposta dell'Imperatore?»

«Sulla Legge Bianca, mia signora?» Algorab sollevò la schiena. «Per quanto non osi mettere in dubbio la lungimiranza di sua maestà l'Imperatore, trovo che spingerebbe i Mizar ad affidarsi più alle armi che a loro stessi».

"Hai ripetuto bene, poi ti daremo il biscotto". «Hai mai visto qualcuno sorridere?»

«Lady Mintaka?»

«Sorridere, esternare gioia» specificò lei muovendo le dita sotto le fasce.

«Non... non abbiamo il tempo per farlo».

«Esattamente. Non trovi che sarebbe meglio se dedicassimo di più alla nostra felicità?»

«La felicità si consegue nel perseguire il proprio dovere».

«Codice dei Mizar, articolo sedici, comma uno, paragrafo tre» riconobbe Mintaka. «Ripetiamo quel che ci viene detto quando potremmo formulare qualcosa di nuovo».

«Nuovi... paragrafi o commi?» chiese guardingo.

La guerriera represse uno sbuffo. «Non ti sei mai sentito oppresso?»

Algorab sollevò il mento. «Mai!»

"Non ha neanche il coraggio di ammetterlo. Che stiamo facendo a questi ragazzi?" Lei era stata in parte influenzata da Muliphein, considerato da Alnilam un'anomalia. Aveva frugato nell'albero genealogico dei Mizar e i suoi capelli rossi e occhi ambrati derivavano da matrimoni avvenuti cinque e sette generazioni fa. Rimasti latenti per decenni, si erano ricongiunti coi loro genitori. «Quello che voglio dire è che... pensare a noi stessi non vuol dire smetterla di preoccuparsi dell'Impero. Aiutando noi, raggiungeremo il nostro pieno potenziale e aiuteremo anche gli altri».

Algorab si accertò che fossero soli e Mintaka lo vide osservare la testa del drago. «Volete far ritorno ai vostri alloggi, mia signora?»

La giovane lady ammise la sconfitta. Erano tutti schiavi di quel culto del dovere che schiacciava l'individuo e i suoi veri talenti. «Accompagnami e rifletti su quello che ti ho detto».

Non proferirono verbo, costruendo un'atmosfera mesta mentre il Sole scompariva all'orizzonte. Giunti davanti al palazzo, gli disse: «Non so cosa ti abbia spinto fin qui, ma spero che un giorno tu riesca a combattere per te stesso». Attese una risposta che non venne. «I miei saluti».

«Eccellere è...»

Mintaka richiuse l'uscio e vagò per ampi corridoi ricolmi di statue, dipinti, vasi, armi e altre ostentazioni di un vuoto potere. Arrivata alla sua camera, si richiuse la porta alle spalle.

Il mondo da cui aveva cercato di fuggire era attorno a lei: la naginata che aveva vinto al torneo era appesa alla parete da quel fatidico giorno. Quando la guardava, pensava al momento in cui le tenebre avevano preso il sopravvento e aveva stroncato un brillante futuro. Non l'aveva mai maneggiata, nemmeno nelle spedizioni a cui aveva partecipato. "Eccellere è un dovere" recitava la scritta sull'asta.

Le lunghe mensole disposte sopra al letto erano stracolme di libri. Le prime tre parlavano di eroismo e sacrificio in nome della patria e dei propri comandanti. Mintaka non riusciva a credere che gli eroi del passato avessero davvero guardato la morte in faccia senza alcun timore.

La quarta, invece, racchiudeva i poemi dedicati ai vinti, con cui, a volte, empatizzava: uomini che erano fuggiti dinnanzi al pericolo, codardi che avevano abbandonato i loro fratelli, guerrieri sconfitti ma non finiti. Un dignitoso suicidio era tutto ciò che potesse salvarli dal disonore. L'alternativa era diventare dei reietti: rinnegati dai propri cari, cacciati dalle loro città, venir evitati come il portatore di una malattia contagiosa. Tra loro, soltanto uno aveva deciso di fuggire dall'Impero, ma era morto in un desolato deserto che aveva inghiottito il suo nome.

Erano un ammasso di menzogne e mezze verità da cui traspariva un terribile messaggio: la vita contava poco ed era un onore offrirla in sacrificio.

Si tolse i guanti e li gettò via. Le mani erano raggrinzite, attraversate da pustole, calli e ustioni. Le aveva ridotte così per manipolare il fuoco divino e non le avevano detto neanche una parola d'incoraggiamento. 

Poteva sopportare le ferite e gli impedimenti, ma le continue denigrazioni la stavano facendo impazzire. Come le sue mani, la sua mente si stava lentamente logorando. 

Superò un bonsai e andò verso una statua, raffigurante la Dea, la sollevò e rigirò più volte le gambe del piedistallo. L'ingranaggio scattò e uscì un cassetto con dentro un libro. Quanti tesori si potevano trovare nelle tane del nemico!

Aprì quel tomo e spinse da parte quello sulla brinomanzia. Armata di inchiostro, piuma e documenti che studiava e nascondeva, passò più di un'ora - che avrebbe dovuto dedicare ad altro - a tradurre il significato di quelle parole. Le recitò nella sua mente e sussurrò a bassa voce quelle invocazioni alla fiamma divina che bruciava nei cuori dei mortali.

Il volume era stracolmo di formule in enochiano, la lingua della magia, descriveva i procedimenti degli incantesimi e le potenzialità della non-morte. Quelle righe le facevano accapponare la pelle e sorridere fino a far dolere le guance. La necromanzia era il suo quarto elemento e prevedeva di fare scempio dei cadaveri dei caduti. Non era così diverso dal mandare i soldati a morire e potevano usare i corpi dei nemici.

I non-morti di livello inferiore erano come animali: rozzi e violenti, col cervello in gran parte danneggiato. Non erano esseri umani e una maggior quantità di potere mutava le loro membra. Le magie superiori rianimavano delle creature sempre più potenti e intelligenti, affamate di aconito e prive di anima. Potevano rivelarsi letali sugli angeli, dato che questi erano vulnerabili proprio all'aconito.

O ancora erano potenziali minatori, avanguardie su cui testare le forze del nemico, cariche con cui terrorizzare i nemici minori... un necromante era anche capace di assorbire le energie altrui, e questo lo rendeva potenzialmente in grado di distruggere da solo un intero esercito.

Le illustrazioni la colpirono con violenza: umani deformati, corpi ammassati tra loro a creare abomini dalle molteplici bocche e con tentacoli al posto delle braccia, scheletri che combinavano le armi di più creature... erano terrificanti e meravigliosi al tempo stesso. Un necromante era ciò che più si avvicinava a un dio: un modellatore del mondo limitato solo dalla sua immaginazione.

Mintaka non aveva potuto allenarsi seriamente e nelle battute di caccia aveva ucciso e rianimato di nascosto solo qualche animale. Grande o piccolo che fosse, il principio era lo stesso.

Le serviva comunque più potere. Ad Alcyone, nella sala dei trofei, attendeva una pietra che era stata trovata nel cuore dell'Empusa Nera. Mintaka l'aveva osservata solo durante una visita che le aveva concesso poco tempo per ammirare il trofeo degli Alioth. Era così scura, lucente... perfetta.

La necromanzia aveva solo un limite, che nessuno scettro o gemma le avrebbe permesso di superare: non si poteva resuscitare chi era già morto. 

Dieci rintocchi annunciarono l'ora: Mintaka sospirò, inserì dei fogli con le traduzioni nel tomo e lo richiuse. Era sciocco non approfittare di una simile risorsa.

Si morse il labbro. Avevano paura che si rivoltasse contro di loro e che diventasse come le streghe?

Respirò affannosamente, prese il libro e lo infilò con foga nel nascondiglio. Si mise le mani nei capelli e se ne strappò alcuni. Chiedeva solo di poter essere sé stessa!

Camminò in circolo nella stanza, sforzandosi di mantenere un passo leggero. Doveva parlare con Acrux e Muliphein, l'abrogazione della Legge Bianca era la scusa perfetta per recarsi da loro. Ma se voleva presentarsi ad Alcyone, aveva due vie: combinare qualcosa di grave oppure essere perfetta, come si conveniva a un vero Mizar.

Ritornò sui tomi di brinomanzia: non era mai riuscita a forgiare il piritio azzurro, eppure Alnilam aveva appreso i segreti. Che le fosse sfuggito un qualche significato nascosto o che la sua mente fosse troppo caotica?

Per incentivare l'impegno aveva immaginato di costruire degli artigli di piritio per le sue creazioni, o ancora di rivestirle con spesse armature, a cui poteva aggiungere spuntoni o creste, tutt'altro che funzionali ma dall'innegabile impatto psicologico.

Queste idee, però, s'incentravano sulla variabilità delle forme, non sulla resistenza del metallo.

La sua mente stava assemblando una nuova immagine: scheletri di draghi, artigli di piritio imbevuti di aconito... avrebbe potuto abbattere perfino il Serafino.

Si dette una sberla per risvegliarsi da quelle fantasie e tornò a leggere con attenzione i testi. Man mano che la stanchezza si accumulava si facevano largo idee sempre più cupe.

Un tonfo lontano la fece sobbalzare. Le sentinelle di guardia facevano sempre un po' di rumore, ma quando era bambina temeva sempre che un'empusa fosse arrivata per finire il lavoro. "Finché sono qui sono al sicuro. Non possono strisciare verso di me, smembrarmi e divorarmi mentre ancora respiro. Come hanno fatto con mio padre!"

Era già scoccata la mezzanotte. Era stanca e non riusciva a tenere gli occhi aperti. Si lasciò cadere sul letto e sprofondò nel sonno.



Vide delle figure consunte e appese al soffitto che ondeggiavano intorno a lei. Faceva freddo e respirava a fatica.


I corpi rotearono lentamente: erano cadaveri di esseri umani, spellati e agganciati come bestie da macello.


Mintaka fece un salto indietro. I cadaveri erano diventati di più, una sconfinata distesa che la circondava. 

Avrebbero dovuto essere morti, eppure muovevano le labbra e gridavano straziati. «Scappa!»

Le voci si sovrapposero, erano una massa opprimente che le toglieva il respiro. Cadde in ginocchio e sentì un rumore inquietante.


Lo riconobbe: erano delle ossa che si spezzavano. 

I cadaveri si girarono all'unisono e piansero lacrime di sangue. Una figura si stava avvicinando pur restando immobile.

Era la progenie del male, una bestia senza remore guidata da una fame insaziabile e da una fredda intelligenza. 

Ai suoi piedi giaceva un cadavere dal volto deformato dal dolore. Fratelli, amici, fedeli... chiunque poteva diventare il suo banchetto. 

Dato un altro morso, s'interruppe per osservarla: aveva i suoi stessi capelli corvini e occhi dal taglio sottile, ma la bocca era piena di denti affilati che stavano masticando un cuore. 

L'orrida e scheletrica donna si levò in piedi e si gettò su di lei. Mintaka gridò.




Si svegliò di soprassalto e si alzò. La stanza appariva tranquilla, ma nelle sagome dei mobili temeva di scorgere la figura di un predatore.

Ansimò e tenne le mani puntate, gli abiti zuppi attaccati alla pelle. Attese in silenzio di riuscire a scacciare quella mostruosa visione. 

Si accasciò sul letto con gli occhi spalancati e un unico pensiero a riempirle la mente. "Se le empuse hanno stuprato e divorato mio padre... allora tra loro c'è la mia sorellastra?"



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