NON HO SMESSO DI PENSARTI, VORREI TANTO DIRTELO

La mattina dopo non ce la faccio ad assecondare l'abitudine di andare a correre. Oltretutto piove ancora, quindi resto nel letto un'ora in più.

Solo quando sono in cucina, tutta intenta a riscaldare il latte nel microonde, mi rendo conto che io e Lorenzo non ci siamo scambiati neppure il numero di telefono, il che mi riempie lo stomaco di una strana euforia mista ad ansia. L'euforia che questo inconsueto gesto sia stato fatto di proposito per aumentare la curiosità reciproca, e l'ansia perché non disporre di un contatto telefonico potrebbe significare proprio l'opposto: lui una incazzosa come me non la vuole proprio assecondare.

Quando raggiungo il dipartimento di Genetica Molecolare, trovo Adele già all'opera.

«Grazie per avermi risposto ieri sera» borbotta tutta accigliata.

«Hai ragione, ma ero impegnata...» Il mio sorriso unito a uno sguardo un pochino più vispo del solito le fa drizzare le antenne.

«Non mi dire che hai deciso di concederti a qualcuno dopo più di un anno di digiuno sessuale...»

Anche Adele sa che dal giorno precedente alla partenza di Flavio, io non ho più avuto rapporti né fisici, né platonici, se escludiamo la défaillance con l'Irresistibile Canaglia che, tuttavia, non ha trovato completo compimento.

«Direi che sono ancora vergine sotto quel punto di vista» mormoro indossando il camice.

«E chi sarebbe il maschietto in questione?»

In cuor mio speravo di non dover mai rispondere a questa domanda.

«Be', non è stato proprio un appuntamento serio.»

Adele mi guarda perplessa. «Che significa, scusa?»

«Non siamo andati mica a cena fuori. Cioè, niente di ufficiale.»

«Ma che vuol dire, uno mica deve portarti a cena fuori per un appuntamento.»

Adele riduce gli occhi a due fessure strettissime. «Senti un po', non è che stai tergiversando perché non vuoi dirmi con chi hai passato la serata?»

Vengo colta da un improvviso accesso di tosse.

«Se te lo dico, prometti di non fare commenti strani?»

«Gesù, stai cominciando a farmi preoccupare.»

Afferro i guanti e li infilo. «Lorenzo» pronuncio lapidaria e anche un tantino imbarazzata.

«Chi, mio cugino?»

Annuisco.

«Mamma mia, e io chissà chi pensavo fosse!» Preleva delle provette dal frigo e le controlla una per una. «Normale amministrazione, Lorenzo è uno che è sensibile agli animi fragili. È un po' come la storia delle crocerossine, solo che in versione maschile. Tu sei la candidata ideale a stuzzicare in lui il giusto interesse.»

Non chiedo ulteriori precisazioni. Non voglio privarmi dell'illusione di aver trovato una persona in grado di riattaccare col Super Attak il mio cuore infranto.

La stessa sera, colta da un irrefrenabile desiderio di sapere se quello che mi frulla nel cervello è semplice intuito femminile, o qualcosa che ha a che fare con la telepatia, esco.

Sono le nove e trenta, come sempre. Il cielo si è rischiarato a partire da questo pomeriggio, l'aria è frizzante tanto che ho dovuto rispolverare dall'armadio un cento grammi mezza stagione. Siamo a maggio, ma le escursioni termiche tra giorno e notte sembrano quelle del clima desertico.

Questa volta non mi fermo in yogurteria, non ho fame. Un lieve stato di inebriamento mi ha chiuso lo stomaco, tant'è che a cena mi sono accontentata di sgranocchiare una frisella con pomodori e scaglie di parmigiano.

Quando raggiungo la solita panchina sul lungomare, non c'è nessuno. La delusione è una di quelle cose che in questo momento, e con questo stato d'animo, non riesco a tollerare. Evidentemente avevo fatto male i miei calcoli, e comunque è impensabile immaginare di entrare in sintonia con una persona in così poco tempo.

Giuditta, eccola la tua solita insicurezza che ti spinge a rifugiarti nelle braccia di persone delle quali non conosci nulla. Eccolo l'errore in cui stai rischiando di incappare ancora una volta. È ancora presto, devi aspettare, devi avere pazienza, devi restare sola ancora e ancora e ancora, finché in quella stessa solitudine non ci annegherai definitivamente.

Ma io sono stanca di fare la stoica, di rifugiarmi nell'imperturbabilità dell'animo pensando che possa rendermi più forte. Io non sono più forte di prima, io sono esattamente come prima con la sola differenza che, rispetto a prima, non ho più nulla da perdere, perché ho già perso tutto.

Fumerò una sigaretta, poi me ne tornerò a casa con la consapevolezza di non saper interpretare le circostanze in cui mi trovo immersa.

Butto la cicca a terra e la pesto con la punta del piede, insistendo con più forza del necessario, mi alzo e a testa bassa torno sui miei passi. Ma di questi passi riesco a farne giusto un paio.

«Dove vai?» Mi sorprende la voce di Lorenzo.

Giro il capo, lui si è appena seduto.

«Pensavo non venissi, cioè io credevo...» Non riesco a finire la frase, non saprei cosa dire, allora mi limito a sedermi accanto a lui con una leggerezza d'animo appena ritrovata.


***


Passiamo così le sere. Senza avvisarci, dandoci un silenzioso appuntamento sulla solita panchina. Una volta lì, ci alziamo dirigendoci verso il molo, camminando sulla passerella circondata dal mare e abbarbicandoci come sirenetti su uno scoglio.

Parliamo. Parliamo e basta. Qualche volta le membra si sfiorano, le spalle si toccano e gli occhi si incrociano. Spesso sono le mani a collidere, le dita ad avvicinarsi. Ma mai con l'intenzione di prolungare il contatto troppo a lungo. È come se entrambi temessimo una scossa.

Io più di lui. Molto di più.

Ci stiamo conoscendo in maniera cauta, scambiandoci informazioni che riguardano più la sua sfera privata che la mia. Io resto sul vago, evito di prendere certi discorsi temendo che l'ammissione delle mie colpe possa allontanare Lorenzo da me. Ma so per certo che continuare a criptare i contenuti del mio vissuto non mi aiuterà a stare meglio, non per sempre.


***


Non ho mai avuto un giardino e ora che me ne sto qui fuori a osservare l'angusto spazio all'aperto che ho a disposizione, vengo pervasa dall'irrefrenabile desiderio di darmi al giardinaggio. Mia madre sostiene che prendersi cura dei fiori abbia effetti benefici sul morale. Provare per credere.

Al centro del paese c'è un fioraio che quando ti trovi a passarci accanto, vieni avvolto da un mélange irresistibile di profumi e colori. Tra cestini traboccanti di non ti scordar di me, narcisi e mughetti, mi attardo a scegliere con quali fiori abbellire il lembo di giardino. Attratta dallo sgargiante colore di un'azalea, mi chino per annusarne la fragranza e in quel frangente qualcuno mi allunga davanti agli occhi un elegante fiore bianco, con petali fitti che ricordano vagamente la forma di una rosa.

Alzo la testa e chi mi trovo davanti? 

Lorenzo.

«Un ranuncolo per te che sei una creatura languida e misteriosa.»

«Che ci fai qui?» pronuncio afferrando lo stelo e portando vicino al naso la candida corolla.

«Sono appena uscito da casa della signora Rosaria. Non può muoversi, così vado io da lei per la fisioterapia. E tu?»

«Voglio darmi al giardinaggio, il prato fuori casa è un po' spoglio... solo che devo sperare che il mio pollice sia migliorato nel tempo. È più nero che verde.»

«Signora, che ne dice delle ortensie...» si intromette il fioraio avanzando con un vaso colmo di splendidi batuffoli lilla.

«Che dici, potrebbero andar bene?» chiedo dubbiosa a Lorenzo.

Lui scrolla le spalle. «Non saprei, per essere belle, sono belle...»

La mia scelta finale è ricaduta su ortensie, lavanda, gelsomino e calle. Lorenzo si è offerto di accompagnarmi fino a casa e così, con una mano impegnata a tenere una piantina e l'altra occupata dal ranuncolo donatomi da Lorenzo, giungiamo davanti al cancello.

«Vuoi una mano per piantarle?»

«Sì», rispondo elettrizzata.

La compagnia di Lorenzo è piacevole in qualsiasi circostanza.

Iniziamo subito a impiastrarci le mani, e con mia grande sorpresa mi accorgo che il contatto con la terra ha davvero un potere rigenerante.

«È sempre una questione di contatto, per questo è rigenerante» mi dice lui quando gli faccio notare la cosa.

Mentre io sono a pasticciare tra i fornelli, Lorenzo scompare per un quarto d'ora senza dirmi nulla e riappare con una bottiglia di rosso in mano.

Preparo una pasta al pomodoro veloce e, contro ogni aspettativa, buonissima. Mangiamo, ridiamo e beviamo. Al momento del caffè, ci concediamo una siesta sul divano, tutti rossi in viso un po' per l'effetto del vino, un po' per il sole preso durante la lezione di giardinaggio.

È in questo frangente che, inaspettatamente, mi sbottono. Così, senza una ragione particolare, senza che Lorenzo mi chieda nulla.

«Dovevo sposarmi l'anno scorso. Eravamo molto innamorati, ma lui anteponeva la carriera a tutto il resto, anche a me. Aveva i suoi buoni motivi, per carità, ma a un certo punto le mie necessità e le sue non combaciavano più.»

Continuo a parlare senza capire quanto io riesca ad ammettere di amarlo ancora, di cercarlo ancora – pur certa di non avere speranze – e quanto no. Lorenzo ascolta, non interrompe, tiene lo sguardo fisso su di me mentre sono io a volgere gli occhi altrove. È sempre un po' imbarazzante parlare dei propri errori e del fatto che un tradimento, benché supportato da una minima attenuante, resta pur sempre un tradimento.

Finisco il mio racconto proponendo un caffè, tanto per stemperare la tensione. Solo la mia, ovviamente.

Preparo la moka e l'unico suono udibile, oltre al cinguettio degli uccelli, sono i passi di Lorenzo nella stanza.

«Mi piaci. Mi piaci tanto, Giù» ammette dopo aver afferrato la tazzina e averla avvolta tra le dita. I suoi occhi azzurri incollati nei miei. Il suo fianco destro posato sul muro. Io in piedi davanti a lui, in una bolla fatta di incredulità e confusione.

L'imbarazzo ora sembra esplodere tutt'intorno. È raro incontrare qualcuno che riveli a parole ciò che generalmente è più semplice dimostrare con i fatti.

I miei occhi girano impazziti nella stanza, alla ricerca di un appiglio visivo. Io non so che dire.

«Posso baciarti?» mi sorprende lui, ancora una volta con una dolcezza che mi fa schizzare il cuore in gola.

Sì, vorrei dirgli di sì. Eppure, qualcosa mi limita dal farlo. E resto zitta, impalata come una stupida.

Lorenzo non sposta lo sguardo, no. Allunga la mano sui capelli, sfiora una ciocca e poi raggiunge il viso. Un tocco incerto, ma pur sempre un contatto che mi fa vibrare l'anima proprio dentro al cuore, o da qualche altra parte nelle sue vicinanze.

Stacca il fianco dal muro. «Grazie per il pranzo» bisbiglia.

Lo accompagno alla porta, avvolta in un silenzio carico di elettricità. Ma prima che lui esca, succede qualcosa. Succede che allungo una mano sulla sua spalla e lo trattengo.

Succede che lui si volta e io mi alzo in punta di piedi. Questa scena rivive nella mia mente come un riverbero lontano, qualcosa che è già accaduto a me da qualche altra parte, con un'altra persona. Lo bacio, ma non sulla bocca. Nell'angolo tra le labbra e la guancia.

Il contatto accende un fremito in lui. Lo percepisco nel suo lieve tremolio, nei suoi occhi sgranati, nel tocco della sua mano che si posa sopra il mio fianco.

Gli ho forse lanciato un segnale di arrendevolezza? Un segnale che dovrebbe spingerlo ad azzardare una manifestazione più compromettente?

Non lo so. Io non lo so. Ma credo che non lo sappia neppure lui, perché dopo un istante di indugio esce fuori e chiude la portafinestra dietro di sé.

Sono certa di aver letto nel suo ultimo sguardo, prima di darmi le spalle, un messaggio di attesa e rispetto. Qualcosa che ha a che fare con le mie fragilità, che lui sembra aver colto con disarmante semplicità.

Una volta rimasta sola, cammino fino al canterano, col dito scorro lungo una pila di libri. Mi fermo quando incontro un testo di poesie di Bukowski.

Sfilo il volume, lo apro a pagina sessantanove, dove c'è il segnalibro.

Non ho smesso di pensarti,

vorrei tanto dirtelo.

Vorrei scriverti che mi piacerebbe tornare,

che mi manchi

e che ti penso.

Ma non ti cerco.

Non ti scrivo neppure ciao.

Non so come stai.

E mi manca saperlo.

Hai progetti?

Hai sorriso oggi?

Cos'hai sognato?

Esci?

Dove vai?

Hai dei sogni?

Hai mangiato?

Mi piacerebbe riuscire a cercarti.

Ma non ne ho la forza.

E neanche tu ne hai.

Ed allora restiamo ad aspettarci invano.

E pensiamoci.

E ricordami.

E ricordati che ti penso,

che non lo sai ma ti vivo ogni giorno,

che scrivo di te.

E ricordati che cercare e pensare sono due cose diverse.

Ed io ti penso

Ma non ti cerco.

E io ti penso, Flavio. Ti penso ancora come se fosse ieri che te ne sei andato. Ma non ti cerco, no. Non sarebbe giusto. E poi il tuo numero non è più nella mia rubrica. Ho cancellato i tuoi vecchi messaggi. Ho criptato le tue foto. Ho provato a dimenticare il tuo odore.

E io ti amo, Flavio. Ancora. Ma devo andare avanti, senza di te.

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