Battaglia

Zadok, a cavallo di una viverna, osservò le difese che aveva organizzato attorno alla statua della Dea. I cannoni a lunga gittata erano riusciti a bucare le ali del cocito e dodici soldati di alto livello erano stati inviati a rallentarlo. Non avevano il compito di ferirlo, solo distrarlo.

Centinaia di uomini di ogni reparto, età e casato erano stati convocati dai quartieri limitrofi. Selezionati in base alle loro capacità - o alla simpatia - dai responsabili dei distretti, Zadok sapeva che molti di loro sarebbero morti. A loro si aggiungevano i volontari. Con sorpresa di Zadok, lo scampolo d'uomo aveva chiesto di partecipare alla battaglia. Era un evidente tentativo di attirare le sue simpatie e favori. 

La perdita di quel ragazzo che condivideva il sangue con l'assassino di suo padre non lo avrebbe turbato, lo avrebbe dato volentieri per poter celebrare il momento che attendeva da trent'anni e a cui aveva dedicato la vita. Aveva dato a Dabih una possibilità e lui non l'aveva colta.

Guardò le alte mura, difese da cannoni e fucili. I primi erano per il cocito e gli angeli, i secondi per i codardi. Una volta che la battaglia era cominciata ci si poteva ritirare solo di fronte a un ordine.

La viverna si dimenò e Zadok tirò le redini per ribadire la sua autorità. Comandò alla creatura di atterrare dinnanzi alle tre ali dell'esercito, guidate da Sabik, Muliphein e Gienah. Il rettile alato ruggì e Zadok guardò dall'alto al basso i sottoposti. Le loro vite erano nelle sue mani. I soldati semplici esistevano per creare diversivi e qualche sciocco nobilitto aveva voluto mettersi in mostra per salvare la dignità. 

Offrirsi volontari quando la minaccia era lontana non significava poterla guardare in faccia. Zadok vide quei soldati tremare e sbattere gli occhi senza sosta. 

Era il momento di decidere. Ingoiata l'ambizione, dichiarò: «Lode alla Dea! Soldati, oggi siamo di fronte a una grande prova.
Popoli dei Fiumi, della Foresta, del Deserto e delle Montagne sono qui riuniti per combattere sotto un unico vessillo. Questa non è la lotta di una fazione o di un regno, ma di un'intera razza!»

Attese le reazioni dei soldati. Molti alzarono le armi e gridarono, pochi lo fecero con coraggio.

«Riconosco che siamo di fronte a un'ardua sfida. Il cocito fa tremare le viverne e molti di voi non sopravviveranno. Autorizzo qualsiasi soldato semplice e chiunque non abbia raggiunto l'età del comando a uscire dai ranghi e ritirarsi». La voce si fece comprensiva. «Non macchierà il vostro onore». 

Un brusio serpeggiò tra le fila. Un militare abbandonò la posizione e altri dieci lo seguirono. Un paio di nobilitti che si erano offerti scapparono a gambe levate. Lo scampolo d'uomo rimase. Doveva essere davvero disperato. 

«Ricordate!» rincarò Zadok. «Quando la battaglia avrà inizio non potrete più abbandonare la vostra posizione. Le porte saranno chiuse e le sentinelle spareranno!»

Un sottufficiale, probabilmente appena promosso per anzianità, vomitò. Passò qualche altro istante e l'ultimo gruppo uscì.

Zadok alzò un braccio e attese per una decina di secondi. «Serrate le porte». 

Con un fragore che scosse la terra, l'unica via di fuga venne sigillata.

Zadok riprese il suo discorso e lo infuse col potere del dominio. «Ammiro il coraggio di chi ha deciso di restare per onore, devozione, amicizia. Voi che siete stati capaci di sfidare la morte, avete la mia ammirazione!»

La viverna sputò una vampata verso l'alto. I soldati sensibili al suo potere si unirono all'ovazione e sventolarono gli stendardi dei tre casati maggiori, in mezzo a cui si alzava l'Uroboro di Zadok. 

«Che i vostri cuori restino saldi. E se la paura dovesse assalirvi, guardate la statua della Signora, simbolo di tutto ciò per cui abbiamo combattuto. Finché svetterà verso il cielo il nemico non avrà vinto. 
Non abbiate paura di cadere, poiché le vostre vite sono promesse al Regno dei Cieli. I bardi canteranno dei cinquemila uomini che così coraggiosamente hanno sfidato e sconfitto gli angeli e il cocito!
Lottate per la Dea, per le vostre vite, per la gloria e per le vostre famiglie, siate guida per le future generazioni! Il cocito è ferito, non può più volare, ma se dovesse abbattere la statua e sfondare il nostro schieramento, raderebbe al suolo l'intero quartiere.
Seguitemi in battaglia, sarò il primo a caricare e l'ultimo a ritirarsi, qualsiasi cosa succeda!
Lode alla Dea!»

«Lode alla Dea!» fecero eco i soldati.

Il generale scese dalla viverna e le dette un colpetto per farla andare via. Portatosi vicino a Muliphein, gli bisbigliò: «Conto su di te».

«Fiducia ben riposta» rispose l'amico con una freddezza innaturale. 

Un ruggito ferino squarciò la notte. Zadok sentì il cuore battere ancora più forte, un tremolio gli attraversò le gambe, i muscoli si irrigidirono, la bocca si spalancò. Quello era il grido capace di risvegliare i primordiali istinti umani, la paura che si prova di fronte a un nemico troppo forte per poter essere affrontato. «Saldi, guerrieri, saldi!» richiamò.

Un passo scosse il suolo. Un altro ancora. Le armature vibrarono. La temperatura calò, soffi di vento gelido si abbattevano come onde.

Zadok sentì delle urla alle sue spalle. «Non voglio morire!» «Fatemi passare!» «Non ce la faremo!»

Tre spari e tornò la quiete. Zadok colpì il suolo con la lancia. «Mantenete la formazione!»

I palazzi crollarono, il suolo venne coperto da una scia di ghiaccio. Il cocito era arrivato.

Alto cinquanta piedi, il corpo umanoide rivestito di un'armatura di ghiaccio, le zanne erano stalattiti, le ali sottili come il vetro; la schiena, in corrispondenza della spina dorsale, era attraversata da spuntoni. Un corno era rivolto verso il basso, mentre l'altro, che avrebbe dovuto ritorcersi verso l'alto, mancava.

Zadok lo riconobbe. Era il cocito che aveva distrutto Regulus, il mostro che lo aveva inseguito nei sogni, la bestia di cui aveva bramato la morte. Era destino che egli perisse per mano del bambino che gli era sopravvissuto. «Che il cerchio si chiuda!»

Alzò e abbassò il braccio destro. Le cannonate volarono sopra di lui e si schiantarono sul cocito, intrappolandolo in un'esplosione simile a un gigantesco fungo di vapori. Il vento spazzò via le macerie più vicine e travolse le truppe.

Ammirò quella scena. Quale potere era nelle mani degli uomini! Gli angeli, i cociti, le streghe, perfino il Serafino, tutti avrebbero tremato dinnanzi all'ingegno delle creature che un tempo calpestavano come insetti.

Le esplosioni non bastavano a coprire gli altri rumori. Udito ed esperienza gli permettevano di assistere alla battaglia che si stava svolgendo attorno a lui. 

Stormi di angeli e arcangeli stavano scendendo dal cielo e, con un sonoro rombo, i cannoni a polvere viola avevano fatto fuoco. I proiettili impattarono contro la formazione e liberarono un'onda d'urto che la devastò. «Finiteli» gridò Sabik.

Le forze di Zadok si sfaldarono e corsero verso gli angeli morenti. Erano divisi in gruppi da tre: il primo affondava uno scalpello con una martellata, facendo emergere fiamme dalle viscere, gli altri due erigevano una barriera che sigillava le fiamme dell'esplosione e dei blocchi di metallo.

Qualcosa atterrò in mezzo ai soldati, che si sparpagliarono all'istante. «Fortezza!» Era un angelo alto il doppio di un uomo, con le gambe divaricate, l'addome largo, le braccia sproporzionatamente lunghe che terminavano rispettivamente con una sfera arancione e con una falce di luna. Sul petto un occhio simile a una gemma studiava i volti terrorizzati dei soldati.

La fortezza puntò le braccia e lanciò sfera e falce, saldate a lunghe catene. Zadok udì i clangori di armature tagliate o frantumate e gli strepiti dei guerrieri falciati come fragili fiori.

Sabik e Gienah si portarono ai lati della bestia. Con movimenti sincronizzati evitarono le armi, le afferrarono e dettero il via a una prova di forza con l'angelo. «Reparto dodici, adesso!»

Un plotone di soldati scagliò delle sfere di un liquido verde contro la creatura. Il metallo iniziò a fondersi e grida confuse si sollevarono. Era l'aconito, il veleno mortale per gli angeli. Le sfere si susseguirono a gran rapidità, il liquido affondò negli ingranaggi e ridusse la fortezza in ginocchio. Tagliata una catena, Gienah strappò la falce e finì l'angelo piantandogliela nell'occhio.

Uno stridio confuso, e l'angelo stramazzò.

Zadok sorrise. Aveva scelto solo ufficiali e sottufficiali che potessero agire autonomamente.

L'offesa ai danni del cocito continuava. Si era difeso con un muro di ghiaccio, altrimenti sarebbe già stato ridotto in pezzi.

D'un tratto un proiettile glaciale emerse dalla nube, intercettò un cannonata e l'avvolse in un blocco. Lo stesso accadde alle altre. Gli attacchi successivi volarono contro le mura con straordinaria precisione, bucarono le barriere magiche e distrussero i cannoni.

Zadok sbarrò gli occhi e vide la nube disperdersi: il cocito aveva le ali a pezzi, l'armatura spaccata, il corpo ustionato, un braccio mutilato. Ma era ancora vivo.

Aveva un piano anche per quello. I popolani più abili e molte Megrez erano con lui. «Carica dorata!»

«Soldati semplici e amaranto, a me!» ordinarono degli ufficiali, correndo e liberando una sfera di fuoco. I soldati di rango più basso e alcuni sottufficiali li seguirono.

Zadok caricò per primo, seguito da Muliphein, Gienah, Sabik e altri. Erano una ventina. Dai lati del cocito vennero invece dei plotoni muniti di piccoli cannoni a mano. Fecero fuoco e i proiettili esplosero liberando delle polveri che irritarono le narici. In contemporanea, i soldati semplici batterono le lance sul suolo o le spade sugli scudi, producendo un'assordante cacofonia.

Zadok, bersaglio principale, correva più veloce di tutti gli altri. Non aveva paura. Muliphein era con lui, decine di valenti guerrieri li affiancavano, il nemico era a un passo dalla sconfitta. «Questo è per Regulus!»

Il cocito cercò di afferrarlo, ma Zadok lo respinse con un affondo.

Muliphein, posizionatosi a lato del colosso, spiccò un balzo, si aggrappò al corno e gli piantò un pugnale nell'occhio. Il mostro tentò di afferrarlo, ma il guerriero lo schivò e trafisse anche il secondo.

Accecato, assordato e confuso, il cocito si agitò. Avevano quasi vinto, bastava tenere le distanze e aspettare che esaurisse le energie.

Un ringhio e la bestia smise di muoversi. Pareva essersi trasformata in una scultura di ghiaccio. Zadok rimase per un istante confuso e non capì cosa stesse accadendo. Per istinto collegò quel gesto di autocontrollo alla precisione che aveva manifestato poco prima.

Non faceva parte del piano. Non era previsto che il cocito, da sempre simbolo di furia cieca, manifestasse una simile razionalità.

Le empuse... loro lo avevano potenziato e gli avevano fatto dono dell'intelletto.

Non fece in tempo a parlare. Dal braccio del gigante partirono tre globi di ghiaccio che volarono contro i soldati semplici. All'impatto liberarono centinaia di schegge che perforarono armature e barriere.

La coda del cocito si mosse come una frusta e colpì Muliphein, scaraventandolo a perdita d'occhio.

Zadok seguì l'amico con lo sguardo e perse la concentrazione quel tanto che bastò al cocito per assalirlo. Commise l'errore di reagire con un affondo di lancia: il cocito aprì la bocca con sorprendente rapidità e la chiuse di scatto prima che Zadok potesse indietreggiare abbastanza.

Troppo veloce, resistente, coordinato. 

Zadok sentì di aver perso una parte di sé, percepì un dolore lancinante su tutto il corpo, vide il mondo roteargli attorno e udì il rumore di mille vetri che si rompevano. Cadde, provò a rialzarsi, tese le braccia alla ricerca di aiuto.

Fu allora che scoprì che il cocito aveva divorato l'avambraccio destro. Nemmeno il piritio azzurro aveva saputo proteggerlo.

La linfa vitale lo stava abbandonando, il corpo era paralizzato, ma la mente rimase cosciente. Vide i suoi soldati che venivano massacrati da un nemico che aveva sottovalutato. Dinnanzi a quello smisurato potere, non gli rimase che pregare affinché un eroe giungesse.

                                                                               ***

Dabih non aveva nemmeno visto arrivare quella pioggia di ghiaccio che aveva decimato il battaglione di cui faceva parte. Le onde d'urto erano bastate a fargli perdere i sensi. Gli facevano male le orecchie, il corpo era intorpidito dal freddo.

Lo spettacolo che aveva di fronte lo lasciò allibito. Arti mozzati, teste decapitate, addomi trafitti. Il sangue era congelato all'istante. Alcuni feriti gemevano o urlavano in preda all'agonia, altri barcollavano con aria assente, come se nemmeno avessero notato le mutilazioni.

Nella morte, popolani e nobili erano identici: piangevano, urlavano, gemevano, soffrivano. Pochi sapevano affrontarla con dignità.

Dabih provò il desiderio di lasciarsi sprofondare in quel mare. Faceva così freddo che provò il desiderio di addormentarsi. Che male c'era se si sdraiava per terra e lasciava che la morte lo cingesse in un dolce abbraccio? Una fine indolore, quasi piacevole, era meglio dell'agonia.

Quando era iniziato l'attacco aveva creduto di essere dinnanzi all'occasione della sua vita. Poteva salvare la vita di qualcuno, organizzare una controffensiva... i poemi erano pieni di suggerimenti per ottenere prestigio. Ma lui non era il protagonista.

Una mano insanguinata gli afferrò una caviglia. Vide un soldato, mutilato delle gambe e di un braccio, che lo guardava con occhi imploranti. Il ferito emise un gemito e provò a parlare, ma la bocca era impastata di sangue. «Lasciami, lasciami» gemette Dabih dando uno strattone. Rivide sé stesso in quella condizione, poi l'immagine cambiò e mutò nel volto di suo padre.

Stava per fare la stessa fine? Morire miseramente, senza aver fatto nulla di concreto, lasciando ai parenti prossimi il compito di costruirgli una reputazione?

Suo padre, almeno, era l'unico nobile a essere morto nella battaglia. Lì ce ne erano a decine. Il suo sarebbe stato un nome tra i tanti. Un numero.

Ecco cosa provavano i soldati comuni: identità e poemi celebrativi erano loro negati perché le loro vite non contavano abbastanza.

Il cocito stava arrivando, più simile a un morto che cammina che a un essere vivente. Si stava muovendo verso la statua, che avrebbe abbattuto, decretando il disonore e la condanna di chiunque fosse stato presente.

Dabih, rassegnato, distese le braccia. Urtò qualcosa. Abbassò gli occhi e vide che aveva legata alla vita una sacca. Senza ricordarne il contenuto, l'aprì. C'era una selenite del fuoco, circondata da una protezione per proteggerla dagli urti. Wasat l'aveva donata come ultima risorsa.

La sua memoria sfogliò decine di poemi in cui la sconfitta era diventata vittoria con poche mosse. Trovò le risposte che cercava e gli occhi brillarono: il nome sarebbe stato riscattato, le offese punite, avrebbe perfino potuto ambire a ereditare il trono del nonno!

Con una velocità che non avrebbe mai pensato di possedere, il figlio di Algedi studiò il campo di battaglia. C'erano decine di superstiti, forse un centinaio. Guardò i punti in cui avevano preso posto i portabandiera e trovò uno stendardo degli Alioth quasi integro. Lo raccolse e lo agitò mentre gridava con tutto il fiato che aveva. «A me, uomini di Zadok!» incitò. «Il cocito è ferito, possiamo batterlo. Per la Dea!»

Un guerriero lo notò e avvisò i compagni. Dei sottufficiali che avevano soccorso i feriti si avvicinarono. Gradualmente si formò l'ultima resistenza. Dabih sapeva di esserne al comando.

Il momento che tanto aspettava era arrivato e Zadok si sarebbe mangiato il fegato.

I soldati dietro di lui erano più di un centinaio e si muovevano con evidente organizzazione. Zadok li aveva addestrati e selezionati per poter prendere l'iniziativa, era servito solo che qualcuno li incitasse.

Il cocito era vicino. Sbatteva spesso le fauci, per cui sarebbe stato facile fargli inghiottire e rompere la selenite. Sarebbe morto bruciato dall'interno. «Ascoltatemi, ho un piano. Se volete salvare Zadok e proteggere la statua, dovete obbedire, capito?»

«Per lord Zadok!» gridarono le truppe.

Dabih si rabbuiò. «Per lord Zadok» Usurpare il suo nome non era così male e imitarlo avrebbe giovato.

Il cocito era a portata. «Attaccate!» Gli volarono contro deboli magie, utili a distrarlo. «Voi, muro di scudi!» Un plotone composto da uomini di vario grado si posizionò di fronte al cocito e lo allontanò con le lance. 

Quando il demone spalancò la bocca, Dabih prese la mira, invocò il nome degli antenati e lanciò. "Guardami, padre, questo è per te". La selenite volò verso le fauci spalancate.

Un improvviso alito di vento la intercettò e la rispedì indietro con la rapidità di un proiettile. Dabih impietrì e vide la preziosa arma che gli era stata rivoltata contro. Lo superò e arrivò il clangore. Seguì una violenta esplosione che lo sollevò di peso. Spade, lance e soldati vennero scagliati in aria, la carne bruciò e le urla di agonia divennero un tutt'uno.

Dabih rotolò al suolo, tossì e cercò di respirare. Ansimò, sputò sangue e bile, il sapore acido gli riempiva la bocca. Cambiò posizione e rigettò. 

Lo vide: la selenite aveva annientato metà dei soldati, i rimasti erano stati dispersi e lo stendardo di Alioth, avvolto dalle fiamme, precipitò vicino a lui. 

«Non... è... possibile...» cercò di esclamare. Poteva accettare la sconfitta, ma non una adatta a una commedia.

Nella sua mente si formò lo spettacolo di Dabih Vergogna degli Alioth, col suo ruolo interpretato da un patetico giullare che avrebbe suscitato mille risate al suo passaggio. Il suo nome sarebbe stato associato all'inettitudine e avrebbe portato vergogna all'intero casato.

Il cocito colpì la statua. Ogni colpo faceva il rumore di cento campane.

Dabih si coprì la testa, tappò le orecchie e urlò. Che il cocito lo uccidesse e ponesse fine a quella tortura!

La statua cadde rovinosamente e travolse un paio di uomini che avevano cercato di salvarla. Il demone calpestò un altro paio di superstiti e marciò verso il portone. Dabih, troppo debole per potersi alzare, lo chiamò. Se fosse morto avrebbe recuperato parte della dignità.

La creatura non gli badò e sfondò il portone.

Dabih avrebbe voluto perdere i sensi, ma non ci riuscì. Si rannicchiò e scoppiò in lacrime. Non aveva vendicato il proprio padre, gloriato la sua famiglia, mostrato di valere più dei popolani che tanto disprezzava.

Era quanto di più lontano da ciò che aveva sempre desiderato essere.

Un debole. Un numero. Un fallimento.

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