Numeri

Eugene

Elisabeth, con una grazia calcolata, scivolò fuori dal letto, il suo corpo nudo avvolto in un'atmosfera di luce soffusa. La sua presenza catturò l'attenzione di Eugene, che si stava rivestendo immerso nel suo rituale ordinato.

La guardò muoversi silenziosa e non poté fare a meno di sorridere.

«Sei sempre così meticoloso?» scherzò lei con un sorriso che nascondeva un lieve rimprovero.

«Mi piace che tutto sia perfetto,» ammise il giovane allacciandosi i polsini della camicia uno dopo l'altro, con un senso di controllo nei movimenti.

La donna si coprì con una vestaglia trasparente; il tessuto leggero si posava sulla sua pelle scivolando come un velo di seta.

«Non farlo, sei splendida,» mormorò lui, distratto da un bottone del gilet.

Elisabeth si avvicinò con un finto broncio aiutandolo a sistemare la cravatta e la giacca.

«Sei frettoloso... devo sempre aspettare che tu sia libero,» lo rimproverò con una finta fragilità.

«Scusami, ma Paul è già arrivato.» La risposta dell'uomo era un misto di scuse e urgenza.

«La tua scorta inizia a ingelosirmi, ti trascina lontano da me.» ribadì Elisabeth con un pizzico di irritazione.

«Betty, conosci il mio lavoro.»

«Lo so, sei lo scapolo più giovane e ambìto del cabinet office di Whitehall,» rispose lei con un malcelato orgoglio che lo infastidì.

Eugene sospirò cercando di alleggerire la tensione mentre controllava le tasche. Il cellulare era sul tavolino sotto la finestra; lo prese e osservò il prato illuminato dal chiarore serale. Le aiuole creavano all'esterno un paesaggio armonioso.

Villa Austin, a pochi isolati da Londra, univa uno stile moderno e classico con un abbraccio architettonico che rifletteva la sua stessa vita, intrisa di prestigio ma priva di calore.

Conosceva Elisabeth da tempo, era una donna di classe, abituata al lusso, figlia di un membro illustre del parlamento inglese.

«È stata una bella serata,» affermò distogliendo il pensiero e infilando l'iPhone in tasca.

«Soltanto bella?» lo interrogò lei con un sorriso ironico.

«Direi movimentata e piacevole, ed è un complimento mia cara.»

«Giusto,» replicò stringendosi nella vestaglia trasparente. «Tra le lenzuola, perdi la tua serietà, ragazzaccio.»

Eugene finì di chiudere la giacca blu navy, controllò portafoglio e chiavi, cercando di mantenere l'attenzione lontana dai sentimenti che iniziavano a confonderlo.

«Ci sentiamo domani sera?» si informò Elisabeth con gli occhi ammiccanti.

«Mi dispiace, ma ho un impegno di lavoro,» chiarì lui evitando di incrociare il suo sguardo.

«D'accordo,» brontolò senza insistere. «Mi consolerò con le mie amiche.»

L'uomo si avviò verso l'uscita e lei lo accompagnò silenziosa. Prima di lasciarlo andare, lo sfiorò con un bacio sulla guancia, consapevole che non amava le smancerie. «Spero di rivederti presto, caro diplomatico,» soffiò, con tono malizioso.

«Anch'io,» rispose addolcito da un raro sorriso. «Dormi bene Betty.»

Socchiuse la porta cercando di non fare rumore; non gli piaceva restare dopo aver fatto sesso. Preferiva andarsene senza condividere un'intimità che non riusciva ancora a sentire.

Si morse il labbro sperando di cambiare opinione e percorse i cinquanta passi del corridoio. Alle pareti, rivestite di legno scuro, facevano bella mostra costosi dipinti d'epoca, illuminati da applique di vetro lucido. Tappeti damascati coprivano i pavimenti di marmo bianco.

Scese i quarantasei gradini di una maestosa scalinata con il corrimano intarsiato e si incrociò con Reginald, il maggiordomo di villa Austin.

«Buona notte signore.» Lo salutò con un mezzo inchino.

Eugene sospirò per quella attenzione che gli metteva ansia. Con il tempo, per il lavoro che esercitava, si era abituato a essere ossequiato, ma a volte gli sarebbe piaciuto scomparire nel nulla. Ridacchiò tra sé e abbassò la testa per non farsi scorgere dagli illustri genitori della sua amica che, con molta probabilità, a quell'ora si trovavano nell'ampia veranda che dava sul sentiero esterno.

Al momento non si sentiva di ufficializzare il loro rapporto, anche se lei insisteva.

Per fortuna il Bmw nero lo attendeva alla fine del marciapiede di porfido: le pietre erano sistemate a gruppi di quattro, facile per la sua mente matematica calcolarne la sequenza.

Respirò l'aria tersa della sera mentre contava i passi che lo separavano dall'auto diplomatica che lo avrebbe riaccompagnato a casa.

Paul Warton, l'agente della security, vestito scuro e auricolare, scese e gli aprì lo sportello.

«Serata piacevole, signor Gresham?»

«Quando vuole Elisabeth è una buona compagnia,» puntualizzò garbato.

Paul sorrise e salì impartendo ordini a Mark, l'autista, che appena varcato il cancello, inserì le light blu per evitare di imbottigliarsi nel traffico londinese del fine settimana.

Si accomodò meglio nel sedile posteriore e osservò la strada, pensando ai chilometri che lo separavano dalla sua villetta.

Una leggera stanchezza lo avvolse, chiuse gli occhi, appoggiandosi allo schienale imbottito. Era stata una giornata intensa, come tutte del resto.

Ritornò con il pensiero ai tempi in cui era solo un bambino che si divertiva nell'enorme magione di famiglia.

**********

«Sta fermo, Eugene, o tua madre ti sgriderà.» La giovane governante Norah lo trascinava con delicatezza mentre lui la tirava indietro, il viso contratto in una smorfia di protesta.

«Non voglio parlarle,» sibilò lui contando con le dita appoggiate al mento, ripetendo il gesto allo sfinimento.

«Basta con questi numeri! Lo sai che non vogliono,» rispose Norah, voltandosi e dandogli un leggero schiaffetto sulla mano.

«Ma sono ovunque, sei tu che non li vedi.» Sbuffò arrabbiato.

«Sei grande per queste cose. Va' dalla mamma che ti sta aspettando.» Lo sgridò decisa con un tono fermo ma affettuoso.

Poco più avanti, Eugene notò la madre, elegante e longilinea, che si affaccendava nel roseto della villa, immersa in un parco alberato e rigoglioso. Lady Emily passava il suo tempo a curare le rose dopo aver presenziato a qualche ricevimento a Buckingham Palace. Il ragazzino respirò il profumo dolce e avvolgente dei fiori che si mescolava con l'aria fresca del mattino.

Una mura avvolta dall'edera circondava la proprietà. La vecchia pietra, coperta di verde, creava una cortina naturale che proteggeva la privacy della casata Whitemore.

«Norah, mi vuole mandare via! Ho sentito che parlava con papà di un posto che si chiama college.» Piagnucolò lui con gli occhi lucidi.

«Calmati,» disse lei stringendogli il polso con affetto. «Stai tranquillo. Sarà una nuova esperienza.»

Lui la trattenne, facendola voltare.

«Mamma dice che sono strano. Tutti me lo dicono!» alzò lo sguardo cercando un segno di conforto nel volto della donna.

Norah si chinò per essere alla sua altezza, non curandosi dell'erba umida sotto le ginocchia. «Non è vero, sei solo particolare,» gli sorrise e gli sistemò il colletto della camicia azzurra che gli piaceva tanto indossare.

«Particolare è uguale a dire strano?» esclamò il ragazzino al limite del pianto.

Norah gli accarezzò i capelli ribelli. «Anche se andassi in quella scuola, Hug, avresti un computer tutto tuo. Potresti esercitarti con le cifre e imparare cose nuove,» disse con affetto, usando il suo diminutivo.

«Ne avrò uno mio? E potrò giocare con i numeri? Non mi sgrideranno se a volte... se io...» balbettò sperando in una risposta rassicurante.

«Imparerai a controllarli, vedrai che starai meglio. I tuoi genitori saranno fieri di te.» Intervenne la governante per consolarlo.

«Sono sicuro che diventerò triste. Anche mia sorella Mytea mi odia, non vedrò più nemmeno mio fratello Lyndon, che mi aiuta sempre.» Sbuffò, volgendo lo sguardo alla distesa verde dove amava correre.

«Verranno a trovarti spesso, e poi, in un attimo, sarai a casa per le vacanze.»

Eugene ci pensò un po', allargò le dita e smise di contare.

«Norah, non voglio.» si lamentò aggrappandosi alla donna. «Come farò ad arrivare fino al ruscello?»

La governante si schiarì la voce. «Hug, sei un ometto adesso, devi essere coraggioso.»

Si sporse, lo baciò sulla fronte e si rialzò.

«Senti Hug, ti prometto che io ci sarò sempre per te. Presto avrò un'automobile tutta mia e verrò al college a trovarti, mi racconterai quello che hai imparato.»

Lui sospirò, le strinse forte la mano, perché sapeva che non lo avrebbe abbandonato.

**********

L'auto decelerò e lui riaprì gli occhi.

«Signore, tutto bene? Siamo a villa Camelia.» Warton lo osservò preoccupato.

«Sì, grazie Paul.»

Scese con la solita calma, ed entrò nel vialetto sotto lo sguardo attento dell'uomo della security. Il giardino che precedeva l'ingresso era abbellito da una siepe che delimitava un piccolo laghetto artificiale.

Raggiunse il porticato e, davanti alla porta di legno massiccio, disinserì l'allarme. La villetta era il luogo dove poteva trovare pace finito il lavoro alla Governance.

Entrò in casa, e Paul se ne andò con un cenno della mano.

All'interno le luci soffuse erano il segnale che Norah, la governante, era andata a dormire presto. La sua vicinanza e fedeltà lo stupivano ancora dopo tutti quegli anni, e lui la considerava la sua famiglia.

Eugene cercò di non fare rumore per non allarmarla. La giornata in ufficio era stata, al solito, estenuante, anche se nulla in confronto alla fatica di dover soddisfare le voglie di Elisabeth.

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