SCELTE parte prima

Ci sono scelte che rientrano in quelli che vengono considerati obblighi morali verso sé stessi e verso gli altri. Ci sono fatti, che avvengono nella vita di un individuo, che includono tali doveri morali e le scelte conseguenti possono essere difficili, talvolta inaccettabili.

«Io e mio marito desideriamo un figlio in futuro, ma da quando mia madre ha manifestato i primi sintomi della malattia siamo sprofondati nel terrore.»

Cristina Fusco è una donna di ventotto anni, si è presentata per un consulto genetico dopo che a sua madre è stata diagnosticata la malattia di Huntington. È una ragazza piacevole, sommessa ed estremamente preoccupata, la sua ansia non traspare solo dal tono angosciato con il quale pronuncia ogni singola parola, ma anche dall'espressione contratta sul suo viso che ho notato sin da quando ha messo piede in ambulatorio. Sposta insistentemente un ciuffo ribelle di capelli dietro l'orecchio e resta a guardarmi con i suoi piccoli occhi nocciola. Lo sguardo supplichevole della paziente mi costringe a ragionare in fretta e a cercare le parole più adatte per farle capire che, dinanzi alla possibilità di aver ereditato il gene che codifica per la malattia di Huntington, avere un figlio potrebbe risultare una scelta egoistica, che deve essere vagliata con attenzione.

«Signora Fusco, prima di un figlio dovrebbe effettuare il test genetico. Questo le darebbe la possibilità di capire a cosa andrà incontro nei prossimi anni.» Cerco di mitigare con lo sguardo le mie parole, che a primo impatto possono sembrare fin troppo fredde e razionali.

«Se il test fosse positivo, cosa ne sarà di me? Del mio matrimonio, del mio lavoro, del mio futuro?»

C'è davvero disperazione in quello sguardo, c'è ansia e spavento. Questo è l'aspetto che odio del mio lavoro, non ci sono sempre buone notizie da dare, spesso gli insuccessi sono di gran lunga maggiori rispetto alle vittorie, alle belle notizie e agli epiloghi fortunati.

«Dovrebbe affidarsi a un supporto psicologico. Prepararsi mentalmente potrebbe esserle d'aiuto.»

Ci si sente insensibili a dover comunicare terapie di sostegno psicologico quando sappiamo bene che non sempre servono a molto. Accettare la malattia e tutte le conseguenze negative che essa si trascina dietro è un processo lungo e complicato, aggravato dalla consapevolezza che la vita cambierà ancor prima che il corpo manifesti la patologia.

«Mio marito desidera un figlio, lo desidero anche io. Dottoressa, ho solo ventotto anni. Pensa che sarebbe un gesto egoistico affidarsi all'aiuto di Dio?»

«In che senso, scusi?» interviene il mio collega.

«Avere un figlio prima di sottopormi al test.»

Resto sbalordita nell'udire una cosa del genere, ma comprendo quanto possa essere difficile il solo pensiero di dover rinunciare al desiderio di mettere al mondo un figlio.

«Signora Fusco, se lei dovesse risultare positiva al test e mettesse al mondo un bambino, quel bambino avrebbe il cinquanta per cento di possibilità di sviluppare la malattia. Inoltre, be', deve considerare ogni eventualità. Parlo di lei, della sua salute...»

Lo sguardo di Cristina si sposta dal mio collega a me. So che si aspetta un mio parere, il mio nulla osta per tirare avanti nell'attuare le sue scelte, sono una donna anche io e probabilmente, dal suo punto di vista, sono naturalmente più predisposta a comprendere cosa le passi per la testa.

«Lei cosa farebbe al mio posto, dottoressa?» mi chiede all'improvviso.

«Cristina, non posso dirle cosa farei io. Da medico posso soltanto ricordarle che, con la presenza patologica del gene, la possibilità di avere un figlio malato è reale e deve prenderla in considerazione con tutti i limiti che questa possibilità impone. Dovrebbe effettuare il test, altrimenti stiamo basando le nostre previsioni su niente.»

Volgo lo sguardo verso il mio collega, invocando il suo aiuto. Cos'altro potrei dire a questa giovane donna? Quali potrebbero essere le parole più opportune per spiegarle che l'aiuto di Dio non rientra minimamente nelle casistiche, nelle percentuali di successo o di insuccesso e neppure nel mescolamento genico che avviene durante il concepimento. Dio non è stato benevolo con la madre di questa paziente, Dio ha bollato quella donna sin dalla nascita con un gene destinato a manifestare una malattia incurabile, dal decorso irreversibile, lento e doloroso. E allora perché quello stesso Dio dovrebbe salvare un bambino dalla possibilità di un destino altrettanto crudele?

In medicina non si contempla la possibilità di un miracolo, la medicina è fatta di numeri, di casistiche, la medicina è una scienza e come tale non lascia spazio a congetture di natura religiosa o metafisica.

Il dottore Michele Lodovici, accanto a me, incrocia le mani e sporge il busto in direzione della paziente. «Signora Fusco, comprendiamo il suo stato d'animo e comprendiamo anche la scelta difficile che si troverà a dover affrontare, ma non possiamo darle la risposta che cerca. Le possibilità sono due: fare il test e avere la consapevolezza di sviluppare o meno la malattia, oppure ignorare tutto e tirare avanti con la sua vita restando con il dubbio che, prima o poi, possa accadere qualcosa.»

«Devo parlare con mio marito. Posso tornare con lui per un altro consulto?»

«Certo.»

Vorrei aggiungere che avrebbe dovuto coinvolgere il marito già da oggi, ma sarebbe un'opinione personale ed esprimerla denoterebbe una certa insensibilità da parte mia.

Qualche minuto dopo Cristina abbandona l'ambulatorio e io me ne resto seduta a pensare mentre il dottor Lodovici sistema alcune cartelle cliniche nel cassetto. Guardando quelle cartelle, quelle storie, si capisce quanto, in un ambulatorio medico, ogni individuo sia uguale all'altro. Si azzerano le distanze sociali, le differenze culturali o economiche, si azzera persino l'età. Tutti i pazienti raggiungono lo stesso livello, tutti si trovano sullo stesso piano, quello che cambia è la patologia; ma la paura, l'angoscia, la tensione diventano le stesse e rendono quelle persone tanto diverse degli individui molto più simili di quanto non ci si aspetti.

«Giuditta, è tutto ok?» mi chiede Michele una volta terminato il suo lavoro.

«Sì, cioè, no. Mi chiedo quando imparerò a distaccarmi emotivamente dai pazienti e dalle loro storie personali. Quando capitano casi come questi io proprio non ci riesco, resto a pensarci tutto il giorno e non mi do pace al pensiero che la fortuna e la sfortuna vengano elargite dalla vita in maniera tanto discriminatoria.»

«Ci sono persone che meritano più di altre una malattia genetica?»

«No. Ma ci sono persone che magari non vogliono un figlio, invece hanno tutte le carte in regola per averlo, e ci sono persone che lo desiderano ma sembra che la natura remi contro di loro in continuazione. E poi ci sono persone che commettono reati gravi, che non meriterebbero tanta buona sorte dalla vita e, invece, ce l'hanno.»

«La vita è ingiusta, Giuditta. Quando comincerai a ripetere le stesse cose in continuazione, quando incontrerai le più svariate persone accomunate da una patologia alla quale tu non puoi fare nulla, allora ti abituerai.»

Parla bene lui che ha dieci anni più di me e applica al suo lavoro questo distacco emotivo da anni, io invece sono ancora una novellina, troppo sensibile ed empatica per sottrarmi a certe dinamiche.

«Ah, complimenti per Flavio. Ho saputo del dottorato!»

Le parole di Michele mi scuotono dal torpore mentale nel quale sono precipitata.

«Dottorato? Scusa, di cosa stai parlando?»

Michele estrae il cellulare dalla tasca del camice. «Ti va un caffè? La prossima paziente ha disdetto l'appuntamento.»

«Sì, ma non cambiare discorso! Cos'è questa storia del dottorato...»

Usciamo dall'ambulatorio e ci dirigiamo verso l'altro capo del corridoio dove ci sono i distributori automatici di caffè.

«Sul serio non lo sai?»

Annuisco con gli occhi sgranati per l'emozione, o forse per lo stupore, Flavio non mi ha parlato di alcun dottorato.

«La Kingston University gli ha offerto un dottorato di ricerca. Io l'ho saputo questa mattina dal professor Cesari.»

Un dottorato di ricerca.

«Quel congresso al quale ha partecipato qualche mese fa ha regalato molta popolarità ai suoi studi. Quanto zucchero vuoi nel caffè?»

Un dottorato di ricerca.

«Uno.»

«Dovresti abituarti a prenderlo amaro» dice mentre preleva il primo bicchierino di caffè.

La vita è già tanto amara, prendere il caffè senza zucchero sarebbe solo l'ennesima tortura.

Afferro la plastica bollente e inizio a girare la bacchetta nel bicchiere.

«Da quanto sai di questo dottorato?»

«Te l'ho detto, da stamattina. Credo sia una notizia recente. Ma davvero non ne sapevi nulla? Accidenti, avrei dovuto farmi gli affari miei.»

Sorseggia il suo caffè e resta a fissarmi perplesso, credo di aver assunto qualche strana espressione sul viso, e al momento non saprei neppure io come interpretare il mio stato d'animo.

«Rientriamo in ambulatorio?»

Annuisco, termino di bere il mio caffè e ce ne torniamo al lavoro.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top