L'arma

Artemis era cinta d'assedio da un ciclo di Luna. Le colonie dei Mizar avevano mosso i primi passi, scagliando rapidissime viverne e facendo fuoco con cannoni a lunga gittata. La barriera eretta dallo Zaffiro Lunare ingannava i sensi e impediva di mirare con precisione, per cui molti colpi erano andati a vuoto.

I soldati umani devoti alle empuse non avevano ricevuto il permesso di entrare nella fortezza e si erano accampati nelle zone limitrofe. Le empuse dedite alla magia della terra avevano costruito trincee attorno al gigantesco cratere che racchiudeva Artemis e aiutato a nascondere trappole e armi in punti strategici.

I Mizar avevano risposto scavando un tunnel. Un giorno prima che arrivassero al nido delle neanidi avevano percepito lo scavo e una guardiana, simile a una gigantesca e massiccia mantide, aveva sorpreso e divorato gli invasori.

Nei giorni successivi l'armata del Re Drago era giunta: dopo una tregua di un paio di cicli solari le offese erano ricominciate. Le viverne avevano fatto piovere barili di polvere da sparo e demolito gli edifici, qualche cavalcatore aveva attraversato la barriera e si era ritirato pochi secondi dopo per dare informazioni utili sulla struttura della città.

Dopo i Mizar e il Re Drago, il più ostico nemico si era rivelato l'Unicorno Bianco. Soldati, trappole e cambiamenti del terreno erano serviti a poco contro gli unicorni, agili come capre e veloci come frecce. Il re aveva deciso di non avanzare e di travolgere i guardiani esterni, in modo da isolare le streghe e spingere alla fuga i loro alleati. Le empuse erano state costrette a mobilitare una decina di reparti di barghest: i cavalli avevano fracassato i crani coi duri zoccoli, i lupi avevano dilaniato le gole. La lotta era andata avanti per delle ore e si era conclusa con la distruzione della cavalleria e la cattura di una ventina di ufficiali. In contrapposizione, uno dei sovrani sposato con una strega era stato assassinato dal proprio fratello, che, in accordo col Re Drago, aveva catturato la cognata per usarla come merce di scambio.

I prigionieri avevano permesso di stabilire una tregua. Per Selene era una buona occasione per prendere una boccata d'aria. Quell'improvvisa quiete le suscitava sentimenti contrastanti che alimentavano la sua stanchezza. 

Assieme ad altre streghe era stata incaricata di produrre frutti e piante curative, che a loro volta venivano trasformati in pozioni che erano distribuite ai feriti. Le avevano concesso una piccola camera isolata dove poter operare e ogni giorno una sorella minore si recava da lei per ritirare la consegna e informarla delle novità.

Durante l'assedio era uscita solo tre volte, per far visita a Perseide e alle bambine. Febe e le altre l'avevano assalita per cercare conforto e chiedere quando madri e sorelle sarebbero tornate. Selene aveva potuto solo chinarsi, abbracciarle, baciarle e ammettere di non saper le risposte.

Le loro aspettative si erano frantumate nei primi giorni. Mura che tremavano, scoppi in lontananza, figure di riferimento che lasciavano le loro ultime parole prima di andare a combattere. Non c'era niente di epico e avventuroso in quelle carneficine.

Quel giorno non sarebbe andata a trovarle. Si sentì il colpa, aveva il dovere di confortarle, ma aveva bisogno di tempo per sé stessa. Così come le sorelle, per proteggerle, erano andate a combattere, lei doveva concentrare i suoi sforzi nella produzione di erbe medicinali.

Uscì all'aperto e rimase delusa: l'aria era impregnata dell'odore di polveri infiammabili; numerosi edifici, compresi alcuni luoghi sacri, erano stati fatti a pezzi.

Il campo era disseminato di neanidi: rannicchiate in piccoli gruppi, si leccavano le ferite e attendevano che le cure avessero effetto. Le morte venivano portate via e date in pasto alle loro simili.

Con gli alleati e servi che continuavano a calare di numero e gli alleati dei Mizar che si ammassavano, le empuse parevano a un passo dalla disfatta. La Grande Madre doveva averlo capito prima di lei. Aveva qualche arma segreta, qualcosa che doveva mostrare a più persone possibile, senza ucciderle.

Selene percorse il sentiero adibito, sorvegliato dalle guerriere, e arrivò al bordo fortificato. Il paesaggio martoriato pareva un gigantesco cadavere, sfregiato da centinaia di cannonate e migliaia di cicatrici. Poche neanidi si aggiravano alla ricerca di cadaveri e piccoli drappelli mantenevano la posizione. Dall'altra parte il Re Drago inviava bambini, scortati da soldati più esperti, per dare il colpo di grazia ai feriti incurabili e trascinare via i corpi.

Oltre alla terra di nessuno erano stati costruiti gli accampamenti dei regni minori. Nei loro assalti erano riusciti a uccidere delle empuse, i cui cadaveri erano stati portati via per trasformarli in trofei. Le guerriere avevano pagato a caro prezzo le scelte della Luna. Nessuna possibilità di decidere il proprio destino, solo il modo in cui andarci incontro. Forse, tra loro, c'erano le sorelle e le madri di cui le bambine continuavano a chiedere.

Le neanidi, invece, erano state private dell'esoscheletro, legate e rivolte verso il basso a delle croci quadrate, in sfregio al simbolo sacro.

Le empuse non erano state più generose: alle mura erano stati legati dei cadaveri, animati da piccole scosse magiche per farli sembrare vivi, ed erano state esposte delle teste private della mandibola.

Una di queste era a un passo da Selene. Una civetta ci si era adagiata sopra e le stava avidamente mangiando gli occhi.

Era un massacro da entrambe le parti. Si vedevano a vicenda come mostri, ma se le empuse avevano la loro vita al di fuori della battaglia, anche gli umani dovevano averne una. Guardando la testa, Selene si domandò quali fossero stati gli ultimi pensieri di quell'uomo mentre le neanidi gli spezzavano le ossa. Una disperata invocazione d'aiuto, mera paura o aveva gridato il nome della persona amata? Non sapeva nemmeno se fosse un fanatico guidato da smania di distruzione o un pover'uomo strappato all'agricoltura nel nome di un falso ideale. Poteva avere dei genitori che pregavano una divinità inesistente affinché tornasse a casa sano e salvo, dei figlioletti che ogni giorno si affacciavano alla finestra nella speranza di vederlo tornare. Una casa, una città, una vita.

La violenza si nutriva di sé stessa e avrebbe continuato finché una delle parti non avesse ceduto. O lo avrebbero fatto entrambe?

Selene poggiò le mani sui merli. Non era la vita che voleva per il suo popolo. Non era giusto vivere e far vivere in quel modo. 

La guerra non era la risposta, se non per difendersi. Sentiva che c'era un'alternativa che non riusciva a vedere. 

«Non perderti nei sentimenti. Hai già fatto più di quanto ci aspettassimo» le disse una voce alle sue spalle.

Selene si girò di colpo. «Perseide». L'aspirante regina aveva grosse occhiaie e il viso tirato. La sua faccia era diventata più magra e gli zigomi erano evidenti. «Da quanto non ti riposi?»

«Da quale pulpito, non riusciresti a curare un graffio!» Perseide sorrise scoprendo le gengive. «Io non ho tempo per riposare, lo sai. Tu che stai facendo?»

«Medito». Selene indicò con lo sguardo la testa impalata.

«Io guarderei ciò che stanno facendo alle nostre sorelle. Spero che sia stata una morte rapida».

Selene socchiuse gli occhi, amareggiata. «Ci stiamo comportando come loro. Non mi piace».

«Dici così solo perché sono morte solo streghe che nemmeno conoscevi».

Era vero. La rattristava sapere di così tanti caduti, ma se fosse morta Perseide si sarebbe rintanata sotto le coperte a piangere come una bambina.

«Era necessario, lo sai». Perseide si appoggiò a un merlo, vicino a lei. «Se non abbiamo un capo facciamo fatica ad andare d'accordo tra membri della stessa razza. Figurati tra razze diverse: la debole viene distrutta o schiavizzata».

Selene porse una mano. «Di solito non fai questi discorsi».

Perseide la fermò. «Un brutto momento, passerà».

Selene la prese per la tunica. «Passerà se andrai a riposarti».

«Non ne ho bisogno, devo gestire i piani». Puntò il dito ed esclamò: «Mezzo continente ci sta assediando, ma entro domani questa parte della storia avrà fine!»

Selene avrebbe approfondito se la sorella non fosse stata già a pezzi. «Capisco. Ti prego di scusarmi. Fai attenzione».

Selene discese dal sentiero. Il pericolo si stava avvicinando, Perseide non ce la faceva più, avevano perso tantissimi soldati e le seleniti si stavano esaurendo.

Si sfregò gli occhi. Aveva i nervi a fior di pelle ed era troppo provata perché la sua preveggenza servisse a qualcosa. Doveva andare a riposare nelle stanze dove un'alchimista le avrebbe somministrato un sonnifero.

Sarebbe stato bello addormentarsi, dimenticare i problemi e risvegliarsi in un mondo dove erano scomparsi.

Quel mondo, se mai fosse esistito, lo avrebbero costruito su pilastri di cadaveri.

                                                                          ***

Selene fu svegliata da potenti esplosioni. Si alzò di scatto dal letto, prese in fretta la tunica e uscì dalla stanza. Il sonnifero aveva esaurito il suo effetto e lei aveva recuperato le forze. Le altre sorelle si erano alzate a loro volta e due di loro stavano già correndo fuori con le armi in pugno.

Selene sentì il cuore batterle come un tamburo. Corse verso l'uscita, vagò per un lungo tratto e trovò una finestra. L'aprì e guardò il cielo: era luminoso e nitido.

Nitido come non avrebbe dovuto essere: la barriera aveva ceduto e il nemico poteva vederle.

La volta si era riempita di viverne ed empuse: le prime erano più massicce e i loro cavalieri erano dotati di piccoli cannoni, troppo veloci per le loro avversarie e capaci di abbatterle con un sol colpo.

Le empuse, un tempo dèe, cadevano dal cielo, abbattute dagli umani che le avevano venerate.

Selene provò il desiderio di soccorrere le sorelle, ma non sarebbe stata d'aiuto. Doveva accertarsi che le bambine si fossero messe in salvo.

Si sporse fuori, calcolò la distanza e saltò sul tetto più vicino. Il suo peso, tre volte superiore a quello di una donna umana di pari stazza, rischiò di sbilanciarla.

Mentre correva un cavaliere in groppa a una viverna atterrò sulla cinta e incitò i soldati ad andare avanti. Selene immaginò che fosse il Re Drago, o almeno un suo luogotenente. Altre creature giunsero: i loro cavalieri erano dotati di piccoli cannoni con cui avevano abbattuto le empuse di guardia. La guerra di logoramento era diventata di sfondamento.

Spianata la strada, arrivarono delle arche, ciascuna dotata di una decina di cannoni per parte: i proiettili detonarono producendo un'esplosione con una potenza e un odore diversi da quelli della polvere da sparo o della selenite. Le brecce erano state aperte e le armate dilagarono come un fiume in piena.

Dov'erano i soldati umani, le neanidi, le altre empuse? Erano state spazzati via? Combattere era vano, doveva portar via chiunque potesse salvare.

Un ululato squarciò la notte: una strega nera stava galoppando da sola verso le bestie. La viverna più grande ruggì di rimando e aprì le ali per intimorire l'indomito barghest.

La strega alzò le braccia al cielo. «Salutate l'erede della Prima Sorella! Nata dal sangue dei Mizar e della Grande Madre!»

Selene si sporse. Quelle parole avevano provocato i Mizar, il cui generale ordinò di attaccare. Decine di viverne sputarono le loro vampe, ma una forza invisibile afferrò le fiamme e le rivoltò contro i soldati.

«Sorgi dalle antiche ceneri, Agrotera!» invocò la strega.

Un lamento che sembrava provenire dalle più oscure profondità scatenò il panico tra le truppe.

Il pavimento del piazzale si frantumò e i frammenti piovvero come cannonate su palazzi e uomini, spargendo rovina. Dai fumi emerse la sagoma di un'empusa molto più grande delle sue simili. Neanidi guardiane e barghest capibranco marciavano al suo fianco e nei loro occhi brillava lo scintillio della Luna di Sangue.

I soldati attaccarono, ma i loro sortilegi s'infransero contro una parete invisibile e le palle di cannone vennero deviate.

Selene la vide: al bagliore del Sole, quell'empusa pareva una mastodontica statua di zaffiro. Agrotera ruggì e il suo richiamo scosse il mondo circostante. «A me, figlie della Luna!»

Altre empuse emersero dagli edifici per unirsi alla battaglia. La giovane strega avvertì l'impulso e si sarebbe gettata se non avesse avuto qualcun altro, più bisognoso, da proteggere.

Le forze si scontrarono: l'empusa di zaffiro spazzò via venti uomini in pochi istanti, morse la viverna al collo e le strappò la testa. Il cadavere si contorse e il cavaliere cadde. «Sono il Re Drago! Rispar...»

L'empusa abbatté le massicce falci su di lui: lo colpì decine di volte, facendolo sprofondare, ordinò a barghest e streghe di attaccarlo e queste lo trascinarono fuori, gli strapparono l'elmo e lo morsero ripetutamente sulla testa, riducendogli la faccia a una maschera di sangue. Agrotera lo afferrò, lo portò alla bocca e fece schioccare le fauci. Il Re Drago implorò una pietà che non giunse. Selene strinse gli occhi quando vide la sorella divorarlo. Sentì le ossa e il metallo che andavano in pezzi, vide una gamba cadere e venir addentata dai lupi affamati.

La giovane strega sentì le tempie pulsarle e indietreggiò, più spaventata dalla sorella che dal nemico.

La mattanza riprese. I cannoni avevano consumato gran parte delle munizioni, i maghi erano troppo deboli, il numero non contava niente. In pochi minuti le truppe vennero ricacciate indietro, ma l'empusa di zaffiro scavalcò le mura, si sollevò e ruggì nuovamente.

Un'ombra offuscò le stelle e portò con sé un freddo che faceva sembrare estate il pieno inverno.

I due titani piovvero sulle forze dei Mizar per dar vita a un massacro senza precedenti.

Selene si strinse nelle spalle e il gelo le penetrò nella carne.
Udiva i cavalli che nitrivano, si scontravano tra loro e travolgevano i loro padroni.
Odorava il sangue che scorreva a fiotti e si mescolava con polveri ed escrementi.
Sentiva il vento glaciale, portatore di un male con cui le sorelle erano scese a patti per la propria sopravvivenza.
Vedeva cannoni e uomini che venivano scaraventati in aria. Piovendo già morti sui loro compagni seminavano altra morte.
Percepiva la disperazione. Chi incrociava l'empusa blu non si preparava a combattere, ma a morire: una paura capace di paralizzare i muscoli, inibire i sensi e frantumare lo spirito.

La strega cadde in ginocchio e si coprì le orecchie in un vano tentativo di sfuggire a quella mostruosità. Invocò la protezione della Luna, ma continuava a sentire le urla, le implorazioni, i pianti che s'interrompevano e le esplosioni. Erano un'orrenda cacofonia portatrice della fine.

Rise istericamente: per fermare gli umani che le consideravano dei mostri lo erano diventati davvero. Gli umani stavano pagando per aver cercato continuamente il conflitto, sarebbero stati decimati e avrebbero narrato della brutalità con cui migliaia dei loro compagni erano stati trucidati.

Strappò le tegole dal tetto e le lanciò ovunque. Perché le avevano spinte fino a quel punto? Perché non avevano voluto trattare? «Pezzi di merda, guardate com'è finita! Fuggite, brutti stronzi, e non tornate mai più!» Selene si rannicchiò in posizione fetale. «Voi ci avete resi dei mostri! Noi... noi non lo eravamo!»

All'improvviso qualcosa si schiantò su di lei e detonò. Selene, sconvolta, non fece in tempo a percepire la minaccia. Il soffitto, già fatiscente, si ruppe. Precipitò nel vuoto, un fischio nella testa le ottenebrava i sensi. Atterrò e i detriti le rovinarono addosso.

Tossì e ringhiò di rabbia e dolore. Cosa l'aveva colpita? Era stato lanciato un attacco secondario?

Un orrendo sospetto l'assalì. «Le bambine!» esclamò alzandosi di scatto. Barcollò, il fischio non se ne voleva andare. Selene ricadde e sputò polveri e sangue.

Bambine, apprendiste, ferite... le empuse credevano di aver lasciato al sicuro il loro futuro, ma se avesse tardato lo avrebbero perso per sempre. Doveva salvarle e dimostrare a sé stessa che c'era ancora qualcosa di buono per cui lottare e vivere.

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