QUANDO APPOGGI LA TESTA SULLA MIA SPALLA
Ho appena chiesto al professor Cesari la possibilità di discutere la specialistica a settembre. La data stabilita originariamente era un paio di settimane prima del mio matrimonio, a luglio. Ma, francamente, non ce la faccio, anche se siamo a giugno e ho ancora un mese abbondante davanti.
Il tacco dei sandali picchia sul pavimento lucido, chi mi incrocia alza lo sguardo e mi saluta con una faccia che trasuda compassione. Ora sembra che mi conoscano proprio tutti qui.
Scendo due piani, nel seminterrato si passa dal gres al linoleum, giungo davanti alla porta del laboratorio e per caso ascolto il frinire di un gruppetto di stupide cicale riunite per l'ennesimo complotto. Perché sono consapevole che qui, in questo dipartimento, l'epilogo della mia storia con uno dei favoriti nello stretto entourage accademico ha offerto molti spunti ai soliti sciacalli di turno.
«Secondo me si sono lasciati perché lei era incinta!»
«Dici?»
«Ehi, ma hai presente lui? Bello e intelligente, ti pare che si faceva infinocchiare da quella. Dai, non è neanche tutta questa bellezza. Solina non ce lo vedo proprio a pulire sbrodolate di neonato.»
Subito dopo la risata delle tre cicale. Il dottor Lodovici è dietro di me e io non me ne sono neppure accorta, tanto ero affranta da certi pettegolezzi. Pettegolezzi su di me, peraltro.
«Adesso ci penso io» pronuncia imbestialito.
Abbassa la maniglia della porta con più forza del dovuto e si lancia nella stanza come una iena; io resto impalata, dietro di lui, pur avendo la possibilità di darmi qualche aria in più vista la lavata di testa che sta per fare a queste tre scialbe ragazze.
«Vedo che avete molto da fare...» dice puntando gli occhi sopra ognuna di loro.
Le tre restano impietrite e pronunciano all'unisono un ossequioso: «Buongiorno».
«Non mi siete sembrate molto educate mentre vi divertivate a fare del volgare gossip. A che anno di specialistica siete?»
«Al primo» mormora una delle tre.
«Ah, ma bene. Vi aspetto nel mio ufficio per assegnarvi qualche compito che farà fruttare meglio il vostro tempo.»
Mi sfilano accanto, una dopo l'altra, con gli occhi incollati sul pavimento.
Ecco, questa che provo ora è più o meno la stessa sensazione che sento ogni giorno. La gente qui, nel mio posto di lavoro, mormora; l'evento di oggi ne è la prova.
«Giù, lasciale stare, sono solo stupide galline!»
Proprio a causa di circostanze tipo questa, da qualche tempo sto prendendo in considerazione la possibilità di chiedere il trasferimento dopo la specialistica. Voglio andare via, lontano, dove nessuno possa giudicarmi o semplicemente guardarmi per quella che sono diventata: la ex del formidabile dottor Solina.
Le mie giornate si riducono a una lotta per la riconquista dell'equilibrio fisico e mentale, la perdita del miracolo che custodivo in grembo ha rincarato in modo esponenziale la dose. Non c'è momento in cui io non prenda in considerazione l'idea di afferrare il telefono e chiamare Flavio per restituirgli un po' della sofferenza a cui sono costretta, e che avrebbe il diritto di provare anche lui.
Vorrei che il patimento lo sentisse dimenarsi mentre scorre a fiotti nello stomaco e nel cuore ogni notte, senza che gli occhi trovino pace. Vorrei che si aggrappasse alle lenzuola anche lui, come faccio io, per tirare fuori la forza e non cedere. Anche se poi, a essere sincera, avrei proprio voglia di lasciarmi andare tra le voluttuose braccia del tormento. Dopotutto, sarebbe un buon modo di arrendermi, anche solo per un istante, a me stessa e a questa società che mi vorrebbe insensibile, che non comprende quanto sia difficile il processo di rinascita.
Chiusa una porta si apre un portone, dicono tutti. Ma io di portoni non ne vedo. Ci sono solo occhi che frugano in modo indiscreto, occhi che giudicano, che si arrogano il diritto di sapere senza conoscere un bel niente.
***
«Gelato?»
Carlo è davanti all'entrata di casa con una vaschetta di polistirolo impacchettata dalla gelateria Pavé, quella in via Cesare Battisti.
«Ehi, ciao!» Sto bleffando un po' con l'entusiasmo, avrei preferito passare la serata da sola, non sono molto socievole ultimamente, ma non potrei mai essere scortese davanti a tanta gratuita generosità.
Mi sposto di lato e lo invito a entrare. La TV è accesa su Real Time, le finestre sono aperte perché questa casa è già bollente neanche fossimo ad agosto.
«Posso fare io gli onori di casa, così tu ti rilassi un po'?» mi dice lui strizzando l'occhio e provando a instillarmi un po' di buonumore.
«Certo, io mi siederò ad aspettare.»
Scarta la confezione, prende un cucchiaio, un paio di cucchiaini e due bicchieri.
«Preferenze? Ho preso tutti gusti ipocalorici... sbrisolona, caffè e cardamomo, cioccolato.»
«Perché lo fai?» mi viene spontaneo chiedergli.
Lui sgrana gli occhi scuri. «Ci deve essere per forza un motivo dietro? Non può bastare il fatto che ti consideri un'amica, nonostante tutto?»
No, a dire il vero non mi basta. E questa cosa mi mette anche un po' a disagio.
«Ok, sarò sincero. Ho incontrato Gaia qualche settimana fa, mi ha detto che eri in ospedale. Che avevi avuto un malore. Non ho fatto altre domande come non le ho fatte a te per non sembrare invadente, ma mi è dispiaciuto molto e volevo sapere come stavi.»
Gaia non mi ha detto nulla e non la biasimo visto il gran da fare che già ha con i suoi problemi.
«Scusami, io non lo sapevo» mormoro.
«Tranquilla, Giù, non ci sto provando, se è quello che pensi.»
Sono arrossita, non volevo essere tanto esplicita e neppure inopportuna.
«Per favore, non dire nulla a Flavio dell'ospedale, se lo senti.»
Carlo mi guarda, si passa una mano tra la barba fitta. «Non lo avrei fatto comunque. Io rispondo solo se qualcuno domanda, non mi piace fare il ficcanaso. In questo caso, non dirò nulla comunque.»
«Lui, lui ti ha chiesto di... me?»
Storce la bocca, fa scivolare sul tavolo un bicchiere colmo di gelato.
«No.»
Ahia, un pungolo nel petto.
Chissà perché ci spero ogni volta in una qualche bella notizia.
Il cucchiaino affonda nella morbida crema, giocherella, sale su e poi si rituffa. Qualche goccia straborda e cade sul tavolo; pigramente, quasi come un obbligo, porto il gelato alla bocca e mando giù. Lo faccio diverse volte, solo dopo mi accorgo che Carlo, seduto davanti a me, la testa sul palmo della mano e le dita piegate sopra le labbra, mi scruta curioso.
«È buono» mi affretto a dire.
Lui sorride. «È buono, ma non ti va.»
«Ho scoperto che l'inappetenza può colpire anche persone come me, generalmente molto appetenti.»
«Poi diventi brutta.» Fa una smorfia e la trovo divertente, stranamente in grado di sollevarmi il morale.
«Oggi, al lavoro, ho sentito un gruppo di ragazze che parlottavano. Una ha detto: Ehi, ma hai presente lui? Bello e intelligente, ti pare che si faceva infinocchiare da quella. Dai, non è neanche tutta questa bellezza.»
«Hai una memoria di ferro...»
«Quando le parole fanno male, sì, ho una memoria di ferro.»
«Era l'invidia a parlare, o ti devo dire come ragionate voi donne?»
Rido anche io stavolta, un po' più di prima.
«Ecco, così va meglio...» bisbiglia.
Gli sguardi si incrociano, il suo sembra quasi soddisfatto. Io, però, non saprei interpretare il mio.
«Se non sapessi che insegni storia e filosofia in un liceo, ti prenderei per uno psicologo.»
«La filosofia è molto affine alla psicologia.»
«Grazie» sussurro alla fine, mentre da fuori, entra un filo di vento.
Mi immagino le stelle, nel cielo, che sorvegliano dalle finestre aperte la vita di chi è dentro una casa a gioire dei propri sogni realizzati. O a piangere per quelli infranti. Poi, in questo immenso scorcio di mondo, c'è anche Milano e le sue luci. Milano e la sua gente. Milano e la sua Giuditta che prova ad andare avanti. Qualcuno c'è a supportarla, a offrirle una spalla per far sì che possa posarci sopra la testa troppo stanca per pensare ancora. Allora sembra più semplice allentare un sorriso, lasciare che le labbra si incurvino così, all'insù.
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