Inganni

Dabih era seduto dietro a una scrivania, le dita che passavano sui bracciali che gli avevano consegnato la vittoria. Era bastato premere un pulsante, occultato tra lacci e cinture, affinché scivolasse fuori una pietra magica. Una volta rotta per lanciare l'incantesimo, i resti erano evaporati senza lasciare traccia. Aveva vinto con l'inganno.

Lo stemma degli Alioth, simbolo di luce e fama eterna, troneggiava alle sue spalle come un rapace pronto a ghermirlo. Al momento del duello aveva sentito un fastidioso brusio, simile a una risata, nelle orecchie, e le stelle si erano fatte più opache, come se gli antenati avessero chiuso gli occhi per non assistere a quello scempio. "Non devi temerli", gli aveva assicurato lo zio. "Loro sono dalla tua parte".

La porta si spalancò, facendo entrare Wasat. Era giulivo e portava un mazzo pieno di dalie violacee. «Dabih, sei ancora avvilito?» chiese mettendole in un vaso.

Il loro profumo non rilassò Dabih. «Ho molte domande, zio».

«Strano, non è da te» scherzò Wasat.

Dabih si grattò il collo. «Hai detto che andremo ad Alcyone... lì non saremo più noi a comandare. Ci saranno numerosi alti ranghi e dovrò stare attento a non provocare nessuno, ma mostrarmi sempre cordiale e rispettoso». Più che un discorso allo zio, era un ripasso a voce alta. «Perché ci dobbiamo trasferire lì e non a Polaris?» Era un posto pericoloso, vicino al fronte, ma stracolmo di formidabili maghi e abili insegnanti.

«Mi deludi. I parenti sono i nemici peggiori. Abbiamo molto meno da rischiare circondati da sconosciuti» rispose Wasat con naturalezza. «Piuttosto, dimmi cosa dovrai fare adesso».

Dabih comprese che lo zio voleva evitare l'argomento, per cui ragionò sulla richiesta. Nei casi in cui non era prevista la pena di morte veniva punito il gruppo per le colpe del singolo: era un modo per evitare che si coalizzassero contro il potere. Wasat gli aveva sempre detto che qualsiasi forma di gentilezza o esitazione era un segno di debolezza. Erano nobili, ma dovevano guardarsi dai superiori, pronti a schiacciarli perché deboli, dai pari che volevano i loro averi e dagli inferiori che intendevano spodestarli. «Premiamo il quattrocentootto con una ricompensa in denaro!»

Wasat s'illuminò. «Esatto. Quanto al quattrocentosedici... Ti avevo detto che re Rigel non accetta i marchiati, ma tranquillo: ci penseranno i suoi commilitoni. Tu pensa a sfruttare la vita di corte per studiare gli altri casati».

«Lo farò, zio. A proposito...», Dabih chinò la testa, incerto su come affrontare l'argomento «Ain è forte, questo è vero. Vuol dire che è un bastardo?»

Wasat si grattò il mento e un'ombra velò i suoi occhi. «Le sue capacità sono rare. Ma se lo fosse, non importerebbe».

«Non vorrei ritrovarmelo come cugino, sarebbe un bel momento per valutare un dignitoso suicidio» scherzò Dabih.

Wasat rise. «Ain non ha comunque il giusto talento. La sola forza ti permette di diventare un cane da guardia, non un membro. Per farlo bisogna ricorrere all'arte dell'inganno».

Dabih si grattò le gambe. «Come fece Zadok».

«Assassinare i concorrenti e vendere il proprio corpo è l'unica, umiliante via per poter salire».

Aveva intuito dove lo zio volesse arrivare. «I giochi di potere mi annoiano, zio. Non c'è, piuttosto, un modo per aumentare la mia forza?»

«Lascia perdere. Uccidere i parricidi è un passatempo per nobili annoiati in cerca di emozioni. Le battaglie con l'esterno le vincono i generali, quelle interne le vincono i politici. Ho già dei progetti per te. Li affronteremo più avanti».

Dabih si alzò in piedi con uno scatto. «Deve esistere, zio, deve! Ho diciotto anni!»

Una sberla lo colpì. Colto alla sprovvista, Dabih cadde a terra. Il dolore gli invase il corpo. «Ci sono buoni motivi per cui sono stato evasivo. Non osare mai più, mai più. Ci sono cose di cui neppure noi possiamo parlare. Non chiedermi il perché». Il volto di Wasat era deformato dalla collera, gli occhi spalancati e le mani tremanti.

Dabih si tenne la guancia. «M-mi dispiace, zio...»

Wasat sospirò, si chinò verso il nipote e gli sfiorò il viso: il dolore si dissolse lentamente. «Possibile che per cacciarti qualcosa in quella testa bacata debba usare la violenza?» La voce era triste, come se stesse assistendo a un fallimento.

Dabih chinò la testa. «Io sono discendente di un grande eroe, ma sono così... ordinario. Perfino Sadr riesce a incassare i miei pugni».

Camminò per la stanza e guardò alcuni dei quadri. Donne e uomini di bellissimo aspetto che sfoggiavano fieri i loro trofei. «Alioth Achernar, l'uccisore di Wezen il Sanguinario. Alioth Altair, Signora delle Fiamme. Alioth Atlas, il Terrore delle Streghe, nonché l'Ultimo Grande Alioth. Occhi, capelli, pelle, lineamenti, sono diversi gli uni dagli altri. Hanno elevato la loro razza al pari della nostra! Io brillo di una luce riflessa. Perfino Sirius l'Umiliato ha solo avuto la sfortuna d'incontrare l'Imperatore Acrux». Si fermò dinnanzi a uno specchio, in cui vide riflesso solo un gracile ragazzino dallo sguardo spento. «L'Imperatore Atlas ha ucciso l'Empusa Suprema. Io invece...» Si portò di fronte al suo piccolo acquario, dove dei pesci dalle scaglie dorate nuotavano. Dabih fece un gesto e le acque tremarono, poi si formò un vortice e un piccolo flutto si levò verso l'alto. Assunse la forma di un serpente che, roteato su se stesso, si aprì: liberò un bocciolo da cui uscirono rami e fiori.

L'albero d'acqua ondeggiava come se un flebile refolo lo stesse scuotendo: se per Wasat era un grazioso dettaglio, per Dabih era solo un riflesso del suo scarso controllo.

«È magia artistica» tentò di rassicurarlo Wasat.

«Certo, è un bel risultato... se devi organizzare uno spettacolo per bambini!» si accigliò Dabih, facendo sparire la scultura d'acqua con un gesto di disprezzo. «Non è degno del mio rango. Io... io certe volte non riesco a credere di essere davvero un Alioth. Non so fare magie mediane, controllare gli alberi e sono più debole di un comune orso. Più che aver ricevuto la scintilla di mia madre, temo di averla avvelenata!»

Wasat gli accarezzò la testa. Le spalle di Dabih si rilassarono. «Non dire così, nipote mio. Tu non sei figlio di tuo padre, perché sei più saggio di lui. L'altruista cade, lo si celebra dandogli il nome di una piazza e il giorno dopo tutti lo hanno dimenticato, il fuggiasco vive e può andare in giro a prendersi i meriti dei morti. Non ne vale la pena. Anche io mi sento un po' a disagio all'idea di essere simboleggiato dalla Lumerpa». Indicò lo stendardo con gli occhi. «La leggenda vuole che avesse piume brillanti, ma che si spegnessero una volta strappate. La nostra è una menzogna, una delle tante che servono a tenere in piedi l'Impero, così come la Dea ha voluto. Smettila di temere la collera degli antenati, ciò che conta è la fede in lei».

Un pensiero invase la mente di Dabih. Una paura capace di minare le sue certezze e che aveva provato fin dal momento in cui Ain lo aveva sconfitto anni addietro. "Se tutti noi stiamo mentendo, allora anche la Dea potrebbe mentire?" Aprì la bocca, ma gli mancò il fiato. La sberla gli aveva ricordato i suoi limiti. Non poteva andare oltre una certa soglia e determinati argomenti erano vietati perché troppo pericolosi. 

Dopo una breve riflessione, decise di concentrarsi su altro. Spostò le mani e arrivò a sfiorare una grande mappa, affissa al muro. Rappresentava i Tre Regni dominati dalla Dea, divisi dal resto del continente da una catena montuosa con un piccolo passaggio. Dabih guardò i vari fiumi che attraversavano la penisola e i loro affluenti, per poi soffermarsi su Cicatrice Azzurra. Lì era morto suo padre. «Zio, dimmi la verità. Mio padre è davvero morto con onore?»

Lo stomaco di Wasat gorgogliò, ma il suo volto non mutò espressione. «Non è argomento di cui voglia parlare».

«Perché era troppo bravo? Mi hai detto che ha ucciso una dominazione!»

Wasat gli dette le spalle e si girò verso la finestra. Rimase per lunghi secondi a guardare le sottili lance di Sole che penetravano. «Se ci tieni così tanto, te lo dirò». Non si voltò. «Tuo padre era un formidabile guerriero, più coraggioso che astuto. A Polaris, sulle rive del fiume, ci fu un feroce confronto con una schiera di arcangeli. A suon di cannonate e magie riuscimmo a respingerli, ma il loro comandante, una potestà, riuscì a fuggire. Mio fratello decise di seguirlo, e io lo inseguii nel tentativo di fermarlo. Cademmo in un'imboscata». La voce di Wasat si spense come una candela travolta dal vento. Si sedette sulla sedia e si sfregò il viso. Il respiro divenne sempre più veloce e si mise una mano sul cuore. «Gl-gli... loro... gli angeli ci attaccarono con globi di fuoco. Io fui travolto dalle esplosioni e il suo elmo rotolò ai miei piedi. Prima che potessi anche solo capire cosa fosse accaduto, u-una fortezza emerse dalle polveri. Andai nel panico e scappai urlando mentre quel gigante di zaffiro m'inseguiva. Dei soldati inviati a soccorrermi lo tennero impegnato mentre io fuggivo. Il corpo di mio fratello non fu mai ritrovato». Indicò la propria cicatrice con un movimento brusco. «Me la feci da solo, prima di partire, per rendere il mio ritiro più dignitoso».

Dabih si sentì come se gli avessero tagliato le gambe. Appoggiatosi alla parete, scivolò a terra. Era falso. Tutto falso. Gli era stato detto che suo padre aveva lottato con la furia di un drago prima di morire perché numericamente soverchiato e abbandonato dai plebei che erano indietreggiati.

Wasat si asciugò il viso con un fazzoletto. «Adesso sai. Non ho mai voluto turbarti con questa verità e ho preferito incoraggiarti con delle menzogne. Per il tuo bene!»

Dabih ansimò e si asciugò la fronte imperlata di sudore. Un nuovo dubbio lo stava logorando. «Mia madre...» Si alzò di scatto e dette un pugno alla scrivania, spezzandola in due: le schegge volarono ovunque e lo zio si ritrasse. «Non è stato il dolore a uccidere mia madre!»

Wasat, autoritario, gli puntò il dito contro. «Nipote, controllati!»

Questa volta Dabih non cedette. Erano anni che quel racconto non lo convinceva. «Un Alioth non muore di dolore, ma per il veleno sì. Mia madre è stata avvelenata?»

Il braccio di Wasat si afflosciò. «Mi disse che era l'unico modo per stare sempre insieme a tuo padre e con te». Sguainò il suo pugnale e spalancò gli occhi. La lama vibrava. «Le aprii il ventre con questo pugio e ti salvai appena in tempo!» Nominare l'abominio che aveva compiuto aveva deformato il suo volto sicuro.

Dabih si mise una mano sulla bocca e represse un conato. Suo padre era stato un folle, sua madre una debole che lo aveva avvelenato, e forse menomato a vita.

La verità era troppo dura da reggere. Se solo suo padre avesse scelto un'altra vita sarebbero cresciuti come una famiglia serena. Non avrebbe vissuto nella convinzione di essere l'anello debole di una solida catena. Che l'ambizione, la fama e l'idealismo fossero maledetti! «C'è qualcosa di vero in quello che mi hai sempre detto?» chiese, ansimante.

Wasat si levò dalla sedia, si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla. «Sì. Che ti ho sempre voluto bene come se fossi mio figlio. Impara da questa lezione, Dabih. Dimentica le ballate, dimentica l'eroismo, dimentica le grandi imprese. Tu non hai il talento per diventare un vero guerriero. Pensa a sopravvivere».

Lo sguardo di Dabih si perse nel vuoto. Quella rivelazione aveva spogliato il padre, amato quanto odiato, dall'aura d'infallibilità. Col suo crollo sentiva un senso di vuoto dentro di sé e... paura. L'intera catena poteva essere fragile. «E il nostro casato?»

Wasat lo fece sedere, aprì la teca di un armadio e si versò del vino. Molte gocce caddero sul tavolo. «Siamo il più debole, e, se non faremo qualcosa, saremo i prossimi a cadere. Re Rigel è un pazzo che cerca di emulare i grandi senza averne le capacità, sua moglie è scomparsa e siamo l'ombra di ciò che eravamo». Bevve dell'altro vino.

«Non possiamo chiedere aiuto alla Dea?»

«La Dea è benevola con chi la compiace quanto spietata con chi la delude. Ho un piano, ma per oggi ti ho già detto abbastanza!» troncò Wasat, sempre più teso.

Dabih decise che non avrebbe sfidato a duello nessuno e avrebbe fatto di tutto per evitare conflitti, celando la sua vulnerabilità dietro a uno scarso interesse per la lotta e un'indole diplomatica. Col popolo, invece, sarebbe stato il più crudele possibile. Chiunque avesse anche solo osato aprir bocca senza permesso sarebbe stato punito, e con lui tutti coloro che lo circondavano.

Abbandonata la scrivania spaccata, si portò di fronte allo specchio. Osservò le narici che si aprivano e chiudevano con trasporto, le guance rosse, i solchi delle lacrime. Si dette una sberla per rinsavire. "Spalle dritte, sguardo sicuro, mento alzato. Guance rilassate, respiro tranquillo".

Se il popolo avesse scoperto chi era veramente la Lumerpa sarebbe stata sbranata da cani affamati e infuriati. E le sue piume si sarebbero spente per sempre.

                                                                          ***

Ain fu svegliato da una secchiata d'acqua gelida.

«Avanti, bastardo, si parte. Dormito bene?» arrivò una voce.

Ain tossì e sentì la guancia ardere. Una fiamma amaranto lo sovrastava. «N-no, signore. Ho dormito malissimo, signore».

«La tua scintillante corazza è già pronta». Il sottufficiale gettò l'equipaggiamento e uno zaino ai suoi piedi. «Non sono degno di assisterti nella vestizione, prode eroe. Ti attenderò con ansia» lo derise.

Ain poggiò le mani per rialzarsi. Qualcuno doveva averlo curato, ma il corpo doleva, in particolare la guancia destra, gli faceva male perfino muovere la mandibola. Solo sfiorarla gli strappò un gemito. Maledisse la sua arroganza e quelle parole che si era lasciato sfuggire. Se fosse stato zitto forse si sarebbe risparmiato l'irremovibile marchio. 

Più che rabbia, provava tristezza. Non aveva alcuna prospettiva per il futuro e si chiese se Naos lo avesse tradito o meno. Nella paura aveva sperato in un suo intervento, ma sapeva che altrimenti li avrebbero uccisi entrambi.

Chinatosi, raccolse una veste fatta di anelli intrecciati tra loro, conscio che non fosse in metallo incantato. Era la divisa di un soldato semplice, la carne da macello, un uomo la cui esistenza si sarebbe persa nella massa e sarebbe stata dimenticata. 

In mezzo al materiale scadente vide la fascia recante lo stemma dell'armata delle fiamme: un uccello, simile a un'aquila, che emergeva dalle vampe. Aveva fama di poter resistere a qualsiasi attacco, poiché rappresentava la devozione alla Dea. Il nemico non poteva spezzare la loro fede. "Ma il corpo sì".

Si vestì con lentezza, attento a non toccare l'ustione. La testa urlava di un dolore che diramava per il corpo, i muscoli si contorcevano e gli anelli metallici lo avrebbero graffiato se avesse eseguito un movimento brusco. I soldati marchiati non portavano l'elmo, impossibile da indossare. 

Frugò ancora e trovò la medaglietta identificativa recante il suo nome da soldato. Lui non era Ain, era il soldato numero quattrocentosedici, accademia Algedi Alioth, anno cinquecento dopo l'avvento della Dea. Si era chiesto il motivo per cui i soldati le portassero, anziché esporre tatuaggi indelebili. Ufficialmente era per velocizzare i controlli e perché era difficile falsificarle, ma Ain aveva sempre sospettato che fosse per favorire il lavoro sporco. Sarebbe stato semplice ordinare a dei soldati a volto coperto di commettere un assassinio e poi lasciare una medaglietta, magari appartenuta a un commilitone. Sembrava concepita apposta per favorire i conflitti interni e sfruttare i figli di Nessuno come lui.

Era vero. Sua padre era una figura indistinta che suscitava il suo disgusto. Non avrebbe portato il suo nome neanche se avesse potuto, e nemmeno quello della madre.

Ain si sfiorò il marchio. Se i suoi genitori lo avessero visto, probabilmente avrebbero ribadito il loro disprezzo. Era stato solo uno strumento nelle mani di Dabih.

Avvilito, caricò lo zaino in spalla e si avviò verso la cinta muraria del campo, alta come quattro uomini e continuante nel sottosuolo. Pochi portoni, presidiati da guardie armate, davano all'esterno; era vietato tentare di varcarli, pena la condanna a morte. Solo tre apprendisti avevano provato a scappare durante una notte ed erano stati colti sul fatto. Fissò infastidito le mura alla sua sinistra. Aveva avuto lui, assieme ad altri giovani, l'ingrato compito di pulirle dal sangue rappreso. Qualche altro temerario aveva cercato di fuggire scavando un tunnel con la magia della terra, ma il giorno dopo erano state ritrovate delle ossa spezzate.

Le sentinelle e i pochi che avevano preceduto Ain gli lanciarono delle occhiate accompagnate da sorrisi di derisione; uno di loro bisbigliò qualcosa ai suoi compagni, che risero silenziosamente. Un altro lo guardò e aprì la bocca, poi strinse le labbra e si diresse verso un altro gruppo.

Ain attese per interminabili minuti. Lo avrebbero lasciato in città per qualche mese, per poi spedirlo al fronte a far da diversivo per conquistare qualche pezzo di terra.

Un ruggito lo fece sobbalzare. Le reclute attorno a lui alzarono le armi e guardarono il cielo. Un'ombra calò su di loro. Era una bestia dal corpo allungato rivestito di oro scintillante, una ventina di teste dalle fauci affilate emergevano dai lati, mentre la principale, centrata e più grossa, eruttava un fiume di fuoco scarlatto. 

Ain la guardò meglio e abbassò la lancia. Non era un mostro, ma un'arca. Non ne aveva mai viste da vicino. La nave volante fece un giro attorno al campo, in modo che tutti potessero vederla, poi si fermò nel centro e si adagiò lentamente a terra; dei pali emersero dalla carena per sostenerla. L'ammirò: il metallo dorato che la ricopriva era piritio, le teste bestiali erano bocche di cannoni lavorate per ricordare i musi delle viverne e di un drago. Perse un battito quando vide delle fiamme piantate nelle cavità oculari e sentì dei rauchi respiri. In loro avvertiva qualcosa di vivo.

Nonostante l'aria fresca Ain era inzuppato di sudore. Quelle armi erano in grado di fondere il metallo all'istante e di colpire bersagli a mille iarde di distanza e oltre. Il piritio che la rivestiva era lo stesso dell'armatura di Dabih. Col vantaggio dell'altezza una sola arca avrebbe sconfitto tutti gli apprendisti del campo in una volta. Pilotarla sarebbe stato come diventare un dio. Dall'alto i soldati gli sarebbero apparsi come insetti da scacciare, tirando una catena avrebbe trucidato centinaia di uomini senza correre alcun rischio. Sfidarla sarebbe stata pura follia.

Circondati dalla loro scorta, Wasat e Dabih si fermarono davanti al mezzo e rivolsero un fugace saluto a un guerriero dall'armatura bianca, nuovo responsabile dell'accademia. 

Wasat alzò le mani e prese la parola. «Lode alla Dea! Soldati! La fiamma dorata Alioth Dabih deve fare un discorso!»

I militari fecero il saluto e si disposero attorno a loro. Ain preferì rimanere in fondo, dietro a un gruppo di fiamme rosse.

«Coraggiosi soldati!» pontificò Dabih con voce sicura. «Ieri notte avete assistito a una gloriosa cerimonia. Al fine di farvi comprendere che non nutro alcuna acrimonia nei vostri confronti, oggi ci sarà una premiazione. Che il numero quattrocentootto si faccia avanti».

Ain non riuscì più ad ascoltare. «No, no...»

«Guarda che traditore» bisbigliò una fiamma rossa. «Si è professato amico di Ain per anni e ha venduto il culo così».

«Quel bastardo ci ha ingannati. Se gli avessimo tirato una coltellata ci avrebbero dato un battaglione» aggiunse un parigrado.

Ain lasciò cadere le armi per non rischiare di romperle. Era come un coniglio circondato da un branco di lupi affamati.

«Noi tutti possiamo assaporare la libertà grazie alla legge, ma ci sono volte in cui dobbiamo compiere delle scelte. Con immenso piacere consegno il premio in denaro a questo valoroso: un conte d'argento e cinque visconti di bronzo. Pochi avrebbero saputo rispettare le regole e mantenere la calma in un così difficile momento» concluse Dabih.

La voce di Naos apparve ad Ain carica di gioia trattenuta. «Vi ringrazio, mio signore. L-lode alla Dea!»

Tra gli applausi generali Ain raccolse le sue armi e chinò lo sguardo con vergogna. Tradito e venduto per qualche soldo.

Dabih e Wasat salirono sull'arca, che si librò a una trentina di iarde d'altezza e sputò un'altra vampata. Le truppe, invece, avrebbero dovuto marciare fino al primo accampamento.

I militari uscirono dall'accademia con passo di marcia e calcarono il ponte che divideva in due la palude che circondava l'accademia. I miasmi gli bruciavano gli occhi e la gola. I grandi alberi tendevano i rami verso i soldati e li muovevano in modo irregolare e confuso. "Lui ti vede" pensò senza riuscire a staccare gli occhi dalla pianta più vicina.

Qualcosa si tuffò poche iarde sotto di lui: le acque ribollivano e Ain credette di aver visto qualcosa agitarsi. 

A ogni angolo di quel ponte percepiva il pericolo e temeva che qualche orrenda e sconosciuta bestia lo assalisse. Tossì rumorosamente, e con lui tanti altri. Il ritmo accelerò, ma Sadr, che apriva la strada, era troppo lento e probabilmente dovevano spingerlo.

Continuarono a camminare per minuti che parvero ore: nessun uccello si avvicinava alle piante, da cui proveniva un rumore confuso, simile a denti che battevano per l'eccitazione. Alcuni rami erano strisciati sul ponte e i soldati stavano ben attenti a non calpestarli, degli alberi parevano roteare i tronchi verso le fila e Ain ebbe la sensazione che uno si fosse mosso di almeno una iarda. Si ripeté che fosse solo suggestionato dalle voci.

Si sentì libero da quella presenza opprimente solo quando il ponte terminò. Era riuscito a sopravvivere, ma per quanto?

Coprì la bocca per soffocare un gemito mentre prefigurava un futuro sempre più oscuro. Ovunque guardasse vedeva solo strade che lo avrebbero condotto alla miseria o alla morte.

Toccò il marchio: non gli restava altro da fare che sperare.

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