REGALO DI NATALE
Dicembre 2012
In un pomeriggio di inizio dicembre fumai la mia ultima sigaretta. Flavio mi torturava, mi riprendeva e mi assillava con il suo "il fumo uccide"; io continuavo a ripetergli che sapevo leggere, che le scritte macabre sul pacchetto di Marlboro erano chiare anche a me. Allora cedetti, mi decisi che quella sarebbe stata l'ultima, accartocciai il pacchetto tra le mani e lo gettai tra i rifiuti, poi uscii sul balcone e accesi l'ultima sigaretta; ne inspirai il fumo provando a reprimere la tentazione di rimandare a un altro momento la rinuncia al mio vizio. In verità, fumare di tanto in tanto mi aiutava a superare la fase post-idillio della convivenza, perché quando accettai di vivere con Flavio avevo preso in considerazione solo i pregi: vedersi ogni giorno, condividere qualsiasi dettaglio della vita quotidiana, dormire ogni sera nello stesso letto e risvegliarsi insieme, giocare a cuscinate la domenica mattina, avere qualcuno al quale preparare la colazione e al quale regalare un massaggio sulle spalle dopo una stressante giornata di lavoro.
Niente di più sbagliato!
La convivenza non è fatta solo di questo. Me ne accorsi qualche mese dopo, quando i panni da lavare e da stirare cominciarono ad ammucchiarsi, quando preparare la cena ogni sera diventava una necessità alla quale non potevo sopperire con uno di quei cibi precotti da buttare in padella che vendevano al banco frigo. E poi c'erano le camicie di Flavio. Già, le camicie. Impiegavo anche più di un'ora a stirarle. Per non parlare dei suoi cassetti immacolati che, in confronto ai miei, sembravano delle autentiche opere d'arte: boxer piegati e impilati in maniera impeccabile e maglioni di cachemire trattati come fossero reliquie. Flavio era maniacale anche in questo.
«Cristo, Giù, a quanti gradi hai lavato il mio cardigan?» mi chiese una sera, raggiungendomi in cucina con in mano qualcosa che ricordava vagamente un maglioncino, ora decisamente troppo striminzito per lui.
«Ops, dev'essermi sfuggito, quando ho infilato la biancheria...»
Mi fulminò con uno sguardo truce e iniziò a canzonarmi, chiedendomi come avessi fatto a badare a me stessa quando condividevo il mio appartamento con Gaia. A dirla tutta non ci avevo mai pensato, ma la convivenza tra donne che si conoscono, e che sono accomunate dalle medesime incapacità domestiche, di certo aveva semplificato le cose.
Poi c'era lo spinoso argomento specialistica, e quello era un altro sentiero inerpicato da scalare. Dovetti ricominciare tutto daccapo, come fossi al primo anno di università, abituandomi a turni in reparti di ginecologia e ostetricia, dove si facevano indagini genetiche prenatali, o in reparti pediatrici specializzati dove si tenevano sotto controllo malattie congenite metaboliche o rare. Iniziai a stringere amicizie in laboratorio, scoprendo che analizzare campioni di DNA poteva trasformarsi anche in un piacevole momento di gossip. I test di paternità erano un terno a lotto che, il più delle volte, dava esito negativo e il detto latino mater semper certa est, pater numquam diventò il mio motto.
«Giuditta, ma questo Flavio pensi di farcelo conoscere prima o poi?» era la domanda che mio padre mi poneva tutte le volte che tornavo a Bellagio.
«Sì, veramente volevo presentarvelo questa settimana, ma Flavio è impegnato ad aiutare il professore nella correzione degli esoneri del corso di Genetica» la mia risposta più frequente.
«Giù, è la stessa scusa di due settimane fa. Papà non è mica stupido» mi sussurrò Alice una domenica di dicembre.
La implorai con lo sguardo di accorrermi in aiuto e lei, ovviamente, non se lo fece ripetere due volte. «In realtà Giuditta sta aspettando Natale.»
Spalancai gli occhi sconvolta, e credetti seriamente di collassare sul pavimento.
«Ah, bene. Ce lo volevi tenere nascosto?»
Chi, io? Nascosto?
In realtà procrastinavo da mesi quell'incontro. La mia paura più grande era che, in qualche modo, Flavio potesse deludere le aspettative di mio padre o, molto più probabilmente, papà potesse deludere le aspettative di Flavio. Certo, mio padre non era mica un mostro a tre teste, ma non spiccava certo per simpatia quando cominciava a fare il terzo grado ai probabili pretendenti delle figlie. Io ne sapevo qualcosa, ricordandomi di quando Alice portò a casa Marco.
***
«Flavio, che programmi hai per Natale?» gli chiesi una sera, mentre eravamo nel letto.
«Non c'ho ancora pensato, perché?» domandò spostando lo sguardo dal libro, che teneva stretto tra le mani, a me.
«Pensi di passarlo dai tuoi?» Incastrai i miei piedi ghiacciati tra le sue gambe calde e accoglienti.
«Probabilmente no, c'è Andrea.»
«Allora lo passi da... me?» Sgranai i miei grandi occhioni, invocando tutte le mie doti di adulatrice.
«Smettila di sbattere gli occhi in quel modo» mi schernì, dandomi un buffetto sulla guancia.
«Dottor Flavio Solina, mi sta mica prendendo in giro?»
«Dottoressa Piras, assolutamente no! Dico solo che dovrebbe smetterla di guardarmi con gli occhi spalancati, luccicanti e imploranti, perché verrei a conoscere i suoi genitori anche se me lo avesse chiesto senza troppi fronzoli.»
Gli montai sulla pancia a cavalcioni, sfilai il libro che teneva tra le mani leggendone distrattamente il titolo: Il cervello anarchico. Lo obbligai a guardarmi mentre gli dicevo: «Ti amo, Dottor Solina...»
«Ti amo, Dottoressa Piras-eterna-indecisa...»
Mi fiondai su di lui e lo baciai.
***
«Togliti quella cravatta!» ordinai dopo essere piombata in camera da letto e aver sorpreso Flavio impegnato davanti allo specchio ad annodarsi accuratamente una striscia di tessuto grigia a piccoli pois bianchi.
«La cravatta piace sempre ai papà gelosi. E il tuo mi sembra di capire che lo sia.»
«Sembra fatto apposta, dai toglila! Per impressionare mio padre devi puntare di più sul concetto di futuro. Del tipo: "cosa ti aspetti dal tuo futuro"; "che futuro vedi con mia figlia"; "pensate di sposarvi in futuro?" Insomma, cose di questo genere.»
Mi avvicinai a lui e gli sfilai la cravatta dal collo. Flavio sgranò gli occhi azzurri. Dio, quanto mi piacevano, sembravano di cristallo. Lasciai scivolare la mia mano sopra la sua camicia bianca e la bloccai all'altezza dei fianchi. Lo abbracciai, inebriandomi del suo odore.
Mezz'ora dopo partimmo in direzione di Bellagio, mi sentivo eccitata e ansiosa allo stesso tempo, ma ogni volta che mi voltavo a guardare Flavio, mi convincevo che quell'apprensione fosse del tutto immotivata.
«Mia madre ti obbligherà a mangiare quantità industriali delle sue frittelle, mia sorella ti potrebbe fare domande inopportune e mio cognato ti chiederà se segui il calcio.»
«Mi piacciono le frittelle, sarò in grado di rispondere alle domande inopportune di tua sorella, e tuo cognato smetterà di parlarmi di calcio quando capirà che non sono in grado di distinguere la differenza tra un attaccante e un portiere.»
«Non essere ridicolo... anche io conosco la differenza tra un attaccante e un portiere. E non seguo il calcio.»
«Dovrò usare delle tattiche particolari con tuo padre? Adriano, giusto?»
«Sì, Adriano. Non servono tattiche con lui, ti smaschererebbe nel giro di tre secondi. Sii te stesso, vedrai che andrà benissimo.»
Era teso anche Flavio, me ne resi conto non appena raggiungemmo il portone di casa. Aveva il viso più tirato del solito e provai un improvviso moto di tenerezza nei suoi confronti. Tutto d'un tratto, l'uomo tanto rigido e inflessibile aveva fatto spazio al Flavio sensibile e amorevole.
Suonai il campanello, mezzo secondo dopo Alice aprì la porta.
Entrammo in casa gonfi di pacchettini infiocchettati che posammo sotto l'albero, in sala da pranzo.
«Ciao, Flavio! Io sono Alice.» Mia sorella ci travolse senza neppure darci il tempo di togliere i cappotti. Papà era in cucina ad aiutare la mamma e quando posò lo sguardo su Flavio, gli si disegnò in viso un sorriso premuroso.
«Molto piacere, Flavio. Era da tanto che desideravo conoscerti, ma mia figlia è sempre la solita indecisa.» Allungò la mano verso il mio, ormai conclamato, fidanzato.
Mi sembrava ancora così incredibile questa cosa!
«Piacere mio. Allora, la pensiamo allo stesso modo su Giuditta.» Flavio strinse con vigore la mano di mio padre, poi si girò per lanciarmi uno sguardo rassicurante.
Mia madre era rimasta a gustarsi la scena mentre si accingeva a guarnire i piatti con l'antipasto, poi si presentò anche lei.
«Io sono Elena.»
La osservai curiosa e notai che era rimasta impalata per qualche istante a contemplare il volto di Flavio. Ne fui certa, l'aveva conquistata con il solo sguardo. Un secondo dopo quel casinaro di mio cognato irruppe in cucina.
«Flavio, era ora! Abbiamo aspettato per mesi questo evento.» Allungò un braccio sulle spalle del mio ex dottor Occhi di ghiaccio e lo trascinò in soggiorno.
Mangiammo fino a scoppiare e nonostante ci ostinassimo a chiedere tregua a mia madre, lei se ne infischiava, invitandoci a prendere altro arrosto.
«Flavio, non farai mica i complimenti?»
«Mamma, non fa i complimenti. Risparmiaci di dover prendere un antiacido stasera» mi intromisi io.
Dopo pranzo Flavio e mio padre sparirono, li ritrovai rintanati nello studio di papà serenamente seduti a parlare. Li spiai dall'esterno senza farmi notare, Flavio era rilassato, tutta la tensione che lo aveva attanagliato qualche ora prima era sparita, ora riconoscevo il mio Flavio, quello eloquente, piacevole e sereno. Non riuscii a descrivere lo stato d'animo di mio padre, però mi parve felice, soddisfatto e incredibilmente loquace. Li sentii parlare di università − tanto per cambiare −, di dottorati di ricerca e di biologia. Poi li sentii parlare di me.
«Non ho mai visto Giuditta così felice» disse mio padre.
«Ha tirato su una figlia eccezionale» rispose Flavio.
Ne fui felice. Quello era il più bel regalo di Natale che potessi ricevere
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