Duello d'onore

Ain si era diretto verso il percorso d'addestramento che tante volte aveva superato. Osservò i muri da scalare, il terreno fangoso in cui aveva strisciato, le falci che aveva evitato.

Mosse dal vento, le lame in piritio dondolarono. Quel metallo non si macchiava, smussava o piegava. Avrebbe potuto trucidare mille vite e sarebbe stato ancora immacolato.

Vicino al percorso il suolo aveva spalancato le fauci per inghiottire le sue prede. Ain, in piedi di fronte a quell'abisso nero, annusò l'aria: era ancora impregnata del tanfo della carne marcia di chi aveva fallito. Vite stroncate e dimenticate, corpi di ragazzi ambiziosi ridotti a cibo per vermi.

I più sfortunati erano quelli che non morivano in fretta: a volte Wasat lasciava che crepassero lentamente, per far comprendere appieno ai soldati i tempi di morte, altri erano salvabili e venivano condotti nelle varie carceri dei regni, divenendo assistenti o, più probabilmente, cavie.

Ain aveva sempre fatto dell'agilità il suo punto di forza: voleva sentire l'aria sul viso, fuggire dai suoi problemi e sfogare l'ira repressa. Andò oltre il percorso di morte e attraversò i primi tre campi, trovandoli vuoti, ma nel quarto c'erano vari apprendisti intenti a lavorare il terreno sotto gli insulti di un ufficiale.

I maghi di terra procedevano lentamente con le mani puntate verso il suolo, che si apriva al loro passaggio; Ain sorrise ironico quando si rese conto che dovevano ancora recitare le formule. Poco oltre, un giovane comandava le acque per abbeverare le piante, stando attento a non sprecare neanche una goccia. "Un buon soldato deve essere anche un buon agricoltore", diceva Wasat, ma quegli insegnamenti erano per i nobili minori o per i protetti. L'economia stessa dell'Impero si reggeva sulla magia, perché un solo mago poteva e doveva essere in grado di fare il lavoro di mille contadini.

Nel campo dopo il suolo era stato trafitto da un massiccio palo di metallo: simili ai frutti di un albero malefico, pendevano sei gabbie in cui giacevano gli scheletri dei condannati a morte. Ain sentì le loro orbite vuote che lo fissavano. "Potevo essere io", pensò. Era stato lì che aveva sconfitto Dabih e che la sua vita sarebbe potuta finire, ma, quando Wasat aveva ordinato di ucciderlo, Dabih stesso li aveva fermati con un urlo.

Sul momento aveva creduto che fosse un atto di rispetto, poi aveva capito che era servito solo a illuderlo. Dabih non lo aveva ucciso subito perché voleva romperlo un pezzo alla volta e farlo crollare per la disperazione. 

Un ululato di sconfitta perforò la notte: doveva essersi conclusa la prova di un apprendista del sesto anno. Lupi, foglionchi, crocotte e bestie del genere erano gli avversari più comuni, ma gli "incidenti" capitavano spesso e qualche volta un apprendista veniva ritrovato morto in circostanze misteriose. Non c'erano ordine e disciplina, solo degli schiavi che lottavano tra loro. Ain si era immaginato, qualche volta, come avrebbe potuto essere una rivolta, ma aveva capito in fretta che non sarebbe stata possibile: piuttosto che sfidare i piani alti, i futuri soldati avrebbero rivelato tutto per poter fare bella figura. Erano cani, non esseri umani.

Il vento mutò direzione e portò il miasma della palude che circondava il campo. Ain ricordava bene la prima volta che lo aveva sentito.

I pochi frammenti del suo passato si ricostruirono nella sua mente. Suo padre e sua madre si erano sposati da giovani, ma non era stato un matrimonio sereno. Quella vita aveva rapidamente annoiato suo padre, che aveva dilapidato i soldi della famiglia per comprarsi delle armi e andare in cerca di avventure. Quel povero idiota era morto alla prima missione. Ain ricordava come sua madre si fosse chiusa a chiave in una stanza e avesse pianto per giorni, prima di uscire e sfogare la propria frustrazione sul figlio che le aveva rovinato la vita. Non ci aveva pensato due volte prima di venderlo all'accademia per una manciata di monete.

Prima Ain aveva sofferto e pianto. Poi l'aveva odiata come non aveva mai odiato nessuno. Si era anche chiesto se quelli fossero stati davvero i suoi genitori. Come molti, aveva coltivato la speranza che un giorno potesse presentarsi alle porte dell'accademia un padre segreto di ricche origini. In un paio di occasioni era capitato, anche se non invidiava quei ragazzetti che erano stati portati via da un vecchio decrepito dall'aria lasciva.

Continuò la sua marcia, superando un gruppo di apprendisti che doveva essere di un paio d'anni dietro di lui. Procedevano come un blocco unico, mantenendo sempre la stessa distanza gli uni dagli altri e poggiando i piedi nello stesso istante.

Ain era sempre riuscito a eccellere nella lotta, però odiava quel muoversi in sincronia, era come perdere la propria identità per trasformarsi in automi. Quando si doveva correre, lui era sempre davanti a tutti, come un'intrepida avanguardia. Aveva cercato di apparire grande e di farsi notare, tutto ciò che voleva era qualche gesto di apprezzamento, qualcosa che colmasse il vuoto che i suoi genitori gli avevano lasciato.

L'aria gli mancò d'improvviso e il suo corpo fu scosso da un violento spasmo. Ansimò e si massaggiò il petto mentre stringeva i denti per reprimere un urlo carico di frustrazione. Nel tentativo di distrarsi alzò lo sguardo verso le stelle scintillanti. Erano come un esercito di guerrieri della volta: splendenti generali conosciuti da tutti e fiochi soldati ricordati da nessuno.

Da bambino aveva sognato d'indossare una potente armatura, perfino di diventare pari a lord Zadok, l'unico popolano ad aver fondato un casato maggiore, seppur attraverso corruzioni e intrighi. Ain si portò la mano al braccio sinistro e tastò la fascia, simbolo della Dea immortale. Secondo quanto aveva insegnato Wasat lei non aveva favoriti, voleva il bene di tutti e si prodigava per aiutarli. Solo per merito suo i cociti, campioni delle forze nemiche, non avevano raso al suolo l'Impero.

Era tutto falso. Se lei fosse stata benevola, non avrebbe permesso quel sopruso. 

Che si tenessero pure quelle fottute armature, le avrebbe compensate con la dura pelle o qualche incantesimo. Forse, un giorno, sarebbe perfino riuscito a comprendere come solidificare il fuoco. Ci aveva provato decine di volte, ma era riuscito solo a rilasciare una vampa più calda. "Il piritio è fatto con fuoco speciale", ma che voleva dire? Un diverso combustibile? Un comburente particolare? Ne aveva parlato con Naos, ma neanche la passione per l'alchimia aveva dato risposte.

Ain riprese a correre, il cupo pensiero che si faceva largo nella sua mente: senza un'armatura decente gli angeli lo avrebbero ucciso alla prima carica e sarebbe morto. La possibile esistenza della Dea rendeva la morte ancora più spaventosa. Con tutti i pensieri negativi che aveva fatto, probabilmente gli sarebbe stata preclusa la possibilità di ascendere alle stelle. Il suo spirito avrebbe vagato come un'ombra, schiavo di una fame e di una sete che mai avrebbe potuto saziare.

Passò in rassegna le alternative, senza trovare soluzioni. Pensò perfino di varcare la cinta muraria che sigillava il campo, ma oltre c'era la palude in cui venivano allevate creature mortali. Avrebbe dovuto tentare la fuga nelle occasionali uscite in cui gli apprendisti avevano potuto confrontarsi con membri di altre accademie oppure osservare le difese delle grandi città. 

La sua lunga marcia ebbe fine: aveva fatto il giro del campo muovendosi con la rapidità di un cavallo da corsa.

Poco vicino al percorso di morte vide due figure: riconobbe in fretta Sadr per via della bassa statura, e presto capì che l'altra era Dabih. Ain avrebbe voluto caricarli ciecamente, abbattere il nobile e fomentare una rivolta. Si sarebbe tolto una piccola soddisfazione, prima di crepare. 

Quando si rese conto che non ne valeva la pena, scelse di rallentare. Arrivò dai superiori correndo con un ritmo moderato, onde non sollevare zolle di terra. Serrata la mascella e stretti i pugni, salutò: «Signore!»

L'aristocratico incrociò le braccia e snudò i denti bianchi. «Lord Dabih» lo corresse.

Ain fremette e notò che dalle sue spalle proveniva un gran trambusto. Il resto dell'accademia stava venendo ad assistere. «Lord Dabih. A c-cosa devo la vostra visita?» Aveva sempre trovato teatrale l'atteggiamento di Dabih, gli ricordava un animale che, incapace di mordere, ruggiva per spaventare chi lo circondava.

Dabih schioccò le dita. «Voglio che tu m'intrattenga».

Sadr si avvicinò coi pugni alzati: il corpo gracile avvolto dalla difesa gialla, gli occhi celesti fissi davanti a sé, le labbra tremolanti. Ain lo apostrofava come "Pallido Codardo" e lo considerava il degno erede dell'uomo che non aveva osato avvicinarsi alla Fiamma della Dea.

Emesso un grido che ad Ain sembrò il vagito di un neonato, Sadr corse in avanti, balzò e alzò il pugno destro. Ain levò una gamba e gli assestò un calcio al torace. Sadr ruzzolò al suolo e si tenne una mano premuta sul petto. Ansimò e guardò Dabih, dal quale ricevette uno sguardo altezzoso. Rialzatosi, Sadr tentò un diretto al viso, ma Ain schivò, gli bloccò il polso e assestò una gomitata in faccia che lo fece cadere. «Resta a terra, undicesimo dell'accademia».

«Che cos'è questo fracasso?» tuonò la voce di Wasat. Era in armatura e scortato da numerosi guerrieri. «Vi date alle risse come i peggiori villani? Esigo una spiegazione. Subito!»

Dabih si fece avanti. «Signore. Ero andato a fare le condoglianze alla recluta quattrocentosedici per i suoi scarsi risultati». Non celò un ghigno. «Lui mi ha insultato e ha aggredito il mio subordinato. Non posso permettere una simile ingiustizia». Puntò il dito accusatore. «Numero quattrocentosedici, io ti sfido a duello!»

Altri gruppi di apprendisti si erano radunati. Dabih doveva averli chiamati per farli assistere al suo trionfo. Tra loro c'era Naos, già vestito della corazza, simile a quella di Wasat ma arancione, che si faceva largo. Chinatosi verso Sadr, lo guardò con un misto di pietà e disprezzo, poi gli poggiò le mani sul volto e recitò un incantesimo silenzioso. Sadr gemette sempre più piano finché il suo respiro non tornò regolare. Quando Naos tolse le mani le ferite erano scomparse, ma il sangue era rimasto. Aiutato lo sconfitto ad alzarsi, lo spinse tra la folla.

Andò verso Dabih a testa alta, la sua figura che sovrastava quella del superiore. Inginocchiatosi, si batté il pugno sul cuore. «Eccellenza, lode alla Dea, eccellenza».

Dabih lo guardò dall'alto al basso. «Ti concedo di parlare, numero quattrocentootto».

«Vi prego di avere pietà di questo soldato semplice, eccellenza. Porgerà le sue pubbliche scuse».

Ain aggrottò la fronte. 

«Oh, saprò perdonare questo soldato semplice, a patto che capisca qual è il suo posto». Dabih indicò il suolo. «Inginocchiati».

Naos girò la testa verso l'amico e annuì.

Nella folla c'erano volti spaventati e incerti, mani che si muovevano lentamente nel tentativo di farlo desistere dai propositi di vendetta, braccia che s'incrociavano con indifferenza. Quest'ultimo segno gli fece ribollire il sangue. Voleva con tutto sé stesso far sparire quel sorriso arrogante dal volto di Dabih, ma l'istinto di sopravvivenza era più forte.

Inginocchiatosi e rivolti gli occhi al suolo, disse: «Eccellenza, sono mortificato, eccellenza».

Dabih rise. «Il fatto che ti abbia perdonato non implica che non ti punirò. Sono tutti bravi a implorare perdono, quando sono in svantaggio. Sei solo un sovversivo che si crede migliore dei propri superiori. Ciò è intollerabile! Nelle mie vene scorre il sangue di Alioth, l'eroe delle leggende. La Lumerpa, simbolo della gloria che non si può usurpare, è il mio stemma. Il nostro scontro è inevitabile, discendente di nessuno».

«Che il duello d'onore abbia inizio» decretò Wasat.

Tre fiamme dorate suonarono le rispettive campane per chiamare gli apprendisti.

«Soldati. Indossate le armature di piritio. In formazione» comandò l'uomo in bianco.

Ain capì perché Wasat lo aveva risparmiato fino a quel giorno. L'offesa era stata arrecata al nipote, non a lui. Anche se Dabih era un giovane lord, era pur sempre un membro dell'accademia, privo di vero potere decisionale. Facendo uccidere subito Ain, Dabih sarebbe parso come un debole che aveva sempre bisogno dello zio per risolvere i problemi. Uno scontro col primo dell'accademia era quello che gli serviva per affermare la sua superiorità. Ma la loro differenza era abissale, come contava di batterlo senza far sembrare tutto una messinscena?

Prima di separarsi dall'amico, Naos gli disse: «Perdi e non commettere l'errore dell'altra volta!»

«Tanto vale che mi getti nella fossa da solo!» rispose Ain.

Naos gli ripeté l'ordine e si mischiò tra la folla. Davanti a tutti stava Wasat, seguito da Dabih e dai collaboratori; appena dietro venivano le fiamme gialle, e, in formazioni quadrate o rettangolari, tutti gli altri. Ain camminò a lato della grande massa, il passo non sincronizzato. Sembrava un piccolo animale vicino a una grande bestia.

Lo stomaco gli gorgogliava per la tensione. In altri momenti avrebbe perso volentieri, ma non sapeva fin dove Dabih volesse spingersi.

Giunti in un'area pianeggiante abbastanza grande da poter ospitare una cinquantina di duellanti, Wasat ordinò di fermarsi. La formazione si arrestò. «Disposizione a rettangolo».

«Disposizione a rettangolo» fecero eco gli ufficiali.

Le fiamme d'oro rimasero dietro a quella bianca mentre gli altri prendevano posto, disegnando il perimetro di un rettangolo attorno all'area. Più alto era il rango, più vicini erano al comandante.

I due avversari si fermarono a una decina di metri, i muscoli tesi, gli occhi fissi l'uno sull'altro. Assunsero la posizione di guardia: il piede sinistro era puntato in avanti, l'altro arretrato e leggermente rivolto a destra; le spalle erano speculari.

Come volevano le regole, Dabih recitò il motto del suo casato. «La fama non si può usurpare».

Ain non aveva casati o stemmi.

Un militare generò una sfera di luce, che, levitata a una ventina di metri da terra, illuminò il campo. Il rintocco di una campana sancì l'inizio dello scontro. «Duello d'onore. Alioth Dabih contro numero quattrocentosedici: cominciate!»

                                                                                ***

Naos strinse i pugni. Se Ain avesse vinto, sarebbe stato giustiziato per aver umiliato un superiore. Se avesse perso, Dabih avrebbe potuto ucciderlo. 

Lo scontro ebbe inizio: anziché attaccare, Dabih incrociò le braccia e un alone di luce lattiginosa lo circondò per qualche istante. Una volta dispersa, a Naos sembrò che il volto di Dabih fosse sfocato, come se si fosse frapposto uno specchio opaco.

Intuì che avesse usato una magia di protezione di medio livello. Il mormorio tra i soldati e lo stupore di Ain confermarono la sua ipotesi. Non sapeva che potesse farlo.

Dabih caricò frontalmente con un pugno, ma Ain roteò e la spalla, ben più dura della pietra, incassò.

Dabih retrocedette e Ain gli saltellò attorno mentre lo colpiva con deboli pugni basati sull'allungo del braccio, ma questi venivano fermati dalla magia difensiva. Benché fosse agile, Naos notò che i suoi movimenti erano più rigidi del solito.

Il rampollo degli Alioth puntò una mano e liberò un'onda d'urto: Ain non fece in tempo a spostarsi, venne sollevato di peso e decine di tagli si aprirono sui suoi vestiti. Roteato a mezz'aria, atterrò, piantò le dita nel suolo e scavò un lungo solco prima di fermarsi.

Naos era allibito dai progressi di Dabih. Secondo i libri, non erano mai stato riportato che un mago della mnemonica acqua potesse imparare a usare l'intrepido fuoco.

Preso dall'euforia, Dabih attaccò ancora. Per alcuni minuti Ain, stupito quanto e più degli altri, non fece altro che schivare, lasciando che l'avversario e lo scudo sprecassero le loro energie.

«Smettila di fuggire, codardo!» lo insultò Dabih.

Ain capì di doversi fermare. Alzò le braccia e parò la raffica di pugni. Era come quella volta che aveva segnato per sempre la sua vita. Lui a terra, Dabih che lo colpiva, spunti e insulti che volavano. Aveva perso il controllo e un calcio era bastato.

Dabih non si fermò. «Che delusione, speravo in un avversario degno, mi ritrovo uno spalamerda!»

Naos notò una sfumatura di tensione nella voce. Benché dominasse, Dabih stava cercando di sfogarsi riempendo il silenzio con le provocazioni. 

«Sei il degno figlio di tuo padre, non mi stupisce che i tuoi genitori ti abbiano abbandonato!»

Ain incassò e indietreggiò. Naos notò un lampo di collera. Ain alzò le braccia mentre blocchi di pietra si sollevavano da terra e le rivestivano come una rozza armatura. Altri frammenti, questa volta affilati, si disposero alle sue spalle.

Naos trasalì: lo sguardo di Ain si era indurito. Le labbra di Dabih si deformarono in una smorfia di puro terrore.

Con uno scatto fulmineo Ain raggiunse l'avversario e lo tempestò di pugni. La magia di protezione sgretolò la pietra, ma l'Alioth rimase senza difese. Un secondo dopo le lame, più veloci di un dardo di balestra, si piantarono nelle sue carni.

Ain continuò ad attaccare, costringendo Dabih ad arretrare: la pietra sbriciolata dalla barriera veniva subito rimpiazzata, altri frammenti, sia contundenti che taglienti, si sollevavano per volargli contro.

Dabih si guardò le ferite, terrorizzato, Wasat aggrottò la fronte e tese una mano, ma non fece in tempo a reagire. Ain s'inginocchiò, poggiò una mano e il suolo divenne scarlatto. Degli spuntoni di roccia avevano appena trafitto i piedi di Dabih, che urlò di dolore mentre si metteva le mani nei capelli e il suo volto si deformava.

La voce di Ain ululò: «Tu non sei niente!» Un violento calcio colpì Dabih, lo sollevò da terra e lo fece rovinare al suolo.

Ain ansimò: il volto era paonazzo, il respiro affannoso. La sua collera si trasformò lentamente in sgomento, poi vergogna, infine paura. 

"Merda" pensò Naos. Qualche apprendista gonfiò il petto con orgoglio. Altri si scambiarono occhiate d'intesa. Erano stanchi di rischiare la vita per la gloria degli Alioth, molti di loro avrebbero voluto spogliare Wasat e gli altri del piritio e bruciare l'accademia. Si sarebbero poi sparpagliati per le campagne, saccheggiando e depredando. Perfino Sadr stava sfoggiando un sorriso di malcelata gioia. Dabih, capace solo di emettere rantoli confusi, aveva dimostrato di essere un drago di legno, facile da bruciare.

"No, no, no!" pensò Naos. Fattosi largo, alzò le braccia per farsi vedere da tutti. «Restate nei ranghi, la lotta non è ancora conclusa!» Gli apprendisti cominciarono a rumoreggiare. Guardò Ain con rammarico e pregò la Dea affinché Dabih sfoderasse un altro inaspettato potere. «Che volete fare, una rivolta armata? Volete prendere le armi e opporvi? Va bene, come volete! Farete la fine di Regulus!»

Bastò rievocare l'evento per far ammutolire i soldati. Chi aveva stretto i pugni con ardore tremava come un bambino spaventato.

Una risata li fece sobbalzare. Dabih si stava rimettendo in piedi: le ferite erano scomparse, le gambe lo sostenevano. «Gran bel discorso, quattrocentootto». Sferrò qualche pugno e calcio all'aria, a dimostrare di aver recuperato le forze con una magia di guarigione.

Naos fece per incitare alla conclusione dello scontro. Sadr, però, abbandonò i ranghi e lo strattonò. «Dabih, Dabih!» incitò il gracile soldato. La sua voce innescò un incendio.

Wasat alzò il pugno destro verso l'alto. «Dabih, Dabih!» Gli ufficiali che lo circondavano ripeterono il gesto, e con loro gran parte dei soldati. Naos percepì l'ammirazione in molte voci. Il rampollo degli Alioth aveva mostrato capacità degne di una fiamma dorata. Naos non seppe come sentirsi. Se era così potente, allora avevano sempre sbagliato a giudicarlo, ma forte non significava magnanimo.

Dabih puntò un dito da cui scaturì una folgore. Ain, colto di sorpresa, gridò di dolore e crollò in ginocchio. I suoi abiti si erano strappati e il suo corpo era scosso dagli spasmi. In quelle condizioni non era più in grado di fare appello alla magia e faceva fatica a respirare.

Dabih lo caricò, lo atterrò, gli aprì le gambe e gli dette un pugno all'inguine. «Chi è che non è niente, ora?» Ain emise un gemito, contrasse il volto per il dolore e si girò di lato. Rigurgitò saliva e succhi gastrici.

«Ain, arrenditi!» gridò Naos, ma la sua voce venne inghiottita dalle urla.

Dabih aprì le braccia per portare il silenzio, poi si rivolse ad Ain. «Hai visto com'è finita, pezzente? Non importa quanto tu sia bravo, non importa quanto t'ingegni o che limiti superi, io sarò sempre più in alto di te. È il volere della Dea. Devi inginocchiarti».

Il soldato semplice fu scosso da un altro spasmo. «P-perché non m-mi uccidi e basta?»

«Ci sono cose peggiori della morte».

Ain era sconfitto. Se fosse morto le altre reclute non si sarebbero sollevate in massa per vendicarlo. Il respiro divenne più rapido e intenso, gambe e mani tremavano.

Con evidente sforzo s'issò in piedi; tentò di fermare la mano destra, ma questa si apriva e chiudeva continuamente. «S-signore, lode alla Dea, signore. Mi arrendo e chiedo umilmente perdono per il mio deplorevole atto d'insubordinazione. Non si ripeterà, signore!» Un altro spasmo e le sue gambe non riuscirono più a reggerlo.

La fiamma d'oro che aveva dato l'inizio allo scontro ne decretò la fine. «Il numero quattrocentosedici è sconfitto, il vincitore è Alioth Dabih». Dalla folla si levò un festante applauso.

Dabih lo gustò, poi fece cenno di tacere. Schioccò le dita e un ufficiale si avvicinò. «Sono sempre stato un fervente sostenitore del libero arbitrio. Le nostre azioni hanno sempre delle conseguenze. Cos'hai detto, sul non essere niente?»

Ain sbiancò per il terrore: quell'uomo portava il bastone che veniva usato per le marchiature. Il marchio, ricalcante la testa di un cane dalle orecchie abbassate, mandava bagliori rossastri.

Non era uno strumento comune: era fatto in un metallo contro cui nessuna magia di guarigione poteva nulla. Divorava la carne e beveva il sangue. Se il piritio racchiudeva in sé la vita, quello era la morte.

Naos aveva assistito alla "Marchiatura dell'Infamia" solo due volte. In entrambi i casi la vittima era morta. «M-miei signori, ha imparato!»

Due fiamme gialle si avventarono su Ain e gli strapparono la veste. Il suo corpo era segnato da numerose cicatrici, ma la prossima ferita non si sarebbe mai rimarginata. «N-no, vi prego!» implorò.

«Ogni scelta ha le sue conseguenze» sibilò Dabih mentre, agitando il ferro rovente, tracciava delle scie scarlatte simili a nastri. «Questo è il marchio dell'infamia: soldato semplice sei e tale rimarrai fino al giorno in cui ti manderemo a morire!»

Ain, in ginocchio e immobilizzato, urlò: «Naos, a-aiutami, ti prego, aiutami!» 

Alzato il bastone ardente, simbolo del suo potere, Dabih proclamò: «Soldato semplice Ain! Per l'autorità conferitami dal mio grado ti dichiaro colpevole di insubordinazione verso i superiori. L'Impero è basato su legalità, ordine e gerarchia. Andare contro a quanto stabilito equivale ad andare contro alla parola della Dea. La ribellione e l'insubordinazione non portano a niente. Quindi mi auguro che, nella vita che ti resta, ricordi qual è il tuo posto!»

Naos sapeva che, se fosse intervenuto, avrebbe solo scatenato la collera dei superiori. Volle chiudere gli occhi, ma si forzò a guardare.

Quando il metallo si avvicinò, Ain invocò pietà. Dabih fu sordo alla sua supplica.

Il grido di dolore si sparse per tutto il campo, Ain si dimenava con tanto impeto che dovettero intervenire altri due soldati per trattenerlo. La carne bruciò. "Mi dispiace, mi dispiace!" pensò.

Sulla guancia destra di Ain c'era una crosta nera, circondata da carni rosse e coperte di vescicole. Lasciato andare, emise dei confusi lamenti.

Naos si precipitò a soccorrerlo, ma Dabih gli puntò contro il bastone. «Lascialo lì. Il freddo della notte gli rinfrescherà le idee».

Naos spalancò gli occhi e inchiodò di fronte a quell'arma. «E-eccellenza, domani dovrà essere in forze, per sottoporsi alla marcia!»

«Non è abbastanza debole da morire per questo. Torna al dormitorio!»

Naos indietreggiò. Le truppe si stavano ritirando, ma i movimenti erano più goffi e qualche soldato sbatté contro i compagni o inciampò. Non avrebbero mai dimenticato quella lezione.

Sadr, separatosi dalla folla, seguì Dabih e il resto dei nobili.

"Solo un altro giorno" si disse Naos. Ancora una volta era dovuto restare a guardare davanti a un'ingiustizia. "Solo un altro giorno e quest'incubo finirà".

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