UN DESTINO ILLOGICO E PERVERSO (SECONDA PARTE)

FLAVIO

Oggi, sopra un volo Londra-Milano


L'aereo sta per decollare. Spengo il telefono dopo aver letto l'ultima e-mail inviata dal professor Milligan. Mi chiede di ripensarci, di prendere del tempo, di vagliare con attenzione la sua proposta. Lascio tutto il lavoro di un anno qui a Londra, il mio dottorato si è rivelato un'esperienza migliore di quanto mi aspettassi. Eppure, non mi basta più. La gloria conseguente agli sviluppi delle mie ricerche, improvvisamente, non è più così importante. Il fatto di aver visto pubblicare il mio studio su una delle più prestigiose riviste di genetica, tutto d'un tratto, mi sembra una soddisfazione lavorativa a metà. Non si può rincorrere la felicità solo attraverso la carriera, non si può essere davvero realizzati senza condividere certe gioie con qualcun altro, e non parlo di colleghi o amici.

Il punto è che ci ho impiegato davvero molto tempo per capirlo.

Il tempo è ladro di parole trattenute, di abbracci negati e di amori lasciati andare troppo facilmente.

«Ciao.» La vocina esile di un bambino mi costringe a non indugiare sul senso dello scorrere del tempo. Sulle lancette dell'orologio che, implacabili, mi ricordano quanto io sia stato sempre troppo concentrato su me stesso.

«Ciao!»

«Questa è Saetta McQueen, conosci Cars?» chiede muovendomi davanti al viso una macchinina rossa.

Fingo di pensarci su un attimo, poi rispondo: «Sì che la conosco. Anche al mio nipotino piace molto».

«E come si chiama il tuo nipotino?»

«Filippo».

Un sorriso largo gli si apre sul suo viso mostrando qualche buchino tra un dente e l'altro. «Anche io mi chiamo Filippo» dice con aria fiera. «Io e la mia mamma stiamo andando a casa dal mio papà, sai?»

La donna che siede accanto a questo adorabile chiacchierone si sporge verso di me chiedendomi scusa per l'esuberanza del figlio.

Qualche istante dopo l'aereo prende quota e Filippo torna a guardarmi.

«Tu dove vai?» domanda.

«Torno a casa mia...»

Tecnicamente io non ho più una casa a Milano, da fonti certe ho saputo che, diversi mesi fa, Giuditta ha lasciato quello che un tempo era il nostro appartamento. La mia automobile e la mia moto sono momentaneamente parcheggiate nel garage del mio amico Carlo e, solo ora, inizio a chiedermi se forse non sarà il caso di cercarmi un albergo non appena arriverò a Milano.

«Da tuo figlio?» Filippo ha sgranato gli occhioni in modo teatrale.

«No. Non ho ancora figli.»

«Allora vai dalla tua fidanzata?»

Fidanzata, provo a immaginare che cosa significhi nella testa di un bambino il termine fidanzata.

«Non ho neppure una fidanzata»

Spalanca la bocca stupito. Deve esserci rimasto male, probabilmente.

«E allora da chi vai?»

«Filippo, smettila! Lascia stare il signore» interviene la mamma porgendogli un lettore dvd portatile.

Sento bussarmi sul braccio.

«Signore, io guardo Cars, se ti annoi puoi guardarlo con me.»

Soffoco un sorriso. «Grazie, ma credo che riposerò un po'.»

«Se cambi idea dimmelo, però.»

Alzo il pollice in segno di approvazione, poi mi rilasso spostando lo sguardo oltre il finestrino, oltre il bianco delle nuvole e l'azzurro intenso del cielo.

Se potessi fermare il tempo e premere il tasto di riavvolgimento del nastro, credo che lo farei. Sono due mesi che non penso ad altro, da quando mio fratello mi ha incastrato in una conversazione alla quale non avrei mai partecipato se non per costrizione.

«Signore...» L'indice di Filippo pigia insistentemente sul mio braccio. Apro un occhio e lo sorprendo che sta attendendo pazientemente una mia reazione; quando volgo lo sguardo sopra il sedile accanto al suo, mi rendo conto che la madre si è addormentata. Controllo l'orologio, manca meno di un quarto d'ora all'arrivo.

«Dimmi Filippo.»

«Io ho una zia che si chiama Elena, papà dice che è sempre arrabbiata perché non ha un fidanzato. Perché non ti fidanzi tu con lei?»

«Non penso che potrei piacere a tua zia...» sussurro all'orecchio del bambino.

Filippo resta a pensarci su qualche minuto, probabilmente starà cercando altre domande da farmi.

Quando l'aereo raggiunge l'aeroporto di Linate mi sembra già di essere a casa. Il ragazzino mi saluta con un forte abbraccio, io gli passo una mano sulla nuca spettinandogli i capelli biondi. Raggiungo la postazione dei taxi, accendo il telefono e cerco in rubrica il nome di Gaia, con la speranza che non abbia cambiato numero.

Partono un paio di squilli, poi la sua voce: «Pronto».

«Ciao Gaia, sono Flavio» dico tutto d'un fiato.

Sento un gridolino di gioia attraversare il cellulare e perforarmi il timpano. Allontano il telefono dall'orecchio mentre lei continua: «Ciao, Flavio! Che sorpresa fantastica! Come stai?».

«Bene. Tu?»

«Benissimo, a parte un sonno mai provato prima d'ora...»

«Sei diventata narcolettica per caso?»

«Direi che la narcolessia è l'effetto collaterale della maternità.»

Questa notizia mi sorprende.

«Hai un bimbo?»

«Una bimba, Matilde.»

«Congratulazioni!» esclamo sinceramente felice per lei.

«Grazie. A cosa devo questa telefonata a sorpresa?»

«Avrei bisogno di parlarti.»

«Ti offro il pranzo, non garantisco la qualità delle portate, ma ti prometto che ce la metterò tutta! Donato sarà felice di conoscerti, visto che non c'è mai stata occasione...»

Accetto di buon grado la proposta di Gaia e non appena ricevo il suo messaggio con l'indirizzo di casa, salgo sul primo taxi e la raggiungo.

L'amore è come un cespuglio di edera che sia avviluppa all'anima, rubandone la linfa vitale, nutrendosi di momenti, di ricordi, di passione. Quell'edera, a volte, è più resistente di quanto ci si aspetti, si provano a tagliare via i rami dall'anima ma essi ricrescono floridi, stringono più forte e ti ricordano che per amore può mancare l'aria e si può smettere di respirare.

Io quell'edera robusta la sento dentro, che risale nella mente, si aggrappa prepotente ai ricordi e stringe forte sopra le emozioni. Ho provato a reciderla, ho cercato di tagliarla alla base sperando che morisse. Invece no. È cresciuta di nuovo, più rigogliosa di prima.

Salgo sul taxi e comunico l'indirizzo di Gaia al conducente, provo a rilassarmi lasciandomi ipnotizzare dal traffico di Milano. L'aria è densa e pesante, più pesante che a Londra, qui c'è una cappa di calore che sembra rendere difficile respirare; ormai mi ero abituato alle piogge londinesi, all'umidità perenne che mi entrava nelle ossa, al vento che imponeva repentini cambiamenti meteorologici, e a quell'estate che, poi, tanto estate non era mai.


***


Il taxi si ferma davanti a un palazzo storico nel quartiere Brera, una struttura dall'architettura imponente, con il portone in stile barocco e i balconi dalle linee curve e l'andamento sinuoso. Pago la corsa e scendo trascinando il mio bagaglio, identifico subito il cognome di Gaia e premo deciso il pulsante panciuto e dorato. Quando raggiungo il piano del suo appartamento, me la ritrovo sull'uscio con in braccio una bambina che sembra un bambolotto di porcellana. Restiamo a guardarci per un secondo, entrambi stranamente imbarazzati, mentre la bimba gorgheggia come se volesse dire la sua.

«Ciao, Flavio» dice Gaia con voce morbida, incredibilmente più flautata rispetto al tono frizzante che da sempre la caratterizza. Si sposta di lato invitandomi a entrare con un cenno della testa.

«Ciao, Gaia.»

Se le cose fossero andate diversamente, di certo, sarei riuscito ad abbracciarla e a schioccarle un fraterno bacio sulla guancia. Nel corso degli anni mi sono affezionato molto a lei e al suo sincero affetto verso Giuditta.

Ecco, sto ripensando a Giù, ormai in maniera costante da circa quarantotto ore, e quando lo faccio una scarica elettrica mi colpisce nel petto, costringendo il mio muscolo cardiaco a pompare più energicamente. Questo sta accadendo perché so che l'incontro sarà imminente, ormai è questione di ore. Solo di ore.

Seguo Gaia in soggiorno, curiosando con interesse l'architettura interna di un palazzo antico e costoso a livelli indecenti. Mi accomodo sopra un divano dalla pelle color cuoio, Gaia mi esamina perplessa mentre si siede sopra una seggiola di midollino e siede la bimba sopra le gambe. Inizia a dondolarla in silenzio mimando con la lingua il galoppo di un cavallo. Non dice nulla, ma non smette di fissarmi con i suoi occhi scuri. So che sta aspettando che io dica qualcosa e so anche che muore dalla curiosità di capire il perché della mia necessità di un colloquio con lei.

Neanche io so bene con quale coraggio sono riuscito a telefonarle, ma ho bisogno di sapere, ho bisogno di prepararmi mentalmente prima di affrontare i miei scheletri nell'armadio.

Mi alzo e vado verso lei e, accovacciandomi sul pavimento, mi avvicino alla bimba.

Dio, quant'è bella.

È piccola ma ha superato quella fase che rende i lattanti fragili solo a vederli.

«Lei è Matilde» mi dice.

«È un capolavoro» mormoro estasiato da tanta tenerezza.

«Dici bene, è un capolavoro. È il mio più grande capolavoro.»

«Quanto ha?»

«Quasi cinque mesi.»

Torno sul divano, mi concedo un attimo per raccogliere i pensieri confusi, poi inizio a parlare: «Sono qui per... Giuditta».

Un sorriso sghembo si apre sul viso di Gaia, sposta gli occhi da Matilde a me.

«Lo so che sei qui per Giuditta.»

La bimba inizia a piangere, Gaia si alza, viene verso di me e me la porge.

Sgrano gli occhi terrorizzato. «Cosa? No, Gaia, non mi sembra il caso.»

Alza un sopracciglio incredula, so per certo che vorrebbe mettersi a ridere. «Flavio, è una bambina, non morde mica! Devo prepararle il latte ma se la metto nella culla piangerà più forte.»

Apro le braccia e ho l'impressione di tremare un po'. Non ho mai tenuto una bambina tanto piccola. Sento il peso leggero posarsi sugli avambracci piegati a formare un nido, Matilde si muove un po', piega la bocca disegnando strane smorfie e mi guarda spalancando gli occhi. Rimango impalato in questa posizione, con gli arti praticamente paralizzati.

«Puoi rilassarti, Flavio. Non le farai del male se ricominci a respirare normalmente» mi schernisce Gaia dirigendosi in cucina.

«Dovevi vederla appena nata! Pesava due chili e mezzo e ogni volta che la cambiavo avevo paura di spezzarle le gambine. Adesso è decisamente grande

«Come sta Giù?» Cambio discorso approfittando del momento di armonia che si è creato tra noi.

Gaia afferra un biberon e lo riempie di acqua, poi lo inserisce nel microonde. Si volta e torna seria, ora non c'è più il sorriso divertito di prima a illuminarle il volto. Il fugace attimo di affiatamento sembra essersi dissolto nel nulla.

«Bene.»

L'incertezza che le leggo in viso mi allarma. Sembra che voglia aggiungere qualcos'altro, ma non lo fa.

«Ha cambiato quartiere? Dove abita?»

Il microonde emette un bip. Gaia mi dà di nuovo le spalle, apre una scatola di latte in polvere e ne versa un po' nel biberon, poi lo chiude e comincia ad agitarlo. Si siede accanto a me, rovescia qualche goccia del liquido lattiginoso su un lato della mano e prende Matilde dalle mie braccia.

«Non vive più a Milano» pronuncia lapidaria.

«E dove?» chiedo, mal celando lo stato di ansia che sento farsi strada dentro di me.

Lei si volta, mentre tiene ben salda la presa sul biberon, Matilde si fionda sulla tettarella in caucciù e inizia a succhiare avidamente.

«Perché lo vuoi sapere, Flavio?»

«Perché la devo vedere, le devo parlare. Io devo capire.»

Gaia mi scruta severa. Mi sta studiando. Mi sta mettendo alla prova come solo le donne sanno fare.

«Cosa, esattamente, devi capire?»

«Il pensiero di Giuditta mi assilla, io ci ho provato a dimenticarla, io ho provato a odiarla con tutta l'anima...»

«Ma?»

«Col tempo l'odio si è incrinato. Ho avuto modo di riflettere, di riflettere in maniera diversa da come ho sempre riflettuto e... Giuditta mi ha aperto una falla dentro l'anima.»

Forse le sembro un tantino patetico, ma è vero, Giuditta è stata un terremoto che ha demolito molte delle mie convinzioni, nessuno c'era riuscito prima. Forse è vero quello che descrivono certe romantiche e sdolcinate storielle rosa: l'amore è più forte di tutto, più forte del rancore, più forte del tempo che passa, più forte della distanza che separa. Forse il mio è amore allo stato puro.

Gaia stacca la tettarella dalla bocca della piccola, posa il biberon a terra e comincia a camminare per la stanza massaggiandole piano la schiena.

«Ti rendi conto che la tua assenza è stata lunga quattordici mesi? Cosa pretendi ora? Cosa vorresti fare?» La sua voce è un suono sottile e imbottito di provocazioni. Cerca di tirare la corda per vedere quanto io sia disposto a resistere.

E se quel tono, invece, volesse invogliarmi a cambiare idea, a demordere?

Ho la testa in un frullatore.

«Vorrei parlarle. Voglio vedere che effetto ha su di me la sua presenza e che effetto ha su di lei la mia.»

Posa la bimba nella culla, Matilde fissa il soffitto e gorgheggia divertita.

«Non è un quiz a premi questo, Flavio. Non è un gioco per vedere fino a che punto sei disposto a spingerti. Giuditta ti amava davvero. Fossi stata in lei non ti avrei detto nulla, avrei custodito dentro di me lo sbaglio commesso. Lei, però, si sentiva in torto, si sentiva sporca e ha preferito rinunciare a te piuttosto che mentirti. Dovevi apprezzarlo, Flavio. Dovevi apprezzarlo molto tempo fa. Dovevi venire a riprendertela, cazzo! Avresti dovuto perdonarla e non fartela scappare. Lei ti amava e tanto, talmente tanto da sentire il bisogno di lasciare questo posto. Abbandonare i suoi amici, i familiari, la sua vita di sempre. Lo ha fatto per sopravvivere, lo ha fatto per rinascere dalle conseguenze di quel maledetto tradimento, che poi è stato un tradimento a metà. Un tradimento non consumato.»

Il rumore di una chiave nella serratura ci costringe a dirottare l'attenzione verso la porta d'entrata. Un uomo della mia età oltrepassa la soglia e mi sorride amichevolmente, si avvicina, mi porge la mano.

«Ciao, molto piacere. Flavio, giusto?»

Ricambio energicamente la stretta. «Piacere mio. Sì, sono Flavio.»

Quando ho saputo della storia andata a puttane tra Gaia e Tommaso sono rimasto sconvolto, ero arrivato alla conclusione che nell'aria di Milano si fosse diffuso uno strano morbo. Il morbo dell'infedeltà e della menzogna. Non avrei dato un centesimo alla coppia Donato-Gaia, ora, invece, devo ricredermi mentre li vedo baciarsi teneramente e posare gli occhi sopra quel piccolo miracolo che dorme beato.

Non so come riprendere il discorso interrotto poco fa, non so da dove ripartire. Poi, lui, forse avvertendo l'imbarazzante silenzio che aleggia nella stanza, ci annuncia l'intenzione di cucinare personalmente, per scongiurare il digiuno.

«Gaia non è molto pratica ai fornelli e voi avrete più di qualcosa da dirvi» dice alla fine.

Gaia viene a sedersi accanto a me, posa la sua mano sopra le mie.

«Non volevo essere dura prima, ma devi accettare il fatto che nella vita si può sbagliare e, soprattutto, devi riconoscere di aver sbagliato anche tu, in parte.»

«Questo non giustifica un tradimento» rispondo sprezzante. Adesso vuol farmi credere che Giuditta ha sofferto più di me?

Gaia non sa come ci si sente ad accettare un tradimento, Gaia non conosce la sensazione di frustrazione e di vuoto che ti perseguita non appena comprendi che la tua donna, anche solo per un attimo, è appartenuta a un altro. Un altro che non ha potuto offrirle nulla, a parte un bacio passionale o una carezza o uno schifoso rapporto sessuale. Cos'altro è in grado di regalare un cazzo di miserabile amante, cosa?

Donato viene verso di noi con due bicchieri di vino bianco stretti nelle mani, afferro il freddo calice di cristallo che mi porge e mimo un cin verso lui e Gaia.

«Flavio, non dare troppo peso alla durezza di Gaia. È di parte e vuole difendere la sua amica» mormora cercando di mitigare la tensione creatasi.

«Non è vero!» ribatte lei. «E poi non dire stronzate! Anche io ho tradito mio marito per te... ed è stato l'errore più bello che potessi commettere. In ogni caso sto cercando di far capire a Flavio che non è di certo l'unico ad aver sofferto, a non aver dormito la notte, ad aver sentito la necessità di rifarsi una vita daccapo.»

Mi guarda e ho la sensazione che le sue pupille mi stiano fulminando. Avvicina il calice alle labbra e beve un lungo sorso di vino, poi si alza e comincia ad apparecchiare. Io me ne resto con un braccio penzoloni a ragionare sulla paura che mi schiaccia quando penso all'eventualità che Giuditta possa davvero essersi rifatta una vita, mentre io ero a Londra a curarmi dal mal d'amore tra le braccia di un'altra donna.

«Conosci la leggenda del filo rosso, Flavio?»

Alzo gli occhi dal pavimento e devio lo sguardo su Gaia.

«Ancora con questa stronzata?» la schernisce Donato mentre mescola con una paletta il soffritto nella padella.

Lei si gira, stringe gli occhi come per sfidarlo e sbatte in aria la tovaglia nel tentativo di aprire la stoffa accuratamente piegata.

«Non è una stronzata. È una leggenda popolare cinese, è romantica e, soprattutto, è una metafora per dare un senso ai problemi che possono incontrare due persone che si amano.»

Vorrei mettermi a ridere anche io, non sono un cultore delle leggende e ho sempre analizzato i rapporti d'amore seguendo la razionalità, evitando contaminazioni di natura antropologica. Credo che se ora provassi a schernire Gaia, sfoderando le mie rigorose teorie, mi metterebbe le mani addosso. Le donne sono suscettibili alle prese in giro, e le donne, che hanno partorito da poco e hanno un assetto ormonale ancora instabile, sono tendenzialmente le più pericolose di tutte.

«Gli uomini e le donne nascono con un filo rosso legato alle caviglie e quel filo serve per unire indissolubilmente due anime gemelle. Questo filo non si spezza mai, è resistente a tutti i possibili ostacoli come la lontananza, la differenza di età, le differenze sociali o economiche... insomma questo filo, Flavio, non si può tagliare, anche se provi a farlo.» Mi lancia uno sguardo ferreo che non accetta repliche. Posa ordinatamente le posate sopra i tovaglioli, poi ricomincia a parlare: «Il filo, però, ha un solo difetto: è molto lungo, e questo causa dei problemi, perché spesso si aggroviglia, crea intrecci strani e anche fastidiosi nodi. Quei nodi, quei grovigli e quegli intrecci rappresentano gli ostacoli della coppia. Ogni nodo che verrà districato, ogni groviglio che verrà sciolto e ogni intreccio che verrà sistemato servirà a rafforzare il legame».

«Flavio, non farci caso» si intromette Donato, portando ripetutamente l'indice sulla tempia e battendolo più volte nello stesso punto. «Se avrai dei figli preparati ai deliri post-partum.»

Gaia gli lancia lo strofinaccio della cucina addosso. Lui lo prende al volo e si butta su di lei, afferrandola per la vita e trascinandola a sé. Poi la bacia, e io mi sento nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Mi alzo e vado verso la finestra fingendo di scrutare il panorama. Quale panorama, poi? Intorno a questo edificio ci sono solo muri di palazzi alti e ingrigiti dallo smog, strade, qualche banner pubblicitario e file di macchine parcheggiate.

Pochi minuti dopo viene servito il pranzo, Gaia si astiene sapientemente dal tornare sul discorso riguardante Giuditta e me, e io mi ritrovo a discutere con Donato di politica e sanità locale.

Verso le tre del pomeriggio decido che è il momento di andare via.

«Gaia, puoi dirmi dove trovare Giuditta, per favore?» la supplico mentre mi accingo a raggiungere la porta d'ingresso.

«Voglio bene a Giuditta e, purtroppo, voglio bene anche a te.» Mi sorride abbandonando ogni ostilità. «Ma prima di essere una tua alleata, io sono un'alleata di Giuditta. Ragion per cui dovrai scioglierteli da solo i nodi di cui ti parlavo. Posso darti solo un piccolo vantaggio...» Cammina verso il bancone della cucina, afferra un post-it, una penna e scarabocchia qualcosa.

«Tieni, questo è l'indirizzo del policlinico dove lavora. Va' Flavio, va' a riprendertela.»

Butto un occhio sull'informazione scritta in un corsivo ordinato e comprensibile, per poco non mi prende un accidente. Spalanco gli occhi incredulo e alzo la testa intercettando lo sguardo soddisfatto di Gaia.

«Hai anche un indirizzo di casa?»

«Certo che sì, ma non te lo darò.»

«Un'ultima cosa... sai se si è rifatta una vita? Sentimentale, intendo.»

Scuote la testa. «Mi dispiace, questo non mi è permesso dirtelo. Spero potrai chiederlo a lei. Se hai problemi chiamami, ti aiuterò come posso. Ah, ti avverto: non provare a tornare qui senza Giuditta, chiaro?»

Questa volta l'abbraccio.

«Grazie, Gaia, sei un'amica.»

Chiudo la porta dietro di me. Prendo il telefono e cerco in rubrica il nome del mio amico Carlo.

«Pronto» mi risponde quasi subito.

«Ehi Carlo, sono Flavio!»

«Ciao! E questo numero?»

«È la scheda italiana. Sono tornato oggi a Milano. Senti, posso venire a riprendermi la moto?»


***


Lascio gran parte dei miei bagagli a casa di Carlo e porto con me il minimo indispensabile per una sosta in Sicilia della durata ancora tutta da definire.

Due ore dopo sono a cavallo della mia BMW grigia a macinare chilometri sull'autostrada; il viaggio sarà lungo e non sarà solo fisico, ma soprattutto mentale. Dovrò accorciare distanze chilometriche e anche emotive, dovrò prepararmi ad affrontare quel lungo digiuno dall'amore che mi sta conducendo di nuovo verso di lei, verso Giuditta.

Dodici ore di viaggio fino al porto di Villa San Giovanni, poi salirò sul traghetto e quando arriverò a destinazione sarà già domani.


***


Non appena il mio sguardo si posa sull'ampia insenatura a forma di falce verso la quale è diretto il traghetto, sento un fremito raggiungermi. La nottata di viaggio è stata lunga e la strada sembrava non finire mai, ho consumato chilometri solo per rivederla e ora, che la lontananza tra me e Giuditta sta diminuendo, ho paura. Paura che si sia ricostruita una vita. Paura che il lungo anno di silenzio tra noi abbia congelato definitivamente ogni cosa. Paura che io possa vederla in compagnia di un altro uomo. Paura che possa odiarmi. Ecco, forse, quest'ultimo timore è in assoluto il più ingestibile di tutti.

E poi c'è un'altra cosa. Se fossi io quello che ha preso un abbaglio? Se la mia frenesia non fosse altro che un incomprensibile scherzo della mente?

Io l'ho odiata nei mesi successivi alla fine della nostra relazione. Io l'ho odiata quel ventidue luglio che sarebbe stata la data del nostro matrimonio. Ma terminata la fase dell'odio, ho avvertito un vuoto estremo, mentre io ero convinto che non avrei provato altro che indifferenza. Questo stato d'animo mi ha destabilizzato, rendendomi irrequieto e nostalgico. Credevo fosse impossibile, la mia inflessibilità non ha mai risparmiato niente a nessuno. Quando odio, io odio in maniera viscerale.

La foschia si appoggia lieve sulla superficie del mare e sembra che la stele della Madonnina che si affaccia sul porto fluttui sopra le nuvole; mi godo l'aria salmastre mentre il traghetto effettua le ultime manovre di attracco. Mezz'ora dopo sono di nuovo a cavallo della mia moto, costeggiando il litorale siciliano, sorpassando una dopo l'altra tutte le macchine in autostrada. Taglio in due il vento con il corpo, piego di più il busto in avanti e accelero ancora. Quando sposto lo sguardo sulla mia destra vedo il mare luccicante, volgendolo sul lato opposto scorgo il verde delle collinette alternarsi a zone più brulle, dove il sole non ha risparmiato nulla.

Quando raggiungo il casello di Cefalù sento una morsa stringermi sullo stomaco. Seguo le indicazioni per uno degli alberghi proposti dalle insegne sulle strade, ho bisogno di fare una doccia e rendermi presentabile.

«Buongiorno», cinguetta la donna dietro la reception non appena mi vede oltrepassare l'entrata dell'albergo.

Sfilo le bretelle dello zaino e lo lascio cadere a terra.

«Salve.»

La donna mi guarda qualche istante in più del dovuto, forse incuriosita dal mio aspetto sbattuto.

Le sorrido cortesemente. «È possibile avere una stanza?»

Mi guarda languida, afferra il mouse e sposta l'attenzione sul computer.

«Singola?» domanda con il caratteristico accento siciliano che enfatizza le vocali aperte.

«No. Doppia, se possibile.»

Un sorrisino sghembo si apre sul suo viso sottile e allungato, mostrando una dentatura fin troppo bianca.

«Ne abbiamo una che si è liberata proprio questa mattina. Può occuparla sin da subito se desidera, ha l'aria di uno che ha fatto un viaggio faticoso.»

Sfoggio il mio sorriso più cordiale, non avrei sopportato l'idea di dover aspettare troppo per avere il piacere di darmi una rinfrescata.

«Perfetto» rispondo.

«Posso avere i suoi documenti?»

Tiro giù la zip del giubbino imbottito e infilo una mano nella tasca interna estraendo la carta d'identità.

«Quante notti si fermerà?»

Scuoto la testa. «Non lo so ancora.»

«Be', se ha fatto un viaggio tanto lungo e vuole visitare il nostro splendido paese le converrà prendersela comoda e gustarsi il meraviglioso mare che offre la Sicilia» continua con fare accomodante mentre indugia insistentemente con lo sguardo sulla mia figura. Credo si stia chiedendo come diavolo faccia a tollerare il mio abbigliamento da motociclista.

A essere sincero, ora me lo sto domandando anche io.

Le sorrido, evitando di dilungarmi in una conversazione che non ho davvero voglia di affrontare; mi porge il documento di identità e la chiave magnetica della stanza, dopodiché mi avvio verso l'ascensore.

La camera si trova al secondo piano, ha le pareti tinteggiate di azzurro e la finestra affaccia sul mare. Freneticamente mi libero della tuta e abbandono il corpo stanco sul letto, concedendomi qualche minuto per chiudere gli occhi; quando li riapro ho la sensazione di essermi preso una sbronza terribile. Con uno sforzo sovrumano mi metto in piedi, vincendo il desiderio di restarmene al letto e mi butto sotto la doccia.

Mi sono raccontato un sacco di menzogne in questo lungo anno. Se avessi avuto la possibilità di cancellare la memoria, lo avrei fatto. Avrei voluto dimenticare e smettere di soffrire sotto quella maledetta corazza di acciaio che mi ero costruito per non crollare.

Anche gli uomini impazziscono per amore. Forse gli uomini, più delle donne. Specie gli uomini come me, che vivono ostentando un'intransigenza fuori dal comune.


***


Attraverso la passerella centrale dell'accesso al policlinico: un'imponente struttura a vetri dall'aria più moderna di quanto mi aspettassi.

All'Info point non c'è nessuno; mi appoggio al bancone sbuffando scocciato, qualche minuto dopo ecco che si avvicina una signora di mezz'età, con un caffè fumante in mano.

«Desidera?»

Un miracolo, vorrei dirle.

«Buongiorno. Ho bisogno di sapere in quale reparto lavora la dottoressa Giuditta Piras.»

La tipa mi guarda storto, sembra seccata dalla mia richiesta. Con una lentezza che si addirebbe a un bradipo sposta gli occhi sul display, inforca un paio di occhiali e comincia a digitare sulla tastiera.

La mia irrequietezza sale.

«Dovrebbe trovarla in ambulatorio. Stanza quarantatré» dice pigramente.

«Scusi, non sono pratico... può indicarmi il...» vengo interrotto. E io detesto essere interrotto.

«Corridoio a destra, segua il percorso blu indicato sulla parete.»

Seguo il percorso indicatomi e senza il minimo problema raggiungo gli ambulatori, mentre lo stato d'ansia aumenta a dismisura. Ad attendere il proprio turno davanti alla stanza quarantatré ci sono un paio di pazienti.

Potrei vederla in qualsiasi istante, anche adesso. E solo ora mi chiedo che effetto potrebbe farle la mia presenza; ho consumato chilometri solo per lei, senza tenere in considerazione la possibilità che incontrarmi potrebbe destabilizzarla.

Sposto lo sguardo ovunque sperando che non sbuchi all'improvviso da qualche parte, poi la porta dell'ambulatorio viene aperta.

Un sussulto.

Il muscolo cardiaco si contrae a ritmo sostenuto.

Esce un'infermiera con un foglio tra le mani. Cerco di curiosare all'interno dell'ambulatorio dalla porta aperta ma non la vedo. Giuditta non c'è. Il Bradipo dell'Info point mi ha dato un'informazione sbagliata. Allungo la mano sul braccio dell'infermiera, la ragazza si gira sorridendomi.

«Mi scusi, cerco la dottoressa Giuditta Piras. Sa dove posso trovarla?»

«Oh, certo! Ha fatto un cambio turno, la trova qui nel pomeriggio, alle quindici. Lei è?»

«Io? Ah, io sono un collega. Però gradirei che non le dicesse nulla, vorrei farle una sorpresa.»

«Non dirò nulla. Promesso.» Si volta e scompare dietro la porta dell'ambulatorio.

Me ne torno fuori, consolandomi con l'ennesimo caffè. Ho a disposizione un paio di ore abbondanti e decido di sfruttarle per tornare in albergo, riordinare le idee e riposare un po'.

Alle quattordici e trenta sono di nuovo al policlinico, seduto su una panchina a diversi metri dall'entrata, nascosto dietro un paio di occhiali da sole e La Gazzetta di Cefalù a coprirmi il viso.

D'un tratto la vedo sbucare dalla stradina principale di accesso alla struttura ospedaliera e sono assolutamente certo di non aver mai provato un'emozione tanto destabilizzante.

Non è cambiata, è sempre lei, con i capelli che le ricadono oltre le spalle, raccolti in una treccia. Qualche ciuffo sfugge al controllo muovendosi dinanzi alla sua pelle colorita dal primo sole di giugno. Ha gli occhi coperti da lenti scure e le labbra rese luccicanti da uno di quegli odiosi lucidalabbra appiccicosi.

Per un attimo provo il desiderio di bloccarla all'istante, di non darle il tempo di replicare e abbracciarla. Mi alzo di scatto dalla panchina ma mi fermo subito dopo.

Sento una donna chiamarla concitatamente. Giuditta fa retromarcia di qualche passo e va a salutarla. Ora ride, mentre gesticola e parla. Il via vai di persone non mi permette di sentire la conversazione. Il coro delle cicale fa da sfondo a questa scena che ha dell'assurdo: io e Giù siamo vittime di un destino illogico e perverso, lei è a un passo da me, e io non posso fare nulla.

Saluta quella donna e corre all'interno dell'ospedale. L'ho persa di vista. Ancora una volta.


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