Indipendenza

Lady Mintaka si fermò dinnanzi alla porta che dava sulla sala del consiglio dei Mizar. Aprì lo specchietto che portava sempre con sé e fece le ultime prove: per quanto si sforzasse di mantenere un'espressione composta, il volto la tradiva con piccole rughe e contrazioni. Richiuse lo specchio con uno scatto e toccò l'elsa della spada che portava alla vita. 

Un respiro profondo e varcò la soglia: le sembrò di essere discesa nelle profondità marine. Dietro a solidi vetri mante fosforescenti vagavano come anime perdute, squali cornuti disperdevano banchi di pesci senza divorarli, crostacei grandi quanto un uomo si affrontavano in prove di forza simili a danze e altre creature giacevano sul fondale in una quieta attesa.

Attraverso l'ibridazione i Mizar avevano realizzato nuove specie che, consce della gerarchia, non si assalivano a vicenda. I draghi marini, giganti serpentiformi dalle venature dorate, facevano rispettare l'ordine e divoravano chiunque osasse violarlo. Avevano perso il titolo di re dei mari per diventare dei servi, ma avevano guadagnato bellezza e potenza.

Mintaka ammirò quei colori con tristezza: nelle terre dei Mizar l'arte non era la voce dell'anima, bensì un inno di guerra volto a denigrare e provocare il proprio vicino.

Mintaka si avvicinò alla capotavola, dove l'attendeva la regina Alnilam: la sua pelle bianca e liscia come porcellana, i lineamenti delicati, gli occhi grandi, scuri e freddi come un abisso che nessun fuoco poteva rischiarare. Il kimono color mare metteva in risalto le forme aggraziate ed era adornato con intrecci di perle e coralli. La sua corona era un elmo da cui si diramavano otto draghi serpentiformi dalle bocche spalancate e in cui erano incastonati zaffiri capaci di scorgere ogni nefandezza. Era talmente bella da far cadere gli uomini ai suoi piedi e talmente spaventosa da terrorizzarli.

Mintaka disegnò un inchino. «Vostra maestà». "Sorella".

«Giovane lady». La sua voce era paragonata al canto di una Fenice, ma per Mintaka era algida, come se fosse un'estranea. Rivolse una fugace occhiata alla spada e non a lei.

Con lo sguardo basso e le mani, guantate e dolenti, congiunte al grembo, Mintaka salutò i nobili in ordine d'importanza e prese posto alla fine del tavolo. Una decina di posti la separavano dalla sorella assieme a due sedie eternamente vuote. 

I lord e le lady la scrutavano grifagni. Non avendo ancora compiuto i venticinque anni, Mintaka era il membro più giovane e non poteva portare la spada che sanciva il suo grado. Realizzata sul modello antico, aveva fama di poter squarciare la più solida delle armature; in realtà era fragile come il cristallo. 

Nell'attesa tenne le mani separate dalle cosce e tra loro di qualche capello, come suo fratello Muliphein le aveva insegnato. Per quanto i guanti fossero larghi, stringevano. I membri dell'assemblea lo sapevano e lei doveva apparire dura come un'armatura. 

Alnilam aprì il suo ventaglio e si alzò in un fruscio di seta. «Eccellere è un dovere». Come ipnotizzate dalla sua voce, le creature marine si chetarono.

«Eccellere è un dovere» la imitarono gli altri. Somigliavano a dei fantocci.

Alnilam iniziò. «I miei ambasciatori hanno continuato a fomentare l'odio contro le empuse e sono riusciti a convincere numerosi regnanti a perorare la nostra causa. Il più importante tra loro ha preso l'altisonante titolo di Re Drago». Qualche consigliere si fece scappare un piccolo sorriso. «Per suggellare il nostro accordo ha richiesto di diventare un membro del nostro casato e la potestà sulle nostre colonie. Giovane lady Mintaka, in caso di vittoria tu sarai la sua sposa».

"Che delicatezza" pensò Mintaka. «Accetterò con gioia questo onore, mia signora». Lo sposo non aveva neanche chiesto di vederla. Se fosse morto non si sarebbe disperata.

«Gli eserciti alleati marceranno per distruggere più nidi possibile, ma il trionfo è improbabile. Causeranno comunque numerose perdite».

Si levarono dei commenti di approvazione.

«Il prossimo argomento è più grave: l'Imperatore Acrux vuole abrogare la Legge Bianca!» Seguì un mormorio concitato e Mintaka trasalì. Le era nota la simpatia di Acrux per il generale Zadok - e anche Muliphein pareva andarci molto d'accordo - ma quel cambiamento avrebbe necessitato dell'approvazione dei tre casati.

Alnilam assunse un'espressione mesta. «Fratelli, sorelle. Figli e figlie di Mizar. In qualche modo, quel popolano di Zadok non ha solo insidiato lord Muliphein, ma perfino l'Imperatore. Avevo creduto che le armi di Zadok fossero strumenti prodotti su scala limitata, un'alternativa meno costosa alle seleniti. Sire Acrux vuole andare oltre, senza avvedersi delle conseguenze». Si alzò e camminò per la sala, gli ampi abiti e la corona che proiettavano un'ombra dalle molte teste. «Il popolo smarrirà il rispetto, i maghi diverranno pigri e dissoluti e screditeranno gli antichi segreti. Questa... tecnologia ci defrauderà di forza, onore e legge!»

Qualche nobile si agitò sullo scranno. «È grazie ai nostri sacrifici che siamo diventati il casato più potente» dichiarò lord Elnath, responsabile dell'accademia dedicata al defunto padre di Mintaka. «Questa non è un'innovazione, è una sfida. Dobbiamo dimostrare all'Imperatore che le macchine non possono nulla contro i Mizar!» Dietro di lui un ragazzo, probabilmente suo figlio, confermò con dei movimenti del capo. «Dovremmo sostituire le seleniti con una sostanza che si ricava dal letame?»

Alnilam fece cenno di tacere. «Che parlino i giovani».

Calò il silenzio. Non erano fucili e cannoni a intimorire gli eredi di Mizar. Sapevano però che una sola scintilla poteva trasformarsi in un incendio.

Mintaka pensò a come esprimersi. "Condivido i vostri timori, fratelli e sorelle. Forse un giorno noi maghi perderemo il nostro prestigio, ma tal giorno è ancora lontano. Non siamo mai riusciti a sconfiggere le emp... i cociti, noi abbiamo bisogno di cambiare, evolverci! I cambiamenti ci sono sempre stati: le arche, i cannoni a seleniti, l'allevamento...  dobbiamo essere pronti a scegliere anche altre vie. Sarà graduale, la nostra forza non verrà meno". Era sul punto di parlare quando incrociò gli occhi di Alnilam e sentì delle mani stringerle il collo. Abbassò la testa, disegnò un inchino e chiese la parola.

«Queste innovazioni susciteranno il disappunto del popolo: una macchina potrebbe fare il lavoro di dieci, cento operai. I copisti hanno sofferto quando la stampa è stata inventata e il loro talento non è stato più necessario. Sono stati zittiti perché erano pochi e costavano troppo». Tra i nobili si levarono commenti di approvazione. Anche le decisioni in apparenza più giuste avevano dei lati negativi.

«Abbiamo dedicato gli anni migliori della nostra vita a imparare la magia per venire messi in ombra da un pezzo di metallo?» rincarò il figlio di Elnath con timbro atono.

Altri apprendisti che in normali circostanze avrebbero dovuto osservare si unirono alle critiche. Ricevettero un inchino collettivo, al quale Mintaka si unì controvoglia.

L'assemblea procedette e si parlò dell'imminente torneo del Primo del Regno, il cui vincitore avrebbe potuto mirare a un posto nel consiglio e perfino al trono. Trattarono anche gli straordinari risultati dei maghi dediti all'agricoltura o all'allevamento. Dal punto di vista minerario, nonostante le risorse rinvenute nel mare e nelle colonie, erano invece secondi ai Megrez. Mintaka invidiò i giovani di quel casato. Doveva essere davvero bello avere la possibilità di sbagliare.

Passarono alle combinazioni dei matrimoni. I Mizar erano convinti che la superiorità del sangue andasse preservata incrociando tra loro i membri migliori. Genitori, nonni e zii esposero attestati e medaglie dei loro eredi e discussero per ore per decidere quali combinazioni avrebbero dato i figli più talentosi. Gli interessati non presenziavano.

Pochi minuti vennero dedicati alla compilazione di una richiesta per l'Imperatore: poiché i Mizar erano l'unico casato ad aver fondato delle colonie nelle terre esterne, sarebbe stato corretto revisionare i titoli. Passare da regno a impero sarebbe stato uno schiaffo in faccia agli altri casati. 

Conclusero presentando una diatriba tra due giovani Mizar: non essendo riusciti a stabilire chi fosse nel torto, i rivali avrebbero risolto col Duello delle Stelle Gemelle. Mintaka sperò che si evitasse il morto.

Quando l'ultimo documento venne timbrato, la regina decretò la fine dell'assemblea richiudendo il ventaglio. I nobili si alzarono, si inchinarono e uscirono dal più alto al più basso di grado. «Non te, giovane lady».

Mintaka sfiorò l'elsa: la mano le bruciava e non poteva darlo a vedere. «Sì, mia signora». La sguainò senza attendere l'ordine: era una lama candida a doppio taglio, realizzata sul modello delle più possenti spade dei Megrez. L'anima era nel pesante astartio, l'esterno nel leggero, immacolato ed elegante piritio.

Alnilam la sguainò, soppesò e roteò. Estrasse una foglia da una tasca e la fece scivolare sulla lama: la tagliò in due parti simmetriche. La giovane lady attendeva una parola di conforto, un gesto di apprezzamento... qualcosa.

«Piritio bianco. Un lavoro ordinario». 

«Siete delusa?»

«Tenere le aspettative basse evita le delusioni».

L'orgoglio si agitò. «Maestà, se posso permettermi, il piritio bianco è riservato agli alti ufficiali».

Alnilam la guardò con supponenza. «Piccola Mintaka, devi comprendere che i tuoi più recenti traguardi, per me, sono ordinarietà da almeno cinque anni».

Mintaka provò con l'ironia. «Però io ho sette anni in meno. In proporzione, sono due anni avanti».

Alnilam ricambiò il sorriso e le restituì l'arma.«O dieci indietro. Nonostante io abbia imparato molto più tardi di te». Prima di appassionarsi a quell'arte era diventata una grandissima maga dell'acqua e del dominio. «Non mi risulta che tu sappia lavorare le seleniti».

«N-no» ammise Mintaka, sminuita. Il suo sguardo cadde sulle due sedie vuote. Albireo e Deneb, fratello e sorella, avevano imparato a fondere tra loro due forme di magia, talento che compariva una volta ogni decennio. La loro gloria era stata offuscata dalla morte: erano caduti assieme al re, grandissimo guerriero, e alla regina, il più grande fabbro dai tempi del mito. 

Cinque eccellenze si erano succedute nella loro famiglia. Poi era arrivata lei. Che senso aveva avuto sopravvivere, se non poteva dare un degno contributo?

Alnilam le alzò il mento col ventaglio. «Non ti ho mai vista nemmeno armeggiare coi cannoni magici. Pensi di potermi contraddire?»

Mintaka si sentì tagliare le braccia e le gambe. Socchiuse le labbra e si promise di sopportare l'umiliazione. «Chiedo perdono, maestà!»

Alnilam tolse la mano e aprì il ventaglio. «Non è col perdono che vendicheremo la nostra famiglia. Abbiamo grandissime responsabilità verso la Dea, l'Impero e noi stessi». Alnilam era glaciale. «Il primo fratello è l'eroe dell'Impero, ma il secondo è stato una delusione». Muliphein aveva ereditato il talento del padre, ma aveva detto che non c'era bisogno di forzare così tanto le nuove generazioni. Aveva parlato di un futuro in cui avrebbero sacrificato una parte dell'eccellenza per maggior serenità. «Augurati che il Re Drago trionfi. Ti verrà concesso di sposare un uomo tremendamente inferiore. Potrai attribuire a lui i fallimenti dei tuoi figli e a suo confronto sarai più luminosa del Sole». 

Mintaka si morse la lingua. L'avevano obbligata a reprimere il suo grande potere. «Rispetteremo gli accordi stabiliti con gli altri alleati?»

«Servitori. Un alleato è qualcuno che tratti da pari, il servo è il cane a cui getti un pezzo di carne dopo che ha eseguito bene il compito. Se non lo farai, gli altri cani non si fideranno di te. Un piccolo prezzo per un grande risultato». Bevve dell'altro liquore. «Formalmente dominerà le nostre colonie, di fatto i nostri governatori continueranno ad obbedire all'Imperatore».

Mintaka vide un'apertura nella perfezione della sorella e decise di attaccare. «Le loro terre saranno allo sbando».

Il liquore nel calice vorticò e lo sguardo della regina divenne tagliente. «Sorvolerò sulla sfumatura alquanto fastidiosa nella tua voce». Adagiò il calice con lentezza. «Pagheresti un mercante che non ha saputo procurarti la merce richiesta?»

"No" pensò Mintaka senza proferir verbo. "Però siamo stati noi a spingerli a coalizzarsi, a riempirli di promesse di gloria e a mandarli a morire".

«Esprimiti. Sarò lieta di correggerti» la incitò Alnilam sbattendo il ventaglio su una mano. «Suppongo che tu voglia accusarmi di viltà per aver manipolato quella manica di bruti che relegano le donne alle mansioni più umilianti. Vedi di maturare e di non attribuirti virtù che non possiedi».

Mintaka si vergognò di sé stessa. Aveva messo in dubbio la lungimiranza della regina solo per poter vincere un dibattito. «Non volevo mancarvi di rispetto, mia signora. Sono però... turbata».

«Da cosa, di grazia?» esclamò Alnilam.

«L'idea di nostro fratello Acrux...»

«Imperatore!» ammonì Alnilam.

«L'Imperatore... è un progetto allettante che apr...»

«Forse non sono stata abbastanza chiara». Le puntò il ventaglio contro come un'arma. «Pensaci dieci volte, prima di muovermi accuse d'incompetenza, o peggio, cospirazione. Sei ancora troppo immatura per poter comprendere la bellezza dell'arte della forgiatura, tramandata per cinquecento anni nel nostro casato».

«Lui lo dice!» si giustificò Mintaka, esasperata dalle continue critiche.

Alnilam esitò. Acrux aveva un forte ascendente su di lei ed era l'unico mortale che temesse veramente. Mintaka la vide restringere gli occhi e pensò che si fosse sentita tradita dal fratello che tanto ammirava. Poteva far breccia nella muraglia che le separava.

Di scatto, Alnilam si coprì il volto per celare una risata fragorosa e spalancò gli occhi. «Oh, piccola lady, come si vede che non sai niente di strategia. Mentre tutti guardano il cavaliere scintillante, l'assassino si muove alle loro spalle».

La stava trattando come una stupida. «Quindi l'Imperatore vuole più potere?»

«Per noi. Sua maestà presenterà il suo scandaloso piano, col sostegno di quel popolano che si atteggia a nobile. I casati maggiori si spaventeranno e opporranno, mentre noi fingeremo di assisterlo. Quando avremo fatto credere loro di voler procedere cercheranno dei compromessi e ci doneranno terre e punti strategici per farci ritrattare». Richiuse il ventaglio, soddisfatta.

Mintaka avrebbe preferito delle percosse a quell'ennesima derisione. Alnilam non la riteneva nemmeno degna della sua ira, la considerava solo un'inetta da sopportare. Volle urlare, ma si trattenne. «Ho compreso, mia regina. Eccellere è un dovere!»

Alnilam ripeté il saluto e le indicò la porta. Mintaka uscì con un misto di rabbia e delusione. Digrignò i denti e irrigidì i muscoli, poi si massaggiò le guance. Non doveva far trapelare emozione alcuna.

Erano dei re con una pesante corona. A volte avrebbe preferito nascere in una famiglia della piccola aristocrazia, dove sarebbe parsa un talento unico e non avrebbe dovuto preoccuparsi di ogni gesto. Abbastanza grande da essere rispettata, troppo piccola per grandi responsabilità. 

Ce l'aveva messa tutta fin da bambina e si era fatta largo con la forza in mezzo alle rivali, senza ricevere trattamenti di favore. Aveva conseguito il titolo di fiamma d'oro e partecipato al torneo del Primo del Regno. 

Lo ricordava con orrore: aveva spezzato il braccio al primo avversario, ma il giorno dopo si era ristabilito. Il secondo aveva perso per sempre un occhio. Il terzo era collassato. Il quarto era stato un'eccezione alle regole. Un popolano che aveva superato numerosi nobili, suscitando perplessità ed entusiasmo in tutto il regno. A frotte erano accorsi, a migliaia lo avevano visto come il Prescelto delle profezie o almeno un nobile smarrito e cresciuto col popolo. Aveva ribattuto colpo su colpo, riducendo Mintaka in ginocchio e perdendo varie occasioni di finirla. L'aveva umiliata davanti alla famiglia e al regno. Il desiderio di non perdere contro un popolano aveva risvegliato in lei qualcosa di oscuro e malvagio. Aveva lanciato un grido e ridotto la sua testa a una massa informe di ossa e carne putrefatta. Era rimasta paralizzata da quell'orrore, incapace di capire come avesse potuto ridurlo in quello stato. Le forze erano venute meno, aveva perso i sensi e si era svegliata urlando, tormentata da visioni di streghe e corpi cadaverici. Acrux le aveva comandato di non farne parola con nessuno.

Putrefazione, malattia, morte. La magia con cui le empuse, oltre duecento anni fa, avevano scatenato un'epidemia. Solo per un miracolo divino il Serafino non aveva sfruttato il momento per mettere a ferro e fuoco l'Impero.

Aveva fatto voto di non usare mai più quell'arte, ma l'ambizione e la vergogna l'assediavano. Si addormentava pensandoci e si svegliava col pensiero che fosse quello il suo recondito talento, ciò che la metteva alla pari col resto della famiglia. Aveva cercato nelle biblioteche di tutto l'Impero dei tomi in proposito: chiunque disponesse di quell'arte magica avrebbe potuto realizzare uno sconfinato esercito di servi senz'anima. Nessuno aveva però osato spingersi così lontano. "Chiederò aiuto al Drago Dormiente. Forse ascolterà le mie preghiere".


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