Dura verità

Nota autore: tempo fa avevo deciso di salvare la storia come bozza e riscriverla, ma l'ispirazione non è mai tornata. Alla fine ho deciso di ripubblicarla senza averla revisionata. Sono consapevole dei vari problemi, quindi non fatevi problemi a segnalarli.





Il vento sferzò la schiena di Naos.

Preso un respiro profondo, il suo fiato si condensò in una piccola nuvola, che si dissolse così com'era venuta.

Il collare di cuoio gli stringeva la gola come un cappio e le calzebrache scure gli prudevano. Il nervosismo era acuito dal fatto che il comandante avesse deciso d'indire la cerimonia proprio in una notte di Luna piena. L'astro emetteva un'insolita e fredda luce blu, evento che presagiva sventura, ma almeno permetteva a Naos di vedere il palco e le centinaia di apprendisti che attendevano: per quanto si sforzassero di mantenere la loro compostezza erano scossi da occasionali fremiti o sussulti.

Oltre alle file sorgeva un imponente tempio: la sola scalinata era alta dieci iarde e l'architrave era retta da sei colonne lavorate a immagine dei sei Alioth che erano riusciti a diventare Imperatori; al di sopra delle loro teste, i fregi raffiguravano scene di battaglia contro orribili creature che Naos guardava con un misto di orrore e curiosità. Avevano sia qualcosa di umano che d'indefinito, come se fossero stati gli schizzi di un dio che non aveva ancora trovato l'ispirazione.

Il suo sguardo si mosse sull'arco a tutto sesto dell'entrata: era stato montato uno spesso sipario che teneva nascosta una misteriosa fonte di luce.

Arrivò il distante rullo dei tamburi. Parevano il passo di una gigantesca creatura che si stava avvicinando.

Quindici file, tra cui quella di Naos, si girarono a destra e altrettante a sinistra con perfetta sincronia, poi compirono sette passi indietro; le mani callose di Naos formicolarono. 

Una ventina di uomini attraversò il passaggio che si era aperto, portando con sé dei cofanetti e sostenendo degli stendardi su cui era stato ricamato un volatile simile a un cigno.

«Salute a sua eccellenza, il comandante Wasat!» ordinarono gli alfieri.

«La fama non si può usurpare!» gridarono gli apprendisti.

Le trombe annunciarono l'arrivo di un uomo dall'armatura bianca, l'elmo tenuto sottobraccio e un pugnale legato alla cintura. Sulle sue spalle ricadeva un mantello di piume argentee sottili come lame. Wasat camminava col capo alzato mentre le reclute si battevano il pugno sul cuore. Superata l'ultima fila, salì su una rampa che condusse lui e i suoi alfieri in cima a un palco in marmo. I soldati ripresero le loro posizioni iniziali, pareva di udire un singolo passo ogni volta che si muovevano.

Quell'uomo aveva il potere di decidere le sorti dei presenti. Aveva la pelle bronzea, la fronte rugosa, la mascella sporgente e la cicatrice che passava sopra all'occhio destro fino ad arrivare alle labbra. Nessuno sapeva come se la fosse procurata e tanto meno perché non l'avesse cancellata con un incantesimo; le voci sostenevano che avesse voluto scolpire, sia sul suo volto che negli occhi degli studenti, il ricordo delle battaglie che aveva combattuto.

Gli occhi infossati di Wasat passarono da una recluta all'altra. «Soldati. In questa solenne notte io chiamo a testimoniare i grandi del passato e il fondatore del mio casato, il leggendario Alioth il Lanciere. Insieme, uniti, recitiamo il Giuramento delle Fiamme!»

Con tono prima lento e solenne, poi sempre più forte, Wasat e i fedeli declamarono:

«Lode alla Dea!
La mia fiamma brillerà radiosa,
la mia luce rischiarerà le fredde e tristi notti,
il mio spirito sarà guida per le nuove generazioni,
lotterò e vivrò con rettitudine,
solo la verità uscirà dalla mia bocca,
il mio pugno colpirà con giustizia e distruggerà i malvagi,
non avrò timore di fronte ai miei nemici,
poiché alla mia Dea affido la mia vita e la mia anima.
A lei giuro eterna e assoluta fedeltà,
a lei e ai comandanti che mi darà.
Ora e per sempre.
Lode alla Dea!»

Terminata la preghiera, Wasat indossò l'elmo, gonfiò il petto e poggiò le mani sui fianchi. «Soldati. Diciannove anni sono passati dal giorno in cui mio fratello maggiore perì eroicamente in battaglia per dare un futuro a tutti voi. Mentre gli ufficiali degli altri casati si camuffavano da soldati per scampare alla collera dei nemici, io e lui guidavamo la carica lungo il fiume Cicatrice Azzurra e lo conquistammo perdendo solo mille uomini!»

Naos applaudì come gli altri, ma fu con immenso sforzo che represse il tremolio al labbro. Nessuno conosceva i nomi e i volti di quei mille uomini che erano stati falciati dalle fiamme degli angeli. Erano solo un numero.

Wasat proseguì il suo discorso. «La sua gloriosa morte mi aprì gli occhi. Non dovevo limitarmi a combattere, ma trasmettere la mia sapienza e il suo ricordo al futuro dell'Impero!»

Il sipario alle sue spalle si aprì e Naos dovette socchiudere gli occhi. Era un mosaico che pareva aver frantumato la luce per assorbirne gli infiniti colori e sfumature. Più brillante della Luna, costruito in spregio ad angeli e streghe.

Naos osservò come le tessere sembravano essersi fuse tra loro, tracciando la figura di un guerriero privo di armatura e dal fisico possente. Tra le mani teneva una lancia con cui trafiggeva un orrido angelo. Se l'esistenza di quegli esseri non fosse stata comprovata, Naos avrebbe pensato che si trattasse di una bizzarra creazione artistica: aveva la testa di un vecchio uomo con una corona di fiamme d'argento sul capo, ma era privo di collo e il suo corpo era quello di un cavallo da cui uscivano ali d'insetto e una lunga coda intrisa di veleno letale.

Wasat si mise una mano sul cuore e, per un istante, il suo sguardo duro si riempì di commozione. «Alioth Algedi, il fratello a cui ho dedicato quest'accademia. Fratello, odi la mia voce e poni lo sguardo verso me e tuo figlio!» proclamò alzando le braccia verso le stelle.

La folla batté le mani. Naos si unì con maggior vigore. Wasat assaporò l'elogio con soddisfazione mentre gli stendardi garrivano ai suoi lati. Alzato un pugno con fierezza, proseguì. «Angeli, demoni e streghe credono di poter dominare Astréa, ma è della Signora, di cui gli uomini sono i vicari. Noi siamo la razza da lei creata. Popoli dei deserti, dei fiumi, delle montagne e delle foreste, uniti sotto al suo vessillo!»

Tra gli applausi generali gli alfieri innalzarono uno stendardo raffigurante un uccello infuocato dalle molte code.

Il duro pugno di Wasat si aprì in una benevola mano. «Noi, e noi soltanto, teniamo le redini. Noi, che siamo dotati dell'arma più potente che esista: la fede nella nostra Signora! Ora è il vostro turno, il vostro momento di onorare la Dea e chi è venuto prima di voi. I soldati sono una cosa sola. Un'armata forte e compatta che neppure il più possente degli angeli è in grado di spezzare!»

Gli applausi divennero così forti da far sembrare che altre mille persone si fossero aggiunte.

Wasat alzò la mano più in alto: Naos si fermò all'istante. Il collare era ancora più stretto e sfregò le mani per allentare la tensione.

«Sarete assegnati a uno specifico rango in base ai vostri meriti» stabilì Wasat.

Gli uomini che avevano portato i piccoli forzieri li aprirono mostrando delle perle del diametro di un pollice.

«In ordine d'importanza: oro, riservata al primo dell'accademia, giallo per gli altri ufficiali, arancione, rosso e amaranto per i sottufficiali. La nostra Signora ha usato il suo immenso potere per plasmare il piritio, il metallo in cui è racchiusa la divina fiamma» le presentò Wasat.

Naos deglutì, gli attenti occhi scuri che si concentravano sui gioielli rossi e arancioni. Dopo dieci anni passati a versare sudore, sangue e lacrime avrebbe ottenuto una posizione rispettabile. Si considerava un buon guerriero e un mago decente, ma era in laboratorio che dava il meglio di sé. Con un po' di fortuna lo avrebbero inviato in qualche distretto, a collaborare per mantenere l'ordine e impedire i soprusi.

Angeli, demoni e streghe erano spaventosi, ma nulla era paragonabile ai soldati privi di controllo. Una massa caotica, selvaggia e affamata, capace di avventarsi sui loro simili per un tozzo di pane o una moneta di rame. Non importava la posizione, avrebbe fatto ciò che era in suo potere per garantire l'ordine.

«Cento amaranto, cinquanta rossi, venti arancioni, dieci gialli e il dorato. Coloro che non saranno nominati serviranno l'esercito come truppe semplici» parlò Wasat. Aperta una pergamena che uno dei sottoposti aveva consegnato, cominciò a leggere. «Settantotto».

Il soldato corrispondente al numero passò tra i suoi compagni, ma dopo l'iniziale rapidità Naos si accorse che aveva iniziato a rallentare. Salito sul palco, eseguì un inchino, ricevette il globo amaranto e ritornò nella sua posizione senza emettere un fiato e col volto irrigidito.

Wasat elencò, uno a uno, i numeri dei membri della classe amaranto. Ogni volta che stava per annunciare il classificato, i giovani trattenevano il fiato.

Vennero poi i globi rossi, seguiti dagli arancioni. «Quattrocentootto».

Era il numero di Naos. Man mano che avanzava avvertì i colori colpirlo con violenza, le gambe dolergli, il cuore battergli più forte. Quel capolavoro artistico era un'ostentazione di potere, una scultura di piritio instabile in cui il fuoco si dimenava come una bestia intrappolata. Al suo cospetto si sentì miserabile e vide il ricevere la gemma come un generoso atto di misericordia. 

Porse la mano tremolante e temette di venir carbonizzato, com'era accaduto all'uomo da cui la sua razza aveva fama di discendere. La sfera, però, era fredda.

Quando dette le spalle al mosaico Naos trattenne un sospiro di sollievo, ma la luce continuava a seguirlo e tracciava la sagoma della sua ombra. Era come se fosse la sua esistenza a impedire che quello splendore illuminasse tutto il mondo.

Nel tornare al suo posto rivolse gli occhi su Ain, un altro apprendista: i muscoli allentarono la tensione.

Ain ricambiò con uno sguardo vispo. Era un ragazzo basso ma ben piazzato. Aveva il volto affilato, leggermente più chiaro del suo, su cui spiccavano un piccolo naso e degli occhi castani dal taglio sottile, incorniciati da folte sopracciglia. I capelli bronzei formavano uno strato sottile come una foglia. Naos non aveva dubbi nel considerarlo il primo dell'accademia, almeno nell'arte del combattimento.

Una a una, le sfere arancioni vennero prese dalle altre reclute. La gola di Naos si strinse e Ain tremò. 

«Seicentosedici».

Un ragazzo minuto, che Ain avrebbe potuto sovrastare, e dalla pelle quasi cadaverica, andò a ricevere la sua ricompensa. Tremava e teneva il capo chino in un goffo tentativo di nascondersi. Per lui Naos provava un misto di commiserazione e disprezzo e non aveva idea di come fosse finito in quel posto. Se non fosse diventato un leccapiedi, sarebbe morto nel giro di pochi anni. 

Wasat attese che gli accademici si quietassero per poter chiamare il successivo; a differenza degli altri, che portavano i capelli rasati, lui sfoggiava una lunga chioma scura, aveva il viso pulito ed era privo di collare. Lo stesso valse per i seguenti, tutti rampolli delle casate minori.

Ain respirava affannosamente. Dietro di lui, un apprendista dondolava la testa con disappunto, mentre un altro reprimeva una risata.

Quando venne presa l'ultima pietra gialla rimase solo la dorata. Il comandante tacque. Inchiodò alcuni giovani soldati con lo sguardo e la tensione dilagò tra mille. «Alioth Dabih».

Una recluta dalla treccia nera, che Naos avrebbe volentieri paragonato alla coda di un asino, raggiunse il palco con passo baldanzoso. Somigliava a Wasat nelle movenze, ma aveva la pelle leggermente più chiara, quasi ambrata. Il mormorio fu più forte del precedente.

Wasat urlò per riportare la quiete: «Silenzio!»

Preso il gioiello, Dabih guardò Ain con un sorriso di scherno.

«I miei complimenti a coloro che hanno ricevuto l'investitura. Ora avete i mezzi per poter servire la Sovrana e far fronte alla minaccia che ne mina l'autorità. Lode alla Dea» proclamò Wasat.

I soldati fecero eco battendosi il pugno sul petto. Solo uno non aveva obbedito.

«Mio signore, il quattrocentosedici non ha eseguito il saluto» fece notare Dabih.

Ain aveva il volto pallido e sudato, i muscoli tesi, lo sguardo rivolto al suolo. Alzata di scatto la testa, si riscosse.

Naos strinse i denti. Ain sarebbe stato probabilmente mandato a combattere. Era abile e ambizioso, ma privo di un'armatura magica sarebbe morto alla prima carica.

Alla mente di Naos si affacciarono i ricordi delle illustrazioni dei tomi: orribili demoni di ghiaccio che divoravano le loro prede, angeli armati di lance con cui impalavano le vittime, mostri simili ad armature infuocate che riducevano in cenere città e villaggi.

L'esitazione di Ain gli costò cara. «Aprire le prime otto linee davanti alla colonna dodici» comandò Wasat con voce calma.

«Aprire le prime otto linee davanti alla colonna dodici» ripeterono gli alfieri.

Incrociate le braccia dietro la schiena, l'ufficiale scese dalla scalinata. I membri della prima fila si voltarono di lato e retrocedettero. Simile a un predatore che camminava nella vegetazione per ghermire la preda, Wasat avanzò nella folla. Si pose davanti ad Ain e lasciò trascorrere alcuni lunghi attimi di silenzio, squadrandolo dall'alto in basso. «Perché non hai eseguito il saluto, soldato semplice?» ringhiò dando enfasi alle due parole finali.

Ain resse lo sguardo, ma soppesò le parole. Sfidarlo poteva essere peggio che affrontare il Serafino in persona. «Signore, chiedo venia per la mia esitazione, ero solo sopraffatto dalla gioia. Non si ripeterà, signore. Lode alla Dea!»

Il comandante lo redarguì. «Lo spero bene. Le reclute che non sono leste a obbedire agli ordini meriterebbero di essere sbattute in cella a mangiare i sorci e a bere il loro piscio, ma per questa volta sarò generoso». Alzò la voce. «Stasera e domani salterete tutti il pasto!» Le reclute gli aprirono la strada per poi costruire una vera e propria muraglia umana tra lui e Ain. «Domani marceremo verso la capitale. Rompete le righe. Lode alla Dea». Così dicendo si diresse verso il tempio assieme alla sua cerchia.

I militari abbandonarono le posizioni per riunirsi in gruppi. C'era chi si scambiava entusiastiche pacche sulle spalle, chi guardava trionfante la gemma, chi esibiva una smorfia di disappunto, ma tutti lanciarono delle occhiate furenti ad Ain. Le razioni di cibo erano già misere e stomachevoli.

Naos gli andò incontro e gli mise una mano sulla spalla. Quando l'amico si voltò, non seppe trovare le parole. «Mi dispiace». Non seppe dire di meglio.

Ain si passò una mano sui cortissimi capelli, strappandosene qualcuno. «È ridicolo, noi siamo soldati, come possiamo combattere senza le armi?»

«Calmati. Certe volte bisogna chinare la testa per non farsela tagliare» lo rimproverò Naos.

«Non mi calmo, invece! Sapevo che i gradi alti li avrebbero avuti i nobili, ma Sadr...»

«Sadr non ha umiliato Dabih». Anni di accademia vanificati a causa di un solo errore che credeva di aver scontato. Quando aveva accidentalmente sconfitto Dabih le ore di sonno erano state ridotte per tre mesi. Wasat non lo aveva fatto uccidere, ma la notte stessa altri cinque apprendisti gli avevano infilato la testa in una latrina. Gesto che era passato inosservato, così come tutte le zuffe successive.

Sconfitto, Ain deviò la conversazione. «Comunque sei stato bravo, tu hai trionfato, fiamma arancione».

Naos strinse la sua pietra. Avrebbe preferito qualcosa di più, ma la sua situazione era migliore di quella di Ain. «Tu sei molto più forte di me, avresti meritato il rango più alto» rispose conciliante.

Ain sorrise, nervoso. «Poco importa. Dimostrerò il mio valore. Quel bastardo incontrerà la morte già alla prima battaglia».

«Credi davvero che il comandante permetterà al suo pupillo di morire così? Non sottovalutarlo ancora».

L'amico sputò per terra. «Grazie per avermelo ricordato».

Naos scrollò le spalle. «Ci saresti arrivato da solo». Gli dette un colpetto sulla spalla. «Ti va una scazzottata?»

«Il pugno lo darei a Wasat» bisbigliò Ain allentandosi il collare. «Hai visto gli altri? Erano tutti infuriati».

Naos ricordò i mormorii che si erano sollevati quando Sadr e Dabih erano saliti sul palco. La fedeltà dei soldati vacillava, ma Wasat era riuscito, con una mossa, a punire gli altri apprendisti e a far ricadere la colpa su Ain. «Certo che erano infuriati, ma con te». Raccolse un pugno di terra dal suolo. «La sai coltivare? No. E allora, a meno che tu non voglia darti al brigantaggio, vedi di calmarti. Altrimenti affronterai arche e cannoni a mani nude».

Se avesse anche solo valutato un'idea del genere, Naos sarebbe stato il primo a fermarlo.

Ain si sfregò il capo e ingobbì la schiena. «Mi farebbero a pezzi. Però... è davvero notevole che tu abbia ricevuto l'armatura arancione».

«Io ho sempre obbedito» ribatté l'amico.

Ain sospirò. «Già. Tu non hai mai fatto nessun errore, a differenza mia. Adesso... lasciami solo».

Naos strinse le labbra e assentì. «Quando saremo alla capitale metterò una buona parola per te. Ricordati però che non puoi rimanere qui tutta la notte. Ci aspetta un lungo viaggio e devi essere in forze».

Nonostante l'evidente frustrazione, Ain eseguì il saluto e venne ricambiato. Senza Naos, la sua unica compagnia fu un freddo vento.

                                                                                ***

Dabih, dopo essere entrato nel tempio, si era inginocchiato di fronte alla statua del suo antenato: Alioth il Lanciere, la leggenda che lo eclissava.

Alto e fiero, il guerriero marmoreo impugnava un grande scudo e una lunga lancia. L'elmo era stato abbellito con un pennacchio che ricordava una cresta infuocata. La lorica dorata era stata lavorata per aderire al suo addome muscoloso e una gonna di placche metalliche gli proteggeva la vita. Sopra al suo scudo, elegante e con le ali aperte, stava la Lumerpa.

Dabih lo odiava perché era tutto ciò che avrebbe voluto essere, ma che non sarebbe mai stato.

Congiunse le mani e represse il desiderio mentre due sacerdotesse danzavano attorno a lui. Wasat le aveva invitate segretamente per quell'occasione. Le aveva appellate "eccellenze", a indicare un rango superiore al suo. Il profumo, i movimenti aggraziati, le corone di fiori che coprivano le fronti e le vesti color delle nevi davano loro un'aria quasi divina.

Entrambe gli unsero il capo con dell'olio d'ambrosia. Era dolce come il miele.

«Io, Dabih erede di Alioth, giuro solennemente di proteggere la Dea, l'Impero e il mio casato. A loro appartiene la mia vita» recitò.

Wasat passò vicino a lui e adagiò delle fasce e un piccolo sacchetto in cui era conservato quanto restava della prima rasatura di Dabih.

Quando lo zio indietreggiò per fargli spazio, il nipote si avvicinò stringendo una fiaccola tra le mani. Era come se nel suo corpo stesse scorrendo del ghiaccio. Aprì la bocca e sussurrò: «Io cancello il mio passato per costruire il futuro». La vampa avviluppò l'offerta.

Le due sacerdotesse si portarono ai lati e gettarono delle polveri. Il fuoco s'ingigantì e sembrò ruggire mentre dal fumo s'innalzava la sagoma del grande eroe.

Dabih si ripeté che quello fosse solo un rituale alchemico. Nessuna divinità si era manifestata, perché se fosse veramente accaduto lo avrebbe ucciso.

«L'infante è morto, l'adulto è nato» proclamarono le sacerdotesse con sincronia.

Dabih ingoiò la saliva mentre osservava la scultura del grande guerriero. Gli sembrò che i fumi le stessero influendo il dono della vita. Pregò al solo scopo di concludere in fretta quella tortura.

Wasat gli si avvicinò con in mano un gonnellino e una maglia dalle maniche lunghe, entrambi in seta fatata. Morbidi e delicati, ma in grado di resistere alla furia degli elementi. Fu poi il turno di due bracciali in cuoio e della gemma dorata che aveva appena ricevuto. Dabih l'alzò e la strinse. La sfera produsse il rumore di un vetro che s'infrangeva ed esplose in un turbine di fiamme. Dabih non provò alcun dolore: quel fuoco non scaldava e non bruciava. Le vampe rivestirono le membra come una seconda pelle, smisero di agitarsi e si fecero sempre più compatte. Divennero il piritio.

La sua corazza era identica a quella di Alioth, ma sapeva di essere diverso. Una gallina coperta d'oro non diventava una Lumerpa.

«La fama non si può usurpare!» gridò Dabih.

«La fama non si può usurpare!» ripeterono Wasat, le sacerdotesse e altri ufficiali che avevano assistito in solenne silenzio.

Era finita. Dabih ne approfittò per uscire il più in fretta possibile e riempirsi i polmoni d'aria fresca. Appoggiatosi a una delle colonne che sostenevano il capitello, tossì e ansimò.

Wasat lo raggiunse. «Mi auguro che tu sia pronto, nipote».

Dabih lanciò un'occhiata all'interno del tempio. Il fumo si era diradato, ma la statua era ancora lì. «Sono benedetto, ora?»

«Solo finché hai la corazza, e non potrai usarla».

Dabih fece una smorfia. Si mise una mano sul cuore e il metallo s'incendiò prima di riversarsi in un unico punto. Così come il piritio era diventato armatura, tornò a essere una gemma.

Provocare Ain sarebbe stato facile, ma sconfiggerlo era ben diverso. «Non sarebbe stato più semplice ordinargli di perdere e simulare uno scontro?»

«Non stiamo testando la sua devozione, ma le tue capacità!» Wasat sorrise, ma i muscoli erano tesi. «Questo scontro non è tra te e lui, ma tra nobiltà e plebe. Lui è l'avversario che anni di accademia hanno costruito, il campione ribelle che esiste solo per gloriare l'eroe».

Il moto di gioia che svanì com'era arrivato. Sapeva di essere ordinario. «E se dovessi fallire?» Aveva sempre pensato che lo zio lo avesse cresciuto nella speranza di forgiare un grande guerriero, qualcuno che potesse aiutarlo a vendicare l'amato fratello. Aveva creduto che fosse la sua missione, almeno fino all'umiliazione che gli aveva aperto gli occhi.

Per sopperire alle proprie mancanze si era impegnato maggiormente. Un mese dopo la sconfitta era uscito di nascosto per esercitarsi nell'esecuzione di qualche incantesimo. Le sentinelle lo avevano scorto, e, sotto la supervisione di Wasat, aveva tentato per ore. Lo stesso era accaduto la notte successiva.

C'erano maghi che sapevano scagliare un sortilegio solo figurandoselo nella mente. Dabih aveva imparato a memoria complesse formule magiche, eppure non aveva mai appreso la magia del fuoco. Negli anni aveva dovuto accettarlo: non era questione d'impegno, ma mancanza di talento.

Non dovevano farlo sapere agli apprendisti: la perseveranza poteva riscuotere ammirazione se si raggiungevano risultati, altrimenti era un altro motivo di vergogna.

«Se avessi contemplato il fallimento ti avrei sacrificato sull'altare» lo scosse Wasat. «Tu non sei rispettato da nessuno e chi non viene rispettato perde tutto ciò che ha. Vuoi essere la vergogna di tuo padre, che è morto sconfiggendo una dominazione? Vuoi rendere vano il sacrificio di tua madre, che ti ha infuso la sua scintilla vitale nel darti alla luce?»

Dabih sussultò e scoccò un'occhiata fugace al mosaico. «No!» gridò.

Non aveva mai potuto conoscere sua madre. Era stato suo zio a tenerlo in braccio e ad avvolgerlo con le fasce durante il Rito della Nascita. Le stesse fasce che avevano immolato sull'altare.

Wasat intuì i suoi pensieri. «Quel giorno ho giurato di proteggerti, ma ora sei un uomo e devi prenderti le tue responsabilità». La voce si fece più gentile. «Rendimi orgoglioso, nipote mio!»

Dabih, commosso da quei discorsi, si poggiò il pugno sul petto. «La fama non si può usurpare!»

Con ostentata sicurezza scese dalla rampa e s'incamminò verso il dormitorio dei popolani. Non si sarebbe fatto portare via gloria, ricchezze e potere dal figlio di un contadinotto. Lo avrebbe ridotto all'impotenza.

Guardò i bracciali: sembravano insignificanti, ma contenevano la chiave della sua vittoria. Nessuno si sarebbe accorto di nulla.

Dabih avvertì una nuova forza dentro di sé e guardò il cielo. Le stelle parevano delle gemme incastonate nella volta. Di certo i suoi genitori erano lassù. Alzato il pugno verso l'alto, declamò: «Lode alla Dea!»

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