Il nemico

Era il crepuscolo quando Ain e Naos arrivarono al Distretto Sedici. Il carro che distribuiva regolarmente i soldati era passato presto e li aveva fatti salire assieme ad altri militari che erano stati assegnati altrove. Durante il breve tragitto i due amici avevano varcato le cinte interne, alte una dozzina di iarde cadauna, che separavano i distretti tra loro. Non si trattava di veri sistemi di difesa, ma di recinti per persone. Erano stati eretti due secoli prima, durante la Grande Epidemia che aveva ucciso un decimo della popolazione del regno. Se si sviluppava una qualche malattia contagiosa nessuno poteva uscire e chiunque entrava doveva restare dentro fino al cessare del pericolo.

Il carro si fermò, Ain e Naos scesero in silenzio e andarono incontro al sottufficiale che li attendeva oltre il portone. «Lode alla Dea!» salutarono.

Ain, che si era lucidato gli stivali, trovò l'ambiente deprimente: il terreno non era lastricato, i paesani erano lerci e dagli sguardi sospettosi o tristi, i pochi bambini stavano aiutando gli adulti nei lavori. «Nome, numero, accademia, grado e medagliette!» Il sottufficiale era una donna dal volto tondeggiante, con un naso che Ain paragonò a quello del suo amico. Trovò gli occhi molto belli e non seppe dire se fossero di un marrone chiaro o di un verde scuro. 

«Naos figlio di Nessuno, recluta numero quattrocentootto, accademia Alioth numero venticinque, fiamma arancione». Il tono lasciò presupporre che concordasse il giudizio estetico.

Ain si presentò a propria volta, ma il soldato semplice gli lasciò l'amaro in bocca.

«Il mio nome è Alrai, fiamma arancione a tre fasce. Vi rivolgerete a me chiamandomi "signora". Seguitemi!» comandò la donna che li aveva accolti.

Ain non capì cosa intendesse con "a tre fasce". Wasat non aveva mai parlato di quei gradi. 

Nel seguire la superiora, Ain cercò d'individuare i punti di riferimento: era facile vedere il patibolo per le esecuzioni, sporco di sangue rappreso, il campanile, i cui rintocchi scandivano le ore, e il tempio divino, sulla cui cima era stata posta una fenice in pietra dalle ali spiegate. Il sacerdote locale stava parlando dalla finestra con le braccia aperte e il volto austero. «... la salvezza non è solo nella preghiera, bensì nelle opere. Il dono è necessario per provare a noi stessi che siamo veramente pentiti delle nostre colpe...»

Davanti all'entrata si erano radunate centinaia di persone che scalpitavano come un branco di animali chiusi in una gabbia. Quando l'ennesimo urto fece cadere un sacchetto, una decina di persone si gettò a terra per raccogliere più monete possibile. Si dettero pugni, calci e perfino morsi.

"Sono disperati. Vogliono chiedere l'assoluzione o la fuga?" pensò Ain studiandoli.

La sottufficiale si fermò. «Fatela finita, pezzenti!» gridò colpendo il terreno col manico dell'alabarda.

I cittadini smisero di azzuffarsi e si alzarono lanciandosi occhiate piene di rabbia, ma non dissero niente.

Alrai sputò per terra. Il suo viso era teso e gli occhi infossati. «Feccia della feccia. Solo i protetti sono peggiori di loro».

Quelle parole le valsero la simpatia di Ain. 

Il trio proseguì con in sottofondo la voce del mago che tornava a incitare alle donazioni. Ain si domandò come quell'uomo avrebbe usato i soldi.

«Ciao, bei ragazzi, volete compagnia?» chiese una voce gracchiante alla loro destra.

Sobbalzò: la donna che aveva cercato di abbordarlo aveva il volto segnato da rughe e pustole, le guance cadenti e i denti, quando c'erano, erano storti e marci. Gli abiti puzzavano di sudore e i capelli erano unti. Dietro di lei venivano altre donne ancora più brutte e trasandate.

«Non sono qui per le puttane, andatevene» le scacciò Alrai.

Ain era nauseato. Quale uomo avrebbe pagato per fare sesso con loro?

«No, vi prego, ho bisogno di soldi!» implorò la prima prostituta afferrandolo per il braccio.

Lui si liberò con uno strattone. «Non ho niente, lasciami in pace».

Le donna digrignò i denti, poi lo lasciò andare e abbordò altri potenziali clienti.

Ain si chiese se non fosse stato portato in un'altra città. Naos era ugualmente disgustato. «Qualità inferiore» lo canzonò Ain a bassa voce.

Le uniche note di colore per le strade del distretto erano i campi e gli alberi. Le chiome erano così alte, verdi e vitali da far sembrare la fine dell'autunno una piena primavera, ma le loro radici strisciavano come vermi e succhiavano il nutrimento. Erano i pochi che splendevano grazie al lavoro dei molti. I loro frutti erano succosi, ma presidiati da guardie armate e raggiungibili solo attraverso percorsi obbligati. I paesani erano figure denutrite che portavano carichi di cibo su carri che poi avrebbero consegnati ai quartieri superiori.

Ain e Naos arrivarono dopo pochi minuti alla caserma: un edificio fatiscente, con le mura sporche e la scalinata coperta di fango. Davanti c'era una statua di pietra di un qualche anonimo guerriero, su cui i corvi avevano esternato il loro disappunto.

L'ufficio della sottufficiale era spoglio e vuoto, se non per qualche sedia e dei fogli sparsi. Perfino la scrivania era sporca. Il lucido piritio della sua armatura era un vero intruso.

Alrai si schiarì la gola. «Soldati. Dovete avere il massimo rispetto per messer Lesath, il nostro sacerdote, nonché supervisore. Dovrete presentarvi a tutte le Celebrazioni della Dea del mattino. Una sola assenza sarebbe una grave offesa. Per quanto riguarda i popolani, evitate d'intromettervi nelle risse o nelle liti. Sono affari loro e non abbiamo tempo da perdere per delle zuffe tra campagnoli. Intesi?»

«Sì, signora!» risposero i due amici in coro. Non si guardarono, ma entrambi erano sorpresi da quell'ordine.

«La celebrazione si svolgerà tra un'ora. Vi accompagnerò assieme agli altri soldati. Ogni ciclo di Luna riceverete la paga e ne verserete almeno metà nelle cerimonie. Una moneta trattenuta e vi verrà dimezzato il rancio. Domande?»

Ain avrebbe voluto chiedere qualcosa sul non intromettersi nelle risse, ma pensò che molti popolani avessero il vizio dell'alcool.

Naos non tacque. «Signora, chiedo venia per la mia ignoranza. Non conosco il significato delle tre fasce, signora!»

Alrai tamburellò sul tavolo e indicò il sorcotto sporco. «I soldati arancioni, una volta promossi, non cambiano armatura. Ottengono delle fasce a indicare l'avanzamento. Una, due, tre e quattro. Poi, se sono ritenuti meritevoli, passano al grado successivo e ripetono lo schema, anche se il numero di fasce varia».

Ain notò che la faccia di Naos era virata verso il porpora. Wasat non aveva mai fatto degli accenni in proposito. Sadr era probabilmente al grado base, mentre i giovani aristocratici minori avrebbero avuto subito le tre fasce. La promozione che pareva vicina era in realtà in cima a una lunga scala. Scala cosparsa d'olio per far scivolare, a giudicare dalla situazione.

«Questo è il vostro anticipo» spiegò Alrai dando un sacchetto a entrambi. «Donerete tutto, fino all'ultimo».

Ain e Naos si congedarono e attesero fuori, in silenzio. Notando la delusione di Naos, Ain gli dette un colpetto sul braccio. «Di che sei stupito?»

L'amico rivolse gli occhi ai campi dove sia donne che bambini lavoravano. «I gradi in più non mi hanno sorpreso tanto. Ma questo posto non sembra neanche far parte della capitale».

«Si vede che hanno bisogno di qualche eroe che risolva i problemi. Adesso ci siamo noi».

Naos scosse il capo. «Non ti demoralizzi mai?»

«L'hai detto tu. Impariamo a conoscere il posto e capiremo come dobbiamo comportarci per farci notare. In senso buono».

Si accorse che dei soldati li stavano guardando. Tra loro c'era una fiamma arancione che teneva una spiga di grano in bocca. Aveva l'aria trasandata e li studiava con malfidenza. Nonostante il marchio perfino Ain sembrava un cortigiano, a suo confronto.

Naos seguì il suo sguardo, studiò quel soldato per un istante e si portò più vicino al compagno. Dovevano essersi già fatti un nemico. 

Alrai uscì con in mano un sacco più grande, il cui tintinnio era una dolce musica. Dato ordine d'incamminarsi verso il tempio, partì per prima.

Arrivarono in fretta al santuario, già circondato dalla folla. Tante altre persone sopraggiunsero nell'ora successiva: riempirono le strade più vicine e alcune salirono sui tetti per poter assistere. Ain si sentì schiacciare da quella moltitudine che teneva le mani giunte e gli sguardi imploranti come se stessero per assistere a un miracolo perpetrato dalla Dea in persona. Ciò che videro, però, fu solo un terrazzo nei cui angoli erano stati piazzati dei bracieri ardenti presidiati da un sacerdote e una sacerdotessa, entrambi in rosso. Lesath, il mago dalle vesti gialle, si portò nel mezzo. I suoi capelli scuri erano acconciati in numerose trecce che ad Ain ricordavano dei sottili serpenti. Indossava la tunica dei maghi, munita di cappuccio, ma aveva voluto aggiungersi un mantello. «Nel nome della Dea e della Fenice!» Seguendo il suo volere, le fiamme dei bracieri mutarono colore, passando dal rosso all'arancione e al dorato, poi si animarono, come se gli uccelli leggendari stessero davvero rinascendo dalle proprie ceneri. Le creature di fiamma passarono a volo radente sulla folla, spargendo calore e aromi profumati prima di dissolversi nell'aria.

Gli abitanti ripeterono le parole, poi, tutti assieme, fecero il gesto della Fenice.

Ain eseguì, ma non manifestò alcuna ammirazione. Il fuoco aveva cambiato colore e prodotto degli aromi solo grazie a qualche polvere e aveva visto prodigi ben più spettacolari.

Lesath iniziò a leggere il Libro Sacro. «Dal capitolo della Creazione».

Ain, da bambino, aveva amato quel racconto in cui non credeva più.

«Ci fu un tempo antico e remoto. L'epoca in cui gli uomini erano divisi, veneravano gli dèi falsi e avevano tutti la pelle grigia. Era la Dea a scandire il ciclo del giorno e della notte, attraversando la volta e irradiando la propria luce.

Fu durante uno di questi cicli che Ella lasciò cadere una scheggia di fuoco, che attirò a sé i re del mondo: i codardi rimasero a contemplarla e furono irradiati di una piccola porzione di luce, mentre i superbi protesero le mani per impossessarsene. Il grigio venne soppiantato da una molteplicità di colori. Solo due re trovarono il perfetto equilibrio!

Ella portò i due re oltre le nuvole assieme ai loro popoli: essi erano Ankaa, Cavaliere della Fenice, e colui il cui nome si perse nei meandri del tempo. Nato fiero e retto, fu corrotto dalle debolezze umane, e per essere venerato sparse il proprio sangue su fuoco e metallo. Fu l'avvento degli angeli, marionette mosse da fili invisibili! Con quell'armata, il Traditore, che prese il titolo di Serafino, iniziò la sua brutale avanzata.

«I regni caddero sotto il suo dominio, le terre bruciarono, le alleanze a nulla valsero, poiché in quell'epoca i mortali non facevano uso che di una rudimentale magia. Allora la Dea, avendo compassione, scese dal cielo, illuminando l'isola con la sua luce e bandendo le armate nemiche. Scelti sette eroi che affiancassero Ankaa, dichiarò guerra alle orde del Male e le ricacciò al di là dei confini! 

«I Sette Eroi, che avevano riconquistato l'onore delle loro razze, fondarono i Grandi Casati, e Ankaa dominò come Imperatore in vece della Dea. I Popoli del Deserto, dei Fiumi, delle Foreste e delle Montagne furono unificati. Tuttavia, il Serafino chiamò a sé i cociti, orridi mostri di ghiaccio dalle sconosciute origini. Venne un'ultima, terribile battaglia. Il Serafino affrontò Ankaa in uno sleale duello, in cui il Grendel, sua orrido alleato, trafisse a tradimento il costato dell'eroe. Ankaa, che era retto dalle fede nella Signora, strappò la lancia di mano alla bestia e la infilzò. Benché la ferita fosse grave, Ankaa inseguì il Serafino in groppa a Theós, la sua fenice. Dopo una dura lotta ebbe la meglio e il Serpente di Fuoco precipitò nel vuoto, producendo un vasto cratere e portando via la vita. L'impatto fu così forte che le Zanne Nere si levarono fino a ghermire le nuvole. D'allora sono segno della sua superbia e ferocia. Di fronte a un disastro di tale portata le umane genti caddero nel terrore, ma Theós volò verso il cielo e s'immolò col suo cavaliere. Ancora oggi il Sole brilla per noi, più forte e splendente delle sorelle che illuminano la notte!»

Lesath alzò le braccia verso l'alto mentre declamava: «Nonostante la clamorosa vittoria, la pace era ancora lontana. Un gruppo di fate malvagie rubò un libro demoniaco e si sottopose a un rito ivi racchiuso. I loro corpi mutarono, rendendole orride bestie divoratrici di uomini. Né dominio né ricchezza è la loro brama, solo portare caos e distruzione. Ogni giorno le megere agiscono per avvelenare pozzi e fiumi, maledire i cittadini e mutare gli animali. Solo nella fede è possibile trovare protezione da questo nemico subdolo e sleale! Loro, che in segno di sfida tentarono di replicare il miracolo di Ankaa, plasmarono una grande roccia, la rivestirono di potenti magie e la scagliarono nella volta. Questa roccia prese il nome di Luna: brillante come il piritio puro, ma sotto alla lucente superficie si cela una dura e fredda pietra, debole riflesso della grandezza del Sole.

«I due astri s'inseguono nella volta, a simboleggiare l'eterno conflitto. Conflitto che avrà termine solo quando giungerà il Prescelto: le fenici scenderanno dal cielo cavalcate dagli spiriti degli eroi, e allora le forze del Serafino saranno debellate per sempre». La voce di Lesath si amplificò. «Fino ad allora, mortali, temete la volontà della Dea! Perché solo chi la persegue potrà ascendere al Regno dei Cieli. Chi non vivrà nella sua luce sarà destinato a vagare come spirito errante, torturato da fame, sete e altri tormenti della carne. Solo se qualcuno espierà le sue colpe egli potrà ascendere. Chi non verrà assolto continuerà a errare fino alla fine dei tempi. Nel nome della Dea e della Fenice!»

I fedeli ripeterono il saluto.

Ain, così come gran parte degli apprendisti, qualche volta aveva pensato che sarebbe potuto essere il Prescelto delle Leggende, ma questa fantasia era stata messa da parte.

Poco importava, erano altri gli obiettivi che si prefigurava. Se era possibile scalare la gerarchia solo con l'arte dell'inganno, lo avrebbe fatto. Avrebbe seguito gli insegnamenti del padrone del bordello e la prima vittima sarebbe stata quella fiamma dorata che aveva abusato della danzatrice. Basta restare a guardare le ingiustizie. La capitale era grande, si diceva che contenesse almeno un milione di abitanti. Sarebbe stato molto più facile non attirare l'attenzione. Non poteva essere il solo soldato marchiato.

Una voce si levò dalla folla. «O saggia e potente Dea, datemi un raccolto abbondante!»

«La luce del Sole bacerà i tuoi campi» rispose Lesath.

«Fate che mio figlio torni vivo!» supplicò una donna.

«Abbi fede, e lo rivedrai».

Ain studiò domande e risposte: una benedizione dei campi non implicava un buon raccolto e Lesath non aveva specificato se la donna avrebbe rivisto il figlio in sogno. La mezza verità era un buon modo per confondere e manipolare.

Il sacerdote proseguì la liturgia parlando dell'importanza delle donazioni. Ain aveva sempre avuto il vago sospetto che non tutte le ricchezze venissero spese per celebrare la Sovrana, ma inimicarsi il sacerdote locale sarebbe stato un suicidio. Compiacerlo, al contrario, avrebbe offerto numerose opportunità.

                                                                           ***

Dopo la Celebrazione della Dea, Alrai e altri soldati avevano condotto Ain e Naos di fronte al campanile. Sul terreno era stata tracciato un cerchio dove le reclute si esercitavano. Ain era poco dietro la linea e analizzava con occhio critico i guerrieri. In particolare lo sfidante di Naos aveva qualcosa di strano nello sguardo. Non se ne era accorto subito perché era stato troppo impegnato a fissare le labbra ricoperte di vesciche e i bubboni che deformavano la pelle ambrata. Entrambi i contendenti si tolsero le maglie in seta fatata. Se Naos sfoggiava un fisico prestante e coperto di cicatrici biancastre, il suo avversario era decisamente più esile e il suo addome era segnato da escoriazioni. «Enif figlio di Nessuno, fiamma rossa» si presentò facendo un inchino.

Naos si presentò a propria volta.

Enif fece per mettersi in posizione, poi guardò dietro a Naos, spalancò la bocca e si mise sull'attenti. «Eccellenza, lode alla Dea, eccellenza!»

Ain seguì il suo sguardo. Non vide nessuno. Naos fu altrettanto lesto ad accorgersene, ma aveva abbassato la guardia per quell'attimo che bastò ad Enif per raggiungerlo. Con le braccia Enif aprì un varco nella difesa, ma ricevette una ginocchiata che lo alzò da terra e lo mandò a rotolare sul terreno.

Naos lo bloccò al suolo e fermò il pugno appena prima di colpire il volto. «Tutto qui?» chiese, spavaldo.

Enif mostrò i denti sporchi. «Da morto, avrai poco da festeggiare».

Naos dondolò la testa e si mise una mano sul petto. Enif se lo scrollò di dosso e attaccò. Naos parò alzando un braccio, ma si muoveva al rallentatore. Un calcio sulla gamba lo fece cadere in ginocchio prima che gliene arrivasse uno in faccia. Crollò. Enif gli fu sopra, gli avvolse le gambe attorno alle cosce e lo colpì al viso, ridendo selvaggiamente. Dopo una decina di pugni Naos riuscì a bloccargli i polsi. Rimasero in stallo a guardarsi truci mentre l'uno lottava per sopraffare l'altro. Uno strattone, Enif si liberò e lo colpì ancora, spaccandogli il labbro e facendogli sputare sangue.

Ain non capiva cosa fosse accaduto. Attese per qualche istante che Enif si fermasse, poi disse: «Hai vinto, hai vinto».

Enif lo guardò annoiato. «Lo decido io quando ho vint...»

Gli occhi ardenti di Ain incrociarono quelli di Enif, facendolo trasalire. Lo stupore divenne divertimento. «Sì... direi che la fiamma arancione ha capito».

«Che gli hai fatto?» chiese Ain, accigliato.

Enif passò una mano sul petto di Naos ed estrasse dei sottilissimi aghi.

«S-sleale... li hai sputati» gemette lo sconfitto.

«Vallo a dire al nemico che t'infilzerà da dietro o ai cinque che ti si avventeranno addosso». Enif alzò le mani e fece un'espressione di finta rabbia. «"Non vale, avete barato!" Sono certo che getteranno le armi e si scuseranno imbarazzati».

Naos strinse i denti. Il suo corpo avrebbe eliminato gradualmente il veleno. «Faccio da solo».

«Come, non ti serve un guaritore? Buon per te. Altri dieci avvelenamenti e sarai quasi immune» se la rise Enif.

Alrai dichiarò: «Se il duello fosse proseguito ti avrebbe ucciso. Conosce tanti altri trucchi. Vi avverto: qui comanda Lesath, e quando Lesath non guarda, comando io».

Enif arrivò accanto ad Ain con un balzo e fece cenno di tacere. «Sei strano. Non hai paura. Non sei teso. Come mai?»

Ain non replicò e ingoiò la risposta. «Chiedo venia, signore. Quali sono gli ordini?»

Enif gli alzò il mento. «Siete dei soggetti interessanti, devo dire. Il tuo amico è un po' impegnato, vieni con me!» Enif lo prese per il polso e lo trascinò via.

«Naos è ancora ferito».

«Oh, ma è un sonnifero, mica un veleno mortale. Certo, dipende dalle dosi, il colpo era calibrato per tramortire una fiamma gialla degna di tal nome, lui come se la cava?»

Ain non rispose e si limitò a seguirlo. Enif teneva la schiena gobba e, più che camminare, saltellava. Si fermarono davanti a una delle stalle, da cui usciva il tanfo stomachevole del letame.

«Ora stammi a sentire, Mani di Merda. Sì, tu ora sei Mani di Merda». Non era una novità. Il chiamare per soprannome qualcuno era un goffo tentativo di sentirsi superiori e di poter decidere per lui. «Ci sono montagne di letame che aspettano solo di essere spalate. Questo sarà il tuo primo compito. Non preoccuparti, tutti dobbiamo pur cominciare da qualcosa. Forse, entro un paio d'anni, potrai perfino diventare il Prescelto, ma non mirare troppo in alto. Ah, no, aspetta, sei marchiato. Dicevo? Ah, giusto». I suoi occhi sottili si dilatarono. «Qui ci sono quattro categorie di persone: i padroni, i privilegiati - di cui io faccio parte - , quelli normali e la feccia. Tu non metterti nei casini».

Ain fece un cenno col capo.

«Poi... c'è un'altra cosa che devi sapere. Hai presente quel masso gigante che sta in cielo?»

«La Luna».

«Giusto. Avrai notato che a volte brilla di giorno. Non è un buon segno». Dondolò la testa. «Tra poco ci sarà la Luna piena. Sai cosa significa?»

«Che le empuse saranno più forti».

«Come sei acculturato. Quindi vedi di fare attenzione a qualsiasi donna nuova. Ah, giusto, qui tu sei appena arrivato, quindi ti sembreranno tutte nuove. Dicevo che devi fare attenzione a tutte loro. Se dovessi notare qualche strana signorina che noi valorosi stiamo scortando... ecco, non prestarci tanta attenzione, stiamo solo svolgendo il nostro lavoro. Lo sai cosa ti fanno le empuse, vero?»

«Ti mangiano» rispose Ain, guardingo.

«No no no, quella è la parte leggera. Le empuse sono femmine che divorano il maschio... solo dopo averlo usato. E farti stuprare da quegli sgorbi non è certo cosa piacevole. Scelgono i giovani più fragili, quelli vulnerabili. E allora sì che si divertono». Sorrise e si mise una mano sul cuore. «Più la vittima soffre, più la cucciolata è forte. Vengono fuori orrendi ibridi, incubi viventi che hanno come unico scopo quello di sventrare quelli che sembrano il papà. Se non fosse per noi valorosi soldati sarebbero una vera spina nel culo».

«Grazie della precisazione. Ora posso lavorare?»

«Hai così tanta fretta di tornare nel tuo ambiente? Ben venga, ma non penserai mica che noi siamo cattivi, vero? Se ci sono problemi, parla liberamente».

«Ciò che fate non è affar mio» rispose asciutto.

Enif incrociò le braccia. «Sì, sei davvero un esemplare interessante. Ascoltami bene: ogni mese riceviamo delle richieste dai villaggi vicini. Uccidere qualche animale, ritrovare una persona scomparsa, le solite cose. Non ci guadagni molto perché stai solo facendo il tuo dovere, però è un buon modo per arrotondare lo stipendio. Anche i marchiati possono farlo. Tanto mica scappano».

«Non saprei. Voi non ci andate?»

«Io mica ne ho bisogno, guadagno abbastanza».

«Ora una domanda ve la faccio io, se ho il permesso». Ain non riuscì a dare un tono rispettoso.

«Esprimiti».

«Quel veleno... da dove viene? E che razza di trucco hai usato? Li hai sputati dalla bocca».

Enif arrotolò e srotolò la lingua. «La uso a mo' di canna. Ti tornerà utile. Comunque, il veleno me lo ha venduto messer Lesath. Lui è un ottimo alchimista».

«Alchimista?» Ain s'illuminò.

«Perché, sei capace?»

«In quel campo no. Io sono più bravo coi pugni».

«Ti tornerà utile. A patto che tu sappia scegliere con chi batterti». Enif andò verso la stalla e la spalancò. Un odore pestilenziale bruciò la gola e gli occhi di Ain. La smorfia che fece gli dolse la guancia. «Mi raccomando, tieni la porta chiusa, mentre lavori» ammonì la fiamma rossa prima di andarsene ridendo.

Ain si coprì la bocca. Dentro alla stalla c'erano grosse casse in cui trovò pale e secchi. Trattenendo la nausea, si mise al lavoro. Le mosche ronzavano, producendo un brusio che gli parve una risata trattenuta. «Mi sono spezzato la schiena per dieci anni. Per diventare uno spalamerda?» Pensò ai quartieri alti, dove Dabih e Wasat dovevano star festeggiando la vittoria. Era già tornato al punto di partenza. Sospirò, ma l'odore dello sterco gli invase le narici. "Lavora duro", si era detto tante volte, "resisti finché non verrà il momento". Essere onesti non era servito a nulla. Ripensò al ricco corruttore che aveva incontrato. Coprire uno stupro, sabotare qualcun altro e picchiare un apprendista che parlava troppo forte poteva essere una via temporanea, tuttavia sarebbe finito come Sadr il Pallido Codardo. Avrebbe perso la sua dignità di persona. "Se vogliono una pugnalata alle spalle, l'avranno!"

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