Una tregua inaspettata
Allyson
Allyson giunse in ufficio con un leggero anticipo, rispetto al previsto. Non appena si sistemò, compose il numero di Arianne e le chiese di raggiungerla.
Quando la segretaria arrivò e vide la mano fasciata, lo sguardo si riempì di preoccupazione.
Lei le raccontò ogni particolare non tralasciando nulla.
«Come stai adesso? Le ferite... e tutto il resto?» domandò in tono gentile ma carico d'ansia.
«Le sto gestendo,» rispose, cercando di apparire più sicura di quanto si sentisse davvero. «Ma avrei bisogno di un favore. Puoi verificare se c'è posto alla residenza per gli studenti della British Crown? Giusto per qualche tempo, finché non trovo una sistemazione stabile.» La voce era ferma, ma la premura evidente.
Arianne annuì, determinata a dare il suo supporto. «Ci provo, ma non sarà semplice. Farò il possibile.»
«Grazie,» disse, lasciandosi andare a un sorriso stanco mentre si appoggiava alla scrivania. La tensione le pesava quanto un macigno.
L'amica la osservò per un istante, poi parlò con decisione. «Non potrai nascondere tutto questo a Gresham, lo sai.»
Allyson socchiuse gli occhi, un lungo sospiro ne tradiva la stanchezza. «È già qui, vero?»
«Sì, ho dovuto spiegargli del ritardo e mi è sembrato preoccupato.» affermò per sollevarla.
«Lui che si preoccupa? Non dirlo nemmeno!» Legrant sbuffò, incredula. «Si starà preparando per rimproverarmi.»
«Quando verrà da te, e sappiamo che lo farà, raccontagli quello che è successo. Non c'è altra via.» replicò la giovane.
«Dammi mezz'ora per sistemare alcune cose, poi informalo che sono pronta.» La sua voce uscì con una calma sorprendente.
La ragazza, sentendo il tono calmo, mosse la testa annuendo. «Il nostro dirigente era di buon umore stamattina. Speriamo che lo conservi.»
«In effetti, ieri sera siamo stati bene, nonostante il guaio con il poliziotto,» rispose Allyson, provando a mascherare la tensione con un sorriso.
«Sai, ne parlano tutti. Vi siete comportati in modo tempestivo,» osservò la giovane, alzando le spalle con una leggera risata. «Me lo immagino, il capo che fa una RCP.»
«Si è comportato bene,» affermò la dottoressa ridendo per la battuta e si rilassò un po', «c'e stata una buona intesa ieri sera, ma adesso...»
«Vedrai che capirà,» suggerì Arianne, incoraggiandola.
Allyson sospirò, abbassando lo sguardo per un istante, mentre l'incertezza la attanagliava. «Ci siamo già scontrati una volta a causa dei lividi, e per un po' mi aveva evitata. È stato proprio al ricevimento che avevamo recuperato un po' di sintonia.» ribadì, oppressa dalla piega che avevano preso gli eventi.
«È il suo modo di fare, non preoccuparti.» La segretaria tentò di sollevarla dai pensieri cupi. «Il capo ci tiene davvero ai suoi collaboratori. Non lasciare che ciò ti pesi troppo.»
In breve, restò sola, concentrata sulle sue incombenze. Trascorse il tempo che le rimaneva per ricevere notizie sull'agente ricoverato in clinica, rallegrandosi nel saperlo migliorato.
Poi prese accordi per nominare un assistente sociale per Phillip, contattando una struttura che si occupasse dei reduci. Il pensiero di abbandonarlo la tormentava, ma si sentiva decisa al cambiamento.
Mezz'ora dopo, la porta dello studio si aprì. Eugene entrò, il volto segnato da una serietà inusuale.
Alzò lo sguardo dalla scrivania, dove stava ancora compilando dei documenti. Vedendolo così cupo, un lampo di irritazione la attraversò.
«Di già qui?» mormorò, senza riuscire a mitigare il tono seccato. Con un gesto infantile, cercò di nascondere la mano fasciata con l'altra.
Il dirigente si fermò al centro dello studio, incrociando le braccia sul petto. La postura rigida tradiva la tensione che era tornata tra di loro.
«Sembra che abbia passato una notte movimentata,» esordì fissandola con intensità, pronto a decifrare ogni sfumatura del suo volto. «Cosa le è successo e come sta?»
«Sto bene, non si preoccupi. Phillip ha avuto una crisi al mio rientro, si è agitato e mi sono trovata nel mezzo mentre cercavo di calmarlo. Stia tranquillo, è stato
soltanto un incidente.»
La dottoressa cercò di mantenere un tono sereno, ma le parole risultarono più deboli di quanto avesse voluto.
Eugene, però, non si lasciò ingannare. «Spero che tutto ciò non sia a causa di ieri sera.» esordì rassegnato. Poi puntò lo sguardo sulla mano offesa. «Ciò giustifica quella fasciatura e la postura rigida? Com'è possibile che finisca sempre per farle del male?»
Allyson si irrigidì, cercando di mascherare la propria vulnerabilità. «Phillip sta attraversando un brutto periodo!» rispose con un sorriso forzato, ma la voce le tremò. «Cosa pretende che le dica, Gresham! Non vuole capire la mia situazione, ed entra qui per sgridarmi.»
Lui sbuffò irritato. «Ora mi spieghi, che comportamento dovrei tenere! È già la seconda volta che discutiamo per questo motivo.» affermò esasperato. «Ieri sera, prima che ci lasciassimo, stava bene, e in poche ore le è successo di tutto.»
Allyson abbassò la testa, mascherando la tensione che le stringeva la gola. L'unico suono nella stanza risultava il ticchettio incessante dell'orologio, sulla parete, che le ricordava il guaio in cui era finita.
«Glielo ho spiegato: sono un medico e lui ha bisogno di aiuto, mi sembra di essere stata chiara.» ribadì alzandosi con una rapidità che accompagnò lo stridio della sedia sul pavimento. La spalla, ormai rigida, le doleva, ma non si sarebbe fermata.
Il dirigente non si mosse, ma un lampo di stizza gli attraversò il volto, seguito da un sorriso ironico. «Elisabeth, a modo suo, mi rispetta. Ma adesso, se qualcuno alza le mani su di lei, diventa una mia responsabilità.»
Allyson allargò gli occhi, incredula. «Una sua responsabilità? E perché mai?» rise, mascherando il disagio con una barriera di sarcasmo.
«Anche se ha affermato che è stato un incidente, sono il suo superiore e il lavoro, nelle condizioni in cui è, ne risentirebbe,» rispose Eugene con una fermezza che non ammetteva repliche.
Legrant fece due passi dietro la scrivania, portando la mano sana alla fronte per placare un improvviso mal di testa. «Non evito i miei impegni e non le ho chiesto permessi,» ribatté, cercando di mantenere la calma.
Gresham serrò le labbra, il tono autorevole. «So benissimo che verrebbe a lavorare anche se non fosse in grado di farlo! Basta guardarla," esplose lasciando trasparire una mal celata insofferenza. «Ma avere al mio fianco una collaboratrice incaricata di seguire il Primo Ministro con dei lividi così evidenti di percosse, non lo considero affatto accettabile.»
Allyson si irritò per quella sfuriata. «Non capisco perché questo debba sempre essere il nostro principale motivo di scontro. È come se fosse ossessionato dall'idea di dover trovare una spiegazione per i miei lividi, quasi a volerli giustificare a tutti i costi.»
Eugene avanzò di un passo, sollevando il braccio in un gesto fermo, quasi a voler placare l'atmosfera tesa. «Infatti, se fosse necessario difenderla, sarebbe complicato. Qualcuno potrebbe insinuare che il suo fidanzato abbia... le mani pesanti. E i pettegolezzi si diffondono rapidamente.»
«Pettegolezzi?» ripeté lei, la voce velata da una punta di amarezza. «Pensa davvero che tutti siano così interessati a parlare di me e dei miei lividi?»
«Non conosce certi colleghi!» sibilò Gresham inclinando il capo di lato, lo faceva spesso quando era esasperato.
Allyson avvertì un'ondata di stanchezza travolgerla. L'idea di dover continuamente giustificarsi le pesava ogni minuto in più. Si lasciò cadere sulla poltrona, sprofondando in segno di resa. «So gestire le persone curiose, così come faccio con lei.»
«La mia non è curiosità,» ribatté Eugene con fermezza, «sto cercando di farle capire che deve mettere fine a questa situazione. Più presto lo fa, meglio sarà per lei. Il suo ex sta diventando troppo manesco. O prende dei provvedimenti, o sarò costretto a prenderli io.»
Quella reazione energica la fece infuriare, spingendola a rispondere d'impulso.
«Senta, signor Genio, le ho già detto che la mia vita privata riguarda solo me. Se è così preoccupato, mi prenderò due giorni di pausa per guarire, così non rischierà di fare brutta figura.» Mentre parlava, si massaggiò le tempie con un gesto stanco, i capelli castani le ricaddero sulla fronte, rendendola ancora più scomposta.
Eugene serrò la mascella, trattenendo la replica a quell'epiteto che gli aveva scagliato contro con disarmante leggerezza. Allyson lo conosceva bene, era arrivato al limite, non gli piaceva essere chiamato così, specie da lei.
Si sentiva combattuta. Tutta l'intesa nata tra loro la sera precedente sembrava svanita nel nulla, dissolta in poche ore di tensione. Non lo avrebbe mai ammesso con lui, ma sapeva di non poter andare in giro in quelle condizioni.
Eugene iniziò a camminare per lo studio, cercando di placare la rabbia che gli ribolliva dentro. Finalmente si fermò, si schiarì la voce e parlò con tono fermo e controllato.
«Non voglio rispondere alle sue provocazioni, ma spero che ci siamo capiti. Si prenderà dei giorni di pausa, da subito, e tornerà quando starà meglio. Nel frattempo, cerchi di evitare di aggiungere altri lividi a quelli che già ha, e, magari, di calmare il suo fidanzato.»
Legrant sospirò, esausta.
«Quindi mi sta mandando a casa?» sbottò, posando le mani sulla scrivania. «Lei vuole sempre collaboratori perfetti.» La sua risposta era piena di amarezza mentre tentava di alzarsi. Un improvviso dolore, però, le bloccò il movimento e dovette desistere. Il gesto le strappò via il sorriso, lasciando il posto a una smorfia involontaria.
Eugene osservò la scena, incerto. Fece un passo avanti, poi si arrestò e parlò a voce bassa per attenuare l'ostilità tra loro.
«Dottoressa, pensi pure quello che vuole di me,» disse con un tono pacato, «ma si prenda un periodo di riposo. Non ho altro da aggiungere. Ci rivedremo quando starà meglio.»
Si voltò per andarsene, deciso a chiudere la conversazione, ma la donna lo fermò con un mormorio basso, intriso di avvilimento. Non poteva lasciarlo andare senza dirgli il resto.
«Per la cronaca, ho lasciato Phil,» confessò, «e non posso tornare al mio appartamento. Gli ho concesso di rimanere per un po'. Devo trovare una sistemazione provvisoria.»
Gresham, con la mano ancora sulla maniglia, rimase immobile, come paralizzato. Si voltò con lentezza, il volto privo di quell'espressione di controllo che lei tanto detestava. Con molta probabilità che aveva compreso che la lite con Phillip era stata più grave di quanto si fosse immaginato.
«Non ha nessuno che possa ospitarla?» chiese d'improvviso, rompendo il silenzio.
Lei scosse la testa e si lasciò andare contro lo schienale, sentendo tutta la stanchezza accumulata pesarle sulla spalla ferita.
«No, purtroppo. Ma posso tornare alla residenza della clinica, nella stanza che mi avevano assegnato quando ero ancora una studentessa appena assunta. Sarebbe solo per pochi giorni, giusto il tempo di trovare un appartamento in affitto.»
Si aspettava una reazione fredda, ma lui la osservò in silenzio. Sembrava studiarla, gli occhi attenti e penetranti. Poi, in un gesto inconsueto, si morse il labbro inferiore, riflettendo su qualcosa che stava considerando.
«Non può guarire in quel posto.» Si massaggiò il mento, come a cercare le parole giuste. Riprese la conversazione, ma in tono conciliante. «So che non siamo partiti con il piede giusto, ma abito in una villetta con una piccola dépendance che è libera. Vivo con Norah, la mia governante, che si occupa della casa. Piuttosto che vederla aggirarsi per l'ufficio in condizioni precarie, preferirei che venisse a stare da me, almeno finché non trova una sistemazione.»
Allyson non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Eugene, sta scherzando? Riusciamo soltanto a litigare! Pensa davvero che potremmo convivere sotto lo stesso tetto, anche se per poche settimane?» Ridacchiò nervosamente, osservandolo con uno sguardo misto di sorpresa e incredulità.
«Abbiamo discusso, non litigato!» precisò il dirigente con fermezza. «Non faccia la sciocca, Legrant. Questo non è il momento di lasciarsi guidare dall'orgoglio, e la mia proposta è più che ragionevole.»
La dottoressa distolse gli occhi combattuta: I lividi, le necessità di Phillip, il caos del suo impiego... tutto si intrecciava in un groviglio soffocante. Non poteva permettersi di compromettere il lavoro, e Eugene non sembrava disposto a lasciar correre la questione. Respirò a fondo, cercando di contenere il disagio che le saliva dentro, e alla fine annuì, pur con riluttanza.
«Va bene,» disse, la voce appena più bassa. «Solo per alcuni giorni, finché non trovo un'altra sistemazione.»
«Può rimanere quanto vuole, inoltre, io sono sempre in ufficio e, a parte pochi incontri serali, non ci dovrebbero essere problemi di convivenza. Possiamo dichiarare una tregua per il periodo in cui soggiornerà a casa mia. Se accetta, prometto di esercitare una certa tolleranza nei suoi confronti.»
Allyson lo fissò incredula. La parola "tolleranza" associata a Gresham le suonava quasi comica. Con uno sforzo trattenne un sorriso, ma non resistette a una risposta pungente.
«Lei, tollerante? Mi lasci qualche istante per digerire questa novità. Non vorrei rischiare di sconvolgere la sua vita ordinata.»
Una risata genuina le sfuggì, ma Eugene, con la consueta sicurezza, la tagliò con una smorfia ironica in volto.
«Non sconvolgerà un bel niente, glielo assicuro. L'importante è che si rimetta in fretta.» Poi aggiunse divertito, «Ad ogni modo, la preferisco sarcastica piuttosto che arrabbiata.»
Lei scosse la testa, indecisa. C'era in lui una forma di protezione che, per quanto dissimulata dalla solita rigidità, trovava rassicurante. Esitava, ma l'idea di avere un posto sicuro dove rimettersi la tentava. In fondo, per un po', avrebbero potuto sopportarsi a vicenda.
Lui rimase fermo al centro della stanza, il volto impassibile mentre aspettava una risposta. Allyson si decise, accennando un sì con il capo.
«D'accordo, ci sto. Però... non ho molti cambi con me e dovrei tornare a casa per prenderli. Non so che fare per riavere i miei vestiti.»
Lui prese del tempo per riflettere. Poi rispose con la consueta praticità.
«Non si preoccupi, manderò Paul e Mark a recuperare le sue cose. Il suo ex non alzerà le mani contro due uomini, glielo garantisco.»
«Non gli farete del male, è soltanto confuso. Me lo deve promettere.»
Eugene la guardò con uno sguardo impassibile, come se avesse ricevuto una richiesta irragionevole. «Stia tranquilla, non mando dei killer, anche se un bel manrovescio lo metterebbe a posto.»
«Gresham!» sbottò, sbattendo la mano sana sulla scrivania. «Se desidera davvero aiutarmi, sia comprensivo con Phillip! Ha dei difetti, ma è malato, ed è stato il mio compagno.»
Lui sbuffò, intenzionato a smorzare la tensione. Lo vide infilare le mani nelle tasche per nascondere un'impercettibile dose di imbarazzo. «L'ho sempre detto che ha l'istinto della crocerossina.» sentenziò.
La dottoressa lo fissò con una punta di irritazione. «E anche se fosse? Si ricordi qual è la mia professione.»
«D'accordo, contenta lei...» sospirò allargando le braccia in segno di resa. «Ma ora abbiamo stipulato una tregua. Appena Paul avrà preso i suoi vestiti, la porterà a villa Camelia. Mi occuperò di avvisare Norah del suo arrivo. Io rientro stasera.»
Legrant si preparò a obiettare. «Posso tornare con lei alla fine della giornata di lavoro.»
«Non si ricorda che le ho consigliato di riposarsi?» rispose il Genio, aprendo la porta con un sorriso che tradiva un piacere sottile, simile a quello di un gatto che ha catturato il topo. «Quindi, andrà per prima.»
Allyson sospirò rassegnata. «Va bene, farò come dice.»
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