SE QUEL LONTANO GIORNO DI MAGGIO...

Il ventitré dicembre prendo un aereo diretto a Milano. A Malpensa, ad aspettare il mio ritorno trionfale dopo due mesi e mezzo di latitanza, ci sono mio cognato, in tenuta da marito-quasi-papà-premuroso, e mia sorella con un pancione che minaccia di esplodere da un momento all'altro.

«Alice, ma non mancano ancora quattro mesi?»

«La fame da gestante è una cosa mostruosa. Respiri aria e ingrassi. Bevi acqua e ingrassi. Allora ho deciso di mangiare anche, tanto ingrasserò comunque.»

Com'è Milano dopo mesi di assenza?

Bella, ma solo con l'immaginazione perché alla proposta di Marco: «Capatina al McDonald in centro?».

La mia risposta è: «Alice è a dieta».

Ovviamente, Alice non approva la mia idea. La sua voracità, quando si tratta di cibo spazzatura, è peggiorata dall'ultima volta che l'ho vista.

Trascorro il Natale a Bellagio, ingozzata da mia madre come una che vive ai confini di un paese dove imperversano fame e carestia. Le festività riportano a galla vecchie ferite, non posso negarlo. Solo pensare al fatto che un anno fa fosse tutto diverso, instilla in me una pena difficilmente consolabile.

Le giornate scivolano via tra carezze sul ventre di Alice e passeggiate al centro del paese.

La vigilia di Capodanno la passo al letto con un febbrone da cavallo, bevendo bibitoni di tisane davanti al camino, mentre gli altri allestiscono la cena dell'ultimo dell'anno.

Gaia è in trepidante attesa per l'arrivo di Matilde, ma come ogni primipara che si rispetti, la data della nascita sembra posticipare sempre. Così, certa del fatto che da lì a qualche settimana dovrò prenotare un altro viaggio per la nascita della piccola Longo junior, il tre di gennaio me ne torno in Sicilia con il naso gocciolante e un herpes che fa sembrare il mio labbro superiore un pallone aerostatico.

Adele non perde tempo, la sera del rientro a Cefalù si presenta a casa con un DVD strappalacrime, una confezione di Kleenex formato gigante e un Buccellato ancora più buono della volta precedente.

La normalità viene ripristinata in pochi giorni. Solita routine, qualche attacco di ansia notturno, e la consapevolezza di aver fatto una promessa sulla tomba di mio padre il giorno prima di tornare qui: mi prenderò cura di me stessa. Una sorta di fioretto per l'anno appena iniziato, una tregua dalla tristezza e dalla nostalgia. Non sono proprio certa di riuscirci, ma ce la metterò tutta.

La notte del venti gennaio arriva la telefonata che aspettavo da giorni.

«Giù, ho rotto le acque!» Gaia ha la voce che trema per l'emozione e io sono al settimo cielo per lei.

La mattina seguente mi prendo qualche giorno di permesso dal lavoro, prenoto un volo per Milano e col cuore in trepidazione per la nascita della mia prima nipotina, parto.

Ad attendermi in aeroporto c'è Carlo che non perde occasione per aiutarmi.

«Com'è andato il viaggio?» chiede prendendomi dalle mani il bagaglio.

«Ho guardato Philadelphia per tutta la durata del volo. Credo che i passeggeri abbiano sentito i miei singhiozzi.»

«Ma una commedia no, eh?»

Arriccio il naso per rendere l'idea che le commedie non rientrano nel genere che preferisco in questo periodo.

Il traffico di Milano non è migliorato, anzi, mi sembra persino peggio del solito ora che sono io quella non più abituata a tanto caos. Una volta arrivata in ospedale percepisco una leggera ansia fare capolino sulla bocca dello stomaco. Solo quando entro nella stanza di Gaia e vedo il frugoletto nella culla accanto al letto, sento un tuffo al cuore, un po' la stessa sensazione che si prova quando incontriamo qualcuno che aspettiamo di vedere da tempo.

Poso l'enorme scatola di cioccolatini che tengo in mano sopra il comodino della mia amica, e senza degnarla neppure di uno sguardo, resto ammaliata a guardare Matilde. La pelle sottile e trasparente, la leggera peluria sul capo, gli occhietti minuscoli e chiusi, le manine strette in due pugnetti della dimensione di una piccola albicocca. La tentazione di accarezzarla diventa quasi una necessità.

«Prendila, Giù» mi esorta Gaia.

Quando mi giro per guardare la mia amica, sento di essere sul punto di commuovermi.

Tolgo il cappotto, vado in bagno a lavarmi le mani, poi torno in stanza con la frenesia di chi sta per scartare un regalo inatteso. Per un istante la mia testa sembra processare un'informazione scorretta, come se quella creaturina nella culla fosse, in qualche modo, anche la mia.

Le mani mi tremano un po' mentre si infilano sotto il caldo corpicino di Matilde. Gaia si accorge della mia incertezza e mi incoraggia: «Basta che le tieni la testa, Giù. Non avere paura».

Anche lei si è resa conto che mi sto immedesimando in ciò che avrei provato se quel lontano giorno di maggio io non avessi perso il mio bambino.

Matilde profuma di buono, un odore indescrivibile che è l'odore dei bambini venuti al mondo. Avvicino la sua testa alla mia, chiudo gli occhi e il vuoto che ho cercato di colmare in questi mesi sembra aprire un varco, di nuovo. Allora resisto, lo affronto, provo a controllarlo.

«È bellissima» sussurro mentre Carlo resta in un angolo della stanza a guardare la scena, immobile.

La cullo ancora un po', ma poi il senso di inadeguatezza prende il sopravvento. I pensieri si aggrovigliano nella testa e sento impellente la necessità di allontanarmi da qui.

Poso Matilde tra le braccia di Gaia.

«Scusami tanto» le sussurro in un orecchio.

Corro fuori, quasi scappando.

Fermo la frenesia dei miei arti impazziti solo quando l'aria fredda mi schiaffeggia in pieno il viso. Allora, mi lascio andare. Permetto al sangue di tornare a fluire come deve, al dolore di riempire il corpo, alle emozioni di dominarmi dopo tanto, sfiancante autocontrollo.

Una giacca si posa sulle mie spalle; quando mi volto, Carlo è dietro di me pronto a scacciare via il demone che mi scalpita dentro.

«Che succede, Giù?»

«A maggio ho perso il mio bambino» mormoro in un andirivieni di singhiozzi e respiri profondi.

Subito dopo, solo il rumore della pioggia.


***


Finita la pioggia è scesa una nebbia fitta che potrebbe fare da scenario per un film alla Hitchcock. Nella macchina aleggia il silenzio. Percorriamo strade bagnate, rincorrendo i lampioni illuminati come se ci indicassero il cammino da seguire.

È Carlo, d'un tratto, a rompere il pesante mutismo.

«Ti va se andiamo a mangiarci una cosa?»

L'idea di chiudermi in un locale con questa faccia e questo stato d'animo non mi entusiasma molto.

«Non saprei...»

«Non puoi rientrare in albergo digiuna.»

Mi giro, lo guardo e lui allunga le labbra in un sorriso appena percettibile.

«Andiamo a casa mia e ordiniamo qualcosa, ti va? C'è un ristorante cinese che fa un sushi...»

«Non mi piace il pesce crudo» lo interrompo prontamente.

«Riso alla cantonese, pollo al curry, involtini primavera... ti dicono niente?»

«Non vorrei fare tardi.»

«Alle dieci prometto solennemente di accompagnarti in albergo, ok?»

Queste sono le classiche circostanze in cui ti senti con le spalle al muro.

«Posso dirti di no?»

«No!»

«Ok, accetto la tua proposta.»


***


Non ero mai stata nell'appartamento di Carlo e, a dirla tutta, mi sento un tantino a disagio. Io, Giuditta Piras, individuo di sesso femminile – perennemente sfigata in amore come poche altre donne al mondo – sono a casa di uno degli amici storici del mio ex-quasi-marito – che amo ancora, tra le altre cose – che non tornerà mai da me. Può esistere una contingenza più scomoda di questa?

Oltretutto, ad aggravare il quadro, c'è il mio stato d'animo che al momento sembra essere sull'orlo del suicidio.

«Perché non mi avevi detto nulla del bambino?» mi chiede lui una volta accomodati sul divano in similpelle a tre posti.

«Sarebbe cambiato qualcosa se te lo avessi detto?» La mia risposta suona un po' sgarbata, a essere sincera. «Scusami, non volevo essere scortese. A maggio non c'era il rapporto di amicizia che si è creato dopo, tra me e te... e poi, avevo paura che la notizia potesse arrivare a Flavio...» continuo addolcendo i toni.

«Mi stai dicendo che Flavio non lo sa?»

Lo sconcerto di Carlo un po' mi turba.

«Secondo te sarebbe stato meglio fargli sapere una cosa del genere, col rischio di sembrare una che con la scusa del bambino vuole intenerirlo e farlo tornare sui suoi passi?»

«Non dovevi farlo per lui, Giù. Dovevi farlo per te stessa! Come hai fatto a gestire tutta quella situazione da sola? Avevi tutto il diritto di smezzare un po' del dolore...»

Come ho fatto? Ah, non usare un verbo al passato, Carlo. Perché nella mia vita di compiuto e risolto non c'è proprio nulla.

«Hai ragione, ne avevo bisogno. Ma è giusto che sia andata così.»

Alle otto e qualche minuto arriva la nostra cena. Mangiamo su un tavolino da caffè, seduti a gambe incrociate sopra un tappeto peloso e sofficissimo, la TV accesa in sottofondo.

Non parliamo più del bambino. Non parliamo di Flavio. Non parliamo di me. Parliamo della vita in generale, del fatto che per quanto ci sforziamo di farla andare in un verso, alla fine ci sorprende e cambia direzione.

Alle dieci, come promesso, sono davanti all'albergo. In questo preciso istante sento montare l'inquietudine che si palesa quando un uomo e una donna condividono lo spazio angusto di un'auto, in pieno inverno, con i vetri appannati e il flebile tintinnio della pioggia sul parabrezza.

«Sei una bella persona.» Carlo mi sorprende con queste parole, proprio nell'istante in cui io sto per pronunciare un «ci vediamo presto».

«Grazie, anche tu lo sei.»

Ma non credo che la sua frase e la mia abbiano lo stesso valore semantico.

«Io... mi sono legato molto a te.»

Alla frase segue un brivido dietro la mia schiena.

Carlo tende il braccio verso di me, io resto paralizzata sul sedile, totalmente presa alla sprovvista. Le sue dita si intrecciano ai miei capelli.

«Penserai che sia sbagliata questa cosa, ma io credo che sarebbe ancora più sbagliata se io fingessi indifferenza nei tuoi confronti.»

La mia gola sembra totalmente incapace di emettere suoni. Si fa strada una vaga consapevolezza che mi divide la testa in due parti uguali. Vorrei chiudere gli occhi, non pensare, lasciare che le cose vadano dove sono destinate ad andare. Al contrario, fuggirei subito per evitare situazioni che non saprei gestire, che potrebbero peggiorare la mia posizione.

«Carlo, io...» biascico frastornata.

Poi accade che lui si avvicina, in un istante così effimero che il cervello non riesce a capire.

Poi accade che Carlo accorcia la distanza tra le sue labbra e le mie.

Poi accade che mi bacia. Come le api baciano i fiori. Come i bambini baciano i bambini. Con dolcezza. Con innocenza.

Mi lascio andare un attimo. Un attimo solo. La consapevolezza successiva mi impone il distacco.

Strizzo gli occhi stordita. Scuoto la testa.

«Carlo, no. Non è possibile.»

Vorrei sentirmi amata. Sì, lo desidero con tutte le mie forze. Ma non è questo il tempo. E non è questo l'uomo.

«Scusami.» Ora è lui a essere imbarazzato.

Col cuore a pezzi, perché so che a questo gesto seguirà la distruzione di un rapporto di amicizia, apro lo sportello e vado via.


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