Allenamento

I quattro settori in cui era divisa la grande arena si erano riempiti di persone di ogni grado. I bambini ridevano e agitavano dei giocattoli che richiamavano mostri e guerrieri, dei venditori offrivano fiori, birra o carne fumante. C'erano perfino dei cittadini, posizionati nella prima fila, muniti di balestre. Erano sorvegliati e molti di loro tremavano per l'eccitazione.

Se gli uomini erano lì per ammirare il sangue, molte fanciulle urlavano di gioia di fronte agli aitanti gladiatori. Guerrieri dal fisico scultoreo e ricoperto d'olio, le virili chiome al vento, l'armatura ridotta a protezioni dorate per le gambe. Impugnavano bizzarre armi, quali scudi dentati, asce seghettate o spade da cui uscivano falci ondulate.

Uno dei pochi a non sorridere era Zadok. Aveva preso posto su un avancorpo riservato alla Dea, ai sovrani e a chi doveva ricevere grandi onori. Muliphein, in piedi, era la sua unica compagnia.

La fiamma azzurra trangugiò un lungo sorso di vino. Da ragazzo si era domandato più volte cosa avessero di speciale quei bagni di sangue. Avrebbe compreso se si fosse trattato di esecuzioni di nemici che avevano ucciso i cari od offeso l'onore degli spettatori, ma la luce che brillava nei loro occhi li rendeva ben più spaventosi delle bestie.

Il primo scontro a cui aveva assistito, in veste di protetto, aveva visto una ragazzina piangente venir massacrata da cinque campioni. Le esecuzioni successive avevano rievocato in lui solo ricordi di dolore e violenza. "Potevo essere io". Poi una crepa si era aperta nella sua morale: la consapevolezza di essere seduto su un trono ingioiellato, a guardarli dall'alto e al sicuro, lo aveva riempito di orgoglio. Lui era riuscito, loro avevano fallito. Sollievo, paura e disgusto si mescolavano tra loro, trasmettendogli la consapevolezza di essere vivo. Aveva bisogno di vedere quei cadaveri per ricordarsi che era sopravvissuto e poter assaporare un dono che altrimenti avrebbe visto come scontato.

Il portone degli sfidanti si aprì: dei parricidi uscirono goffamente e dovettero coprirsi gli occhi davanti alla luce accecante. Avevano i corpi sottili e marroni come alberi secchi, le ali simili a foglie morte, gli occhi vuoti e lunghe mandibole che schioccavano per comunicare. Emettevano strida confuse e stavano schiacciati gli uni agli altri come bambini spaventati.

«Lode alla Dea! Per lei e per la folla noi combattiamo» recitarono i gladiatori.

Thuban dei Megrez, il più forte e famoso di loro, corse in avanti e piantò la sua arma nel cranio del parricida più vicino: gli occhi uscirono dalle orbite, la lingua penzolò e il sangue uscì a fiotti. Il campione gettò a terra lo scudo circolare, sul quale saltò prima di darsi la spinta e ruotare su sé stesso. Al suo passaggio i parricidi vennero mutilati, era un vero tornado di sangue e membra. Sceso, tranciò in due uno dei mostri: la metà inferiore si trasformò in una fontana vermiglia. Schivata una carica, aggirò un avversario con una piroetta e gli recise i tendini delle gambe. Caduta in ginocchio, la creatura venne afferrata per la vita. Ci fu una breve prova di forza, al termine della quale Thuban si piegò all'indietro. Il parricida rovinò al suolo, poi dei tridenti arroventati lo penetrarono.

Un altro guerriero lacerò i muscoli del collo di una bestia più grossa delle altre. Il gigante gemette di dolore, non era più nemmeno in grado di reggere la propria testa. L'umiliazione proseguì quando il gladiatore gli legò delle catene al collo e lo cavalcò. Un altro uomo scoccò tre frecce roventi che si piantarono nei glutei. Il parricida emise un verso simile a una lama che scorreva sul vetro, corse disperato, travolse un'altra vittima e, sfinito, crollò.

Roteata l'ascia, un gladiatore mozzò il braccio di un nemico. Afferrato l'arto insanguinato, lo alzò e lo usò come arma. «Che stupida bestia, si sta picchiando da sola» esclamò qualcuno tra la folla.

Zadok sentì l'odore del sangue inebriarlo. I suoi sensi erano all'erta, la mente seguiva i movimenti di tutti i combattenti.

Per chi era stato sul fronte quell'aroma significava solo la morte dei propri compagni e l'avvicinarsi di un nemico nelle cui vene scorrevano fuoco e metallo fuso. Amava e odiava quella sensazione come una donna che non poteva avere.

Zadok iniziò a tremare e si placò solo quando una mano robusta gli strinse la spalla. Muliphein era vicino a lui, lo sguardo d'acciaio, il volto contratto. Con quel gesto non chiedeva a Zadok di controllarsi, lo ordinava.

Zadok allontanò il vino e tornò a guardare il massacro: le urla del pubblico echeggiarono, i fiori caddero nell'arena. I gladiatori, tra una mutilazione e l'altra, li raccoglievano e li gettavano verso le fanciulle più belle ed eleganti.

Si fermarono solo quando rimase un solo superstite: aveva il fianco destro lacerato e si stava premendo una mano sulla ferita. Il suo esoscheletro era stato più volte strappato, lasciando la nuda carne. Annusò l'aria, lo sguardo che passava da un cadavere all'altro. Il suo stridio era il pianto di un condannato. Quando protese una mano verso l'avancorpo, Zadok strinse i braccioli del trono. Il parricida sapeva che solo chi sedeva più in alto degli altri poteva salvarlo.

A che scopo? La folla esigeva il suo sangue.

I balestrieri paganti puntarono le loro armi. Il primo dardo partì e centrò la spalla. Il secondo e il terzo mancarono il parricida, ma i seguenti andarono a segno. La mano smise di comprimere e le interiora scivolarono sulla sabbia. Il parricida rigurgitò sangue, le braccia si distesero, gli occhi rotearono verso l'alto. Con un sonoro tonfo si accasciò.

La gente che aveva scoccato agitò le braccia, tutti si attribuivano il merito di aver lanciato il dardo fatale. Non c'era nessun premio in denaro, solo la soddisfazione nell'uccidere un nemico impotente.

Si sarebbero susseguiti altri spettacoli e reggerli sarebbe stata la parte più dura, ma una volta finito Zadok si sarebbe potuto sfogare nell'allenamento con Muliphein.

                                                                                              ***

All'interno di un ginnasio fortificato, Zadok e Muliphein incrociarono le spade e si fissarono negli occhi; quando qualcosa scintillò negli occhi di Muliphein, Zadok gli dette una ginocchiata nello stomaco, facendolo piegare in due.

Il generale riprese fiato mentre l'avversario boccheggiava. «Giuro sulla Dea: sei un ottimo guerriero, ma non hai l'indole adeguata».

Muliphein sputò saliva. «Finché non mi altero, Zadok» ribatté con tono duro. «A onor del vero, con la spada non riesco a dare il meglio. Avessi avuto un'alabarda e sareste già a farvi medicare le ferite». Ripresero il duello in un vorticare di lame e scintille. Zadok aveva i muscoli contratti e rigidi, la sua mente non riusciva a focalizzarsi ed erano già giorni che dormiva poco e male.

Schivato un affondo, Muliphein puntò la lama. «Se un sortilegio non inganna i miei sensi, i vostri colpi difettano di precisione e sono più arditi del solito, signore. Qualcosa vi turba?»

Zadok lo ignorò e colpì ancora, ma Muliphein scartò di lato. Zadok ansimò e si sentì come se i suoi polmoni stessero prendendo fuoco. Se da giovanissimi era stato Zadok il più forte, con l'andare degli anni i ruoli si erano invertiti. Poche volte era riuscito a battere a duello il suo braccio destro, e quel giorno in particolare lo stava umiliando.

«Signore, non mi avete sempre detto che un vero comandante deve possedere autocontrollo, intelligenza e coraggio?» lo motteggiò. 

«Metti in dubbio le mie doti?» esclamò Zadok, offeso.

Le labbra di Muliphein s'incurvarono in un sorriso quasi tenero. «Scherzate? Due su tre è un buon punteggio».

«Ah, e quale mancherebbe?»

Zadok tentò un affondo, ma Muliphein si spostò di lato e gli fece lo sgambetto. Zadok barcollò in avanti e recuperò l'equilibrio, ma un calcio nel deretano lo mandò a terra. «A volte una falsa informazione è utile per confondere il nemico, signore. Posso garantirvi che non difettate di coraggio. Neanche Aludra la Folle potrebbe spaventarvi!»

Zadok roteò gli occhi e tamburellò con le dita sul suolo. «Ti odio».

Continuarono a duellare per minuti che divennero ore. Solo quando il sole era basso Zadok fece cenno di fermarsi. «Consi... deriamolo... un pareggio!» ansimò massaggiandosi i lividi.

Muliphein, illeso, si spolverò gli stivali. «A parer mio, le mie calzature sono messe meglio di voi». Guardò Zadok con falsa preoccupazione. «Necessitate di un guaritore?»

Zadok odiava l'abitudine di Muliphein di ferirlo per il gusto di poterlo curare. «Tieni le mani a posto, mi concederò solo a qualche bella fanciulla».

Muliphein si mise una mano sul cuore. «Ah, avete riservato il colpo più micidiale per il gran finale e mi avete colpito quando ho abbassato la guardia!»

Zadok scoppiò a ridere - se per divertimento o per frustrazione, non lo seppe neanche lui - e si sedette. «Ah, Muliphein, se solo fossi nato donna...»

Muliphein fece un vago cenno con la mano libera. «Mi avreste detto che voi appartenete solo alla Dea, che non potete mescolare lavoro e sentimenti, e così via. Non fatevi beffe di me. Ci sono state belle fanciulle che hanno messo gli occhi su di voi. Vi assicuro che non sono stato io ad allontanarle, ma la vostra incapacità di rilassarvi».

Il generale si massaggiò il labbro spaccato. «Certo che oggi ci sei andato giù pesante».

«Non rigirate il discorso. Siete troppo preso dal lavoro, perfino secondo i vostri criteri. Vi siete addormentato due volte sulla scrivania e sono sicuro che tutta la magione vi abbia sentito russare. Ho dovuto perfino deludere un paio di avventurieri che credevano che ci fosse un drago nei paraggi».

Zadok arrossì, imbarazzato. Un medico di corte gli aveva detto che quel problema era dovuto all'eccessivo consumo di vino al basilisco. «Come faccio a dormire tranquillo? Sono il generale, delle vite pesano su di me!»

«Intendete aiutare quei ragazzi crollando per la stanchezza? Mi sfugge il nesso».

«Maledizione Muliphein, sei un Mizar! Come puoi essere così rilassato?»

«Prendo regolarmente delle tisane e ascolto musica delle mie parti, dovreste saperlo».

Zadok si strofinò il viso. «Ci siamo, lo capisci? Abbiamo gli strumenti, dobbiamo solo testarli!»

Muliphein si fece serio. «Fremete dal desiderio, lo capisco». Roteò la spada e guardò il soffitto con aria distratta. «Immagino che abbiate preparato tutte le richieste».

«Fino all'ultimo timbro» rispose Zadok con una certa fierezza. Non era per la forza che era diventato generale. Muliphein, invece, sapeva essere bonario e riusciva meglio come braccio destro: abbastanza affabile perché gli ufficiali si confidassero con lui e abbastanza in alto da fargli rapporto e criticarlo senza compromettere la disciplina.

«Avete anche preparato un dono per re Rigel, immagino».

Zadok si mise una mano nei capelli. «Sai cosa mi ha fatto!» si accigliò.

Muliphein sospirò e si sedette a propria volta. «Purtroppo sì, e al vostro posto l'unico regalo che gli farei sarebbe un calice avvelenato. Però vi ho detto varie volte che per smuovere qualcuno è bene ammorbidirlo. Siete un ottimo comandante e un formidabile organizzatore, ma come diplomatico fate pena».

«Vieni al dunque!» si alterò Zadok. Muliphein alzò un sopracciglio e Zadok capì di aver esagerato. «Scusami. Dimmi cosa sto sbagliando».

Muliphein assentì. «Quello che sto cercando di dirvi è che siete troppo teso. Giuro anch'io sulla Dea: è più facile sfondare il piritio blu che farvi capire qualcosa, quando vi impuntate! In questi anni ho provveduto io a inviare biglietti e regali, usando il vostro timbro e falsificando la vostra firma. Ho dovuto abbellire il vostro rigido linguaggio. Ho anche fatto la lista dei doni e delle domande salienti».

Per Zadok un solo tassello fuori posto era motivo di frustrazione. «Perché non... lascia perdere, ho capito». Si alzò e sgranchì i muscoli. I lividi avrebbero fatto male per ancora qualche ora, prima che il suo corpo li facesse sparire da sé. «Tra poco ci sarà una festa. Faremo in tempo a ripassare il programma».

Muliphein gli si affiancò. «Ecco, a tal proposito, il vostro piano di difesa andrebbe, come dire, adattato».

Zadok aveva apportato le ultime modifiche all'arrivo delle nuove fiamme dorate. «Certo, non posso prevedere ogni mossa».

«Non in quel senso. Mi riferisco allo "scampolo d'uomo". D'accordo, è un inetto, disonore al suo casato fino alla decima generazione. In battaglia non durerebbe dieci secondi. Un ufficiale così peggiora la situazione e fa serpeggiare il panico».

«Coi figli dei contadini non ci facciamo troppi problemi. Li mandiamo avanti e abbiamo l'ordine di uccidere in caso di fuga». Più alto era il tuo grado, maggiori dovevano essere i tuoi doveri.

Muliphein si morse il labbro e incrociò le braccia. «Signore, lasciatelo con gli ausiliari. Tenetelo per delle cariche di supporto contro i nemici minori, assieme agli altri inetti. Uno scontro diretto è un suicidio».

«Lo fanno tutti i giorni coi figli dei braccianti. Almeno la loro debolezza è giustificata. Lui che attenuanti ha?»

Muliphein sospirò lentamente. Non avevano dimenticato i soldati che, anni addietro, avevano lottato con loro. Di loro era rimasto solo un vago ricordo inciso nella memoria e nei vecchi diari. In qualità di fratello dell'Imperatore aveva potuto agevolare Zadok e qualche altro meritevole, ma non aveva potuto salvarne molti altri.

Se solo ci fosse stato qualcun altro al posto di Rigel. "Qualcuno come me!" pensò Zadok massaggiandosi le ferite. Da quando aveva ottenuto il potere aveva speso gran parte dei suoi averi nella ricerca militare. Mancava un solo, misero passo, che sarebbe stato agevolato se tutti avessero fatto la loro parte.

Muliphein continuò. «Avranno altri talenti. L'Impero non è fondato solo sulla guerra».

«Se avesse avuto qualcosa di cui andare fiero ne avrebbe parlato nelle lettere. A parte...» Dell'arte dell'inganno non parlavano quasi mai a voce alta. Lo aveva osservato durante i festeggiamenti, e aveva notato un'ottima mimica facciale. Ma appena Dabih aveva incrociato il suo sguardo il viso era andato incontro a piccole contrazioni. Doveva essere consapevole della debolezza del suo casato e del rafforzamento del popolo, che vantava, come non mai, ufficiali di alto rango. Un nobile insicuro che non sapeva distaccarsi dal glorioso passato era quanto di più terribile potesse capitare ai soldati, perché avrebbe mascherato le sue incertezze con una falsa risolutezza e con l'impulsività.

Zadok sentì l'amaro in bocca. In effetti quei reparti di deboli aristocratici sarebbero stati d'intralcio, e mandarli a morire avrebbe potuto compromettere ancor di più i rapporti con Rigel. «D'accordo. Terrò fuori quei novellini dalla carica dorata. Ma credevo li disprezzassi quanto me!»

Muliphein alzò il mento e la voce. «Eccome se li disprezzo. Credete che sia facile sapere di condividere il sangue di una leggenda vivente, mentre altri a momenti si vantano della propria incompetenza in virtù della loro posizione? Credete che sia stato facile nascondere per anni chi sono e continuare a farlo per colpa di una patetica regola che ormai ha messo radici?» Aprì le braccia, come a indicare l'intero Impero. «Puoi tradire la moglie per una prostituta di cui abusi e la colpa sarà della donna che non ti ha soddisfatto e di quella che ti ha insidiato. Puoi molestare le serve e ti stai solo divertendo, puoi dare in sposa la tua figlia quindicenne a un ricco bruto e stai facendo il bene del casato». Zadok si passò una mano sulla gola al ricordo di quel giorno in cui cinque destini si erano incrociati. «Puoi dare fuoco a un tuo villaggio che non ha pagato le tasse e stai solo amministrando la tua terra, puoi anche prendere con la forza una contadina e stuprarla per strada. Ma non puoi amare un altro uomo. Ciò suscita la mia ira, se permettete. Ma solo perché ho subito delle ingiustizie non significa che debba sfogarmi sulle parti deboli!»

Zadok si sentì in soggezione e gli mancò il fiato. Muliphein poteva passare da giocoso amico a severo ufficiale in un istante, sapeva indovinare i suoi pensieri con un'intuizione che a volte appariva quasi magica e, anche se la sua posizione spesso gli impediva di esternarlo, sapeva mostrare compassione per chi avrebbe meritato il disprezzo.

Muliphein alzò una mano verso di lui con dolcezza, poi fece una smorfia e la ritrasse. «Lord Zadok, io vi ho a...» si morse le labbra, «ammirato per due motivi: la sconfitta che mi avete inferto e che mi ha spinto a dare il meglio di me, e il momento in cui avete salvato la giovane Bellatrix. Io non ho avuto il coraggio di disobbedire agli ordini e sfidare cinque campioni per una persona che nemmeno conoscevo. Vi ho seguito nell'arena dopo qualche istante, ma solo perché eravate voi. Se ci fosse stato qualcun altro sarei rimasto paralizzato. Vi avrebbero ucciso per offesa al casato e sareste morto lì». Camminò contro la parete e ci dette un calcetto. «Questo è il posto più sacro al mondo, ma è stracolmo di arrampicatori sociali e falsi sorrisi. Vi fa troppo male alla mente». Le sue spalle si rilassarono e si girò con aria più serena. «Perché non vi trasferite un po' dalla regina Bellatrix? Vi accoglierebbe con tutti gli onori. Un mese senza pensieri e problemi, di fronte a un bel lago. L'aria vi farà bene e vi garantisco che nessuno cercherà di uccidervi. Non vi accompagnerò perché qualcuno deve badare alla burocrazia, ma potrete confidarvi nelle lettere».

Zadok si stropicciò i baffi e chiuse gli occhi. Dopo il confronto verbale non si sentiva più inattaccabile come prima e l'idea si stava facendo largo. All'improvviso sentì una profonda stanchezza e i muscoli si distesero. «Ti ringrazio, ma cos'accadrebbe se il Serafino dovesse attaccare?»

Muliphein si batté il pugno sul petto. La voce era sicura, ma le labbra si contrassero nervosamente. «Lo crivellerò di cannonate».

Zadok si grattò la barba e si prese un minuto per riflettere. Era molto improbabile che attaccassero proprio in quel periodo, ma la sorte sapeva essere ironica. Muliphein era un ottimo ufficiale, capace d'ispirare le truppe. Gli altri collaboratori sarebbero stati in grado di gestire la situazione.

La vera virtù di cui un coordinatore aveva bisogno era il saper riconoscere le persone adatte e metterle nelle condizioni di eccellere. Una volta che tutti i tasselli erano al loro posto, l'ordine non sarebbe stato necessario, tutto si sarebbe mosso da sé. L'esercito perfetto era quello che non aveva bisogno di un comandante, se non per rinnovarsi. Zadok era certo che potessero affrontare ogni minaccia, ma voleva affrontare il suo nemico e prendersi la vendetta che bramava quanto l'espiazione e la giustizia. La desiderava perfino più di quanto desiderasse la Dea. «D'accordo, amico mio, mi hai convinto. Ma promettimi che non accetterai o respingerai i progetti, finché sarò via».

«Come ordinate».

Zadok notò il compiacimento nel suo sguardo. «Come facciamo con l'Imperatore?»

«Basterà presentare la domanda con le relative date. Sua maestà imperiale non ha mai nascosto la simpatia nei tuoi confronti e coglierà l'occasione per inviarle dei doni».

«Già, tu mi hai aiutato, ma è stato lui, seguendo la volontà della Dea, che mi ha nominato fiamma azzurra». Zadok si riempì i polmoni. «Quando partirò, a lui e a lui soltanto consegnerò i progetti».

Muliphein assentì, ma Zadok si accorse che, per una frazione di secondo, il volto del suo braccio destro si era irrigidito. Ne avevano già parlato: Muliphein pensava che Acrux avesse nascosto dell'aconito nel mazzo di rose, e anche se ciò doveva essere vero per Zadok, era impossibile che stesse davvero ambendo al trono della Dea. Nessun'arma mortale avrebbe potuto rivaleggiare con lei e Acrux era troppo intelligente per non capirlo. Non era un fiero paladino del popolo, solo un politico che sapeva fare le mosse giuste per consolidare il proprio potere e far progredire l'Impero per sconfiggere coloro che lo avrebbero insidiato. Le voci secondo cui ambisse alla mano della regina Bellatrix lasciavano supporre che presto l'Impero avrebbe raggiunto un'unità mai vista prima.

Zadok strofinò con un misto di tensione e orgoglio le mani: si stava avvicinando una nuova era per l'Impero, e lui ne era uno dei fautori.

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