ROULETTE RUSSA

Certe scelte, apparentemente avvilenti sotto ogni aspetto, a volte sono le uniche opportunità di redenzione per quella parte della nostra coscienza che non riesce a trovare pace. Allora, col cuore stretto in un pugno troppo piccolo per contenerlo completamente, affrontiamo la sfida, con l'illusione che quello stesso cuore si rimpicciolirà, e quello stesso pugno possa tornare ad abbracciarlo senza sentirsi inadeguato dinanzi alla propria incapacità.

«Quindi, fammi capire, stai meditando la possibilità di andare dai tuoi ex suoceri per chiedere scusa?» Gaia è sul divano, semisdraiata con il ventre rotondo ma ancora contenuto, e un ciondolo sferico d'argento che a ogni movimento emette un tintinnio.

Il suo aspetto, giorno per giorno sempre più materno, è per me fonte costante di malinconia e gioia allo stesso tempo. Gaia posa la mano sulla pancia, l'accarezza e inavvertitamente lo faccio anche io, su di me, sopra l'addome piatto, inconsistente, svuotato.

«Sì, non riesco a pensare ad altro» rispondo con una lieve inflessione che quasi mi convince del fatto che possa non essere una buona idea quella di andare al cospetto dei miei ex suoceri e chiedere umilmente perdono per il disastro che ho combinato.

Arianna si alza di scatto. «Ragazze, che ne dite di mangiare il gelato?» propone dirigendosi verso la cucina.

«Io voglio stracciatella, cioccolato fondente e fiordilatte» dice Gaia un secondo prima che inizi a squillarle il cellulare.

Seguo Arianna in cucina, lei estrae la vaschetta di gelato dal freezer mentre io mi occupo di prendere coppette e cucchiaini.

«Se credi che questa cosa possa farti stare meglio, dovresti farla.»

«Cosa?»

«La chiacchierata con i genitori di Flavio...»

«Pensi che sia una cosa umiliante? Che mi renderò ridicola ai loro occhi?»

«Penso che tu debba cominciare a non considerare più quello che potrebbero dire gli altri, e concentrarti solo su ciò che è bene per te. Questa storia ti ha tolto già tanto, lascia che le cose facciano il loro corso. Segui il tuo istinto, con moderazione, certo, ma seguilo.» Mi viene accanto, mi allarga le braccia e io mi ci rifugio subito in mezzo.

«So quanto stai soffrendo. Ti vedo quando guardi Gaia, quello che sta diventando, come il suo corpo si trasforma. Ce la farai. Devi farcela» mormora con la bocca tra i miei capelli.

Solo dopo, dopo il gelato, il bis, e qualche pettegolezzo sparato da Arianna col solo intento di attenuare la mia sconfinata malinconia, decido di confessare ciò che sto prendendo in considerazione da un po' di tempo, e che riguarda la mia vita professionale.

«Io... ecco, io ho chiesto al professor Cesari la possibilità di un trasferimento.»

Gaia sgrana gli occhioni scuri. Arianna resta impassibile, lei sa che c'è la possibilità che io lo faccia, che io me ne vada davvero. Tra le mie amiche c'è sempre stata una differenza sostanziale, Gaia prende in considerazione le possibilità con una certa morbidezza, nulla è un obbligo per lei e tutto può essere ritrattato, fino alla fine, un esempio eclatante è stato il suo matrimonio.

Arianna, sebbene più indomabile per certi aspetti, è la donna della pragmaticità, e una decisione ritrattata equivale a una promessa non mantenuta. Arianna sembra frivola, ma è la più assennata tra tutte. E per come è fatta, so per certo che immaginava questo colpo di scena. La mia sofferenza lei riesce a recepirla meglio adesso, mentre Gaia, immersa nella sua bolla di felicità, ne percepisce solo un po'. Ed è giusto che sia così.

«Non dire stronzate!» spara Gaia quasi offesa dalla mia considerazione.

«Andare via ti farà stare meglio?» La domanda di Ari.

«Credo di sì. Non sto più bene qui. Questa casa è una tomba ormai...»

«Puoi cambiare appartamento, non serve andare in un'altra città!» Gaia non demorde, ferma nelle sue convinzioni da amica-chioccia.

«Non ho più nulla che mi trattenga qui, Gaia. Solo brutti ricordi.»

«Fammi capire, la tua è una decisione o una possibilità?»

Oh, Ari, non lo so. Sto meditando, giorno e notte, col cuore appeso a un cappio che rischia di strozzarlo. I ricordi, le sensazioni, gli odori, tutto mi rimanda a cosa avevo prima e a cosa non ho più.

«Entrambe le cose» rispondo. E non sto mentendo, perché attuare un cambiamento tanto radicale richiede un coraggio estremo e io sto cercando di metterne da parte un po' alla volta per non essere sopraffatta dagli eventi.

Però al prof l'ho chiesto davvero.

Ora sto solo aspettando un cenno di approvazione dalla vita. Un suggerimento spontaneo che mi dica di perseverare nel mio intento o mi distolga dal farlo.


***


Le decisioni peggiori sono quelle partorite nel weekend quando si hanno poche cose da fare e le possibilità per riempire la giornata si riducono a due o tre opzioni poco allettanti.

Mi sveglio prima del solito, in una mattina di fine agosto in cui il sole ha tutta l'intenzione di voler bruciare l'intera città. Il caldo è soffocante, le cicale friniscono senza sosta, il condizionatore sembra aver diminuito la sua potenza refrigerante.

Mi vesto leggera, salgo in auto e parto in direzione di Verona con la folle aspettativa di risolvere i miei tumulti interiori tramite una confessione che, a detta dei pochi che conoscono il mio intento, sarà un suicidio vero e proprio.

Nascosta in qualche pertugio della mia anima, c'è anche un'altra speranza che, a dire il vero, è l'unica cosa che mi concede il giusto grado di coraggio per affrontare questo avvilente confronto con i miei ex suoceri: la possibilità di incontrare Flavio. Ecco, è proprio questo l'unico appiglio al quale mi sto aggrappando e che decreterà la possibilità di restare a Milano o perseguire l'idea del trasferimento.

Trascorro l'intero viaggio a cercare le parole giuste, immaginare di trovarlo lì, chiedergli scusa in tutte le maniere possibili, magari essere spalleggiata da chi ci è passato prima di me. Ma la speranza di uscirne vittoriosa dura un misero, patetico secondo. La realtà delle cose è decisamente più deplorevole; sarà un miracolo già solo se non mi cacceranno di casa additandomi come una sporca fedifraga.

Giungo a Verona che è ora di pranzo e mi sembra inappropriato presentarmi adesso. Allora mi concedo una passeggiata in centro, nei vicoletti rigurgitanti di turisti, col naso all'insù sotto al balcone di Giulietta, leggendo, con un nodo stretto in gola, i messaggi d'amore sopra il muro all'ingresso di casa Capuleti. Pranzo in piazza delle Erbe con un gelato al cioccolato fondente e menta, e qui il cervello ricostruisce, istante dopo istante, tutte le volte in cui io e Flavio, seduti su questa stessa sedia, abbiamo trascorso freschi pomeriggi autunnali e calde serate estive.

Alle sedici, parcheggio davanti all'abitazione del mio ex fidanzato, col cuore in trepidante attesa della stoccata finale. Scendo dalla macchina che ho la schiena appiccicosa per il sudore, prendo un elastico e raccolgo in una coda i capelli che con ostinazione ho tenuto sciolti, nonostante la temperatura canicolare.

Un sospiro, poi un altro e una altro ancora. Proprio quando sono davanti al cancelletto d'entrata, la porta di casa Solina si apre e il mio cuore si ferma, sospeso in un interminabile istante di speranza.

Andrea esce fuori con una sigaretta stretta tra le labbra, alza il viso e incrocia i miei occhi.

«Giuditta...» sussurra quasi strozzato, con un tono che è a metà tra una domanda e un'esclamazione.

Sorrido appena, totalmente incapace di emettere suoni.

Andrea viene verso di me, spinge un pulsante al lato del cancello e apre.

«Ciao», pronuncio, e nel mentre la testa elabora altre frasi, altre possibili spiegazioni.

Perché sono qui?

Cosa penso di ottenere con questo arrivo a sorpresa?

Ah, sono una stupida, stupida, stupida sentimentale.

Allora lo dico, lo dico quello che mi passa per la testa. «Oddio, Andrea, scusami. Io non lo so perché sono qui, io ho avuto una pessima idea. Ti prego scusami.» Faccio per andarmene, lui mi trattiene il braccio e nell'istante in cui giro la testa, esce fuori Lucrezia.

È questione di un attimo prima che anche lei resti paralizzata davanti all'uscio di casa.

«No, Giuditta. Per favore, resta. Vieni» pronuncia Andrea invitandomi a entrare, poi ripone la sigaretta, ancora spenta, nel pacchetto.

«Flavio è... Flavio è qui, per caso?» chiedo bisbigliando appena.

«No, non c'è» dice lui.

L'ultimo barlume di speranza si sgretola.

Non è destino. Non è destino. Non è destino.

Qualche passo ancora e gli occhi intercettano quelli di Lucrezia. Sembrano stanchi, speranzosi. Magari, però, sono soltanto delusi e io troppo instabile emotivamente per poter decifrare con esattezza la natura di quello sguardo.

«Giuditta, vieni qui» dice lei e mi abbraccia. E il suo abbraccio mi confonde ancora di più.

Forse non conosce i retroscena della rottura?

Oppure sa una mezza verità che non include né colpevoli né vittime.

Sono io, io sono la colpevole, questa è la verità.

Entro in casa quasi in punta di piedi, con il petto pieno del senso di colpa per aver infranto la felicità di un'intera famiglia.

Viola è sul divano con Vanity Fair tra le mani, solleva il viso ed esclama: «Oddio, Giù!» Corre a stringermi, io resto immobile tra le sue braccia. Una lacrima mi imperla il viso. Quest'accoglienza proprio non me la merito.

«Ciao» mormoro sussultando.

«Giuditta, che sorpresa!» D'improvviso mi raggiunge la voce profonda del padrone di casa, il papà di Flavio è in piedi a qualche passo da me col sorriso di chi non è a conoscenza dei perché. Sarebbe impossibile tanta spontanea cordialità davanti a un'ex nuora peccatrice. Così capisco che il mio compito oggi sarà persino peggiore di quello che immaginavo.

«Giuditta, vieni. Siediti... un caffè? No, aspetta, magari un thè freddo, un po' di gelato...» Lucrezia posa la mano sulla mia schiena e mi accompagna vicino al divano, io l'assecondo, con le gambe molli come gelatina e il cuore in procinto di schizzarmi in gola.

«Un po' di thè, grazie» sussurro prima di esplodere in lacrime, mostrando all'intera famiglia la mia instabilità.

Viola mi abbraccia, un istante dopo compare Filippo che mi accoglie con l'innocenza tipica dei bambini: «Zia Giù!» grida. Mi abbraccia per un po', poi sua madre gli accende la televisione per provare a distrarlo.

Il bicchiere di thè è su un vassoio, proprio davanti a me, ha l'aria invitante e fresca, e la mia gola ha un disperato bisogno di rifocillarsi prima di iniziare a emettere suoni diversi da singhiozzi. Ma proprio mentre sono lì per allungare il braccio e afferrarlo, Andrea mi invita a uscire in giardino.

«Mi accompagni a fumare una sigaretta?» propone.

Annuisco.

«Andrea... dove state andando?» chiede Lucrezia vedendoci in piedi.

«A prendere una boccata d'aria calda...» Mi fa l'occhiolino. «Il tempo di una sigaretta e te la riporto in casa.»

Anche se riluttante, Lucrezia non si oppone.

Fuori la cappa di caldo sembra persino peggiorata.

«Sapete già tutto?» mi viene spontaneo chiedere.

«No. Flavio è stato criptico come al solito.»

Anche Viola ci raggiunge.

Sconvolta dalla notizia, aggiungo: «Non vi ha raccontato nulla?!»

«Devo spiegarti com'è fatto Flavio?» continua Andrea.

«No, non devi. Ma sono qui perché io devo chiedervi scusa. È colpa mia se è finita. Io... io non sono stata in grado di accettare la distanza, la sua necessità di anteporre la carriera a noi.»

«Sei stata tu a lasciarlo?» mi chiede Viola dopo un attimo di imbarazzante silenzio.

«L'ho tradito. Non fino in fondo, ma l'ho tradito» ammetto tutto d'un fiato senza scollare gli occhi da terra. La bocca diventa pastosa.

Ancora una volta il silenzio ingoia tutto.

«Credo di avere qualche difficoltà ad ammetterlo a tuo padre e a tua madre, Andrea. Mi sento terribilmente in colpa, ma non voglio passare per la vittima. È stata colpa mia, Flavio non c'entra niente.»

Viola mi posa la mano sul braccio, stringe un po' come per infondermi il coraggio che mi manca per andare avanti, per continuare a parlare senza scoppiare in lacrime. Ovviamente fallisco, penosamente.

Gli abbracci delle persone di solito hanno un non so che di salvifico, ora che Andrea ha circondato le mie spalle con le sue braccia, però, vengo inondata solo dai sensi di colpa. Dovrebbe essere Flavio quello da consolare, non io. Eppure, loro sono qui, a offrire conforto a me che ho distrutto come un tornado la vita di un fratello, di un cognato, di un figlio.

«Giù, al tradimento non c'è mai giustificazione, questo lo sappiamo tutti. Ma noi ci siamo passati prima di te, possiamo dirti che hai sbagliato, questo sì. Ma non possiamo condannarti. Quando si raggiungono certi limiti, ecco, io credo che la colpa sia comune. Tu hai lasciato che l'istinto prendesse il sopravvento, Flavio non è stato in grado di dare le giuste priorità. Questa è una sua prerogativa, non sempre condivisibile per ovvie ragioni. Però, se posso darti un consiglio, non umiliarti ancora. Non farlo davanti a mia madre e a mio padre. Se Flavio ha scelto di non dire nulla, sono convinto che l'abbia fatto per preservarti in qualche modo.»

Alzo gli occhi e incrocio quelli di Andrea. I miei trasudano infelicità, amarezza. I suoi, blu come quelli di Flavio, sembrano volermi sostenere in qualche maniera.

«Non merito tanta generosità da parte vostra.»

«Tutti possono sbagliare e ammettere l'errore è un gesto che presuppone un'infinita umiltà. Sei una bella persona, Giù. Non lasciare che un errore modifichi la percezione che gli altri hanno di te. Se vuoi ammettere di aver sbagliato, di essere la responsabile, fallo. Ma non scendere nei particolari, farebbe male a te e farebbe male a mia madre e a mio padre.»

«Tanto non ci vedremo più dopo oggi...» sussurro.

«Allora lasciaci un bel ricordo. A che serve infierire, no?»

«La verità la sappiamo noi tre, anzi noi quattro. Io, tu, Andrea e Flavio» si inserisce Viola con la tenerezza di sempre.

Dopo oggi non ci vedremo più, questo lo so bene. Ed è proprio per questo che accetto il consiglio di Andrea e Viola. Una volta dentro casa, seduta sul divano e refrigerata dal bicchiere di thè, rispondo alla silenziosa domanda che trabocca dagli occhi di Lucrezia.

«Volevo dirvi che è solo colpa mia se tra me e Flavio è finita. Ho commesso un errore, grave. Ho lasciato che l'insicurezza e la nostalgia mi confondessero le idee. Non sono stata abbastanza forte... Flavio avrà i suoi difetti ma è una persona corretta. Mi dispiace e vi chiedo scusa.»

Lucrezia sbatte le palpebre più volte, cercando di trattenere la commozione. Porta la mano sulla bocca, stringe il mento, si guarda intorno. Suo marito mi sorride, poi mormora: «Non preoccuparti, Giuditta. Apprezziamo il tuo gesto.»

Lucrezia mi prende la mano. La stringe. «Voglio sperare che le cose si sistemeranno.»

«Vorrei sperarlo anche io.» Le parole mi sgusciano fuori dalle labbra spezzate.

Ma tutti, in questa stanza, sappiamo che non sarà così. Che Flavio mantiene la propria parola nel bene e nel male. Che l'amore una volta distrutto non si può ricostruire, almeno per lui. Che io ho preso la mia felicità e me la sono giocata alla roulette russa. Ho premuto il grilletto ed è partito il colpo.


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