IL BUON SAMARITANO

A un certo punto ti stanchi di essere triste, apatica, asociale. Insomma, ti rendi conto che il mondo va avanti tranquillamente anche senza di te. Allora succede che torni a ridere quella volta di più, a proporti per accompagnare la tua collega-amica all'Ikea, a partecipare a qualche aperitivo in compagnia, e a riconsiderare la presenza degli uomini nel contesto sociale in cui vivi.

Peccato che nessun individuo di sesso maschile, nella cerchia di coloro che conosco, instillino in me la giusta predisposizione.

Accade, però, che un sabato pomeriggio, recandomi in un supermercato appena fuori Cefalù, mi imbatto in uno di quegli incontri che rendono chiaro al mondo intero quanto io, Giuditta Piras, stia attuando la lenta e spietata trasformazione da dolce e indifesa creatura femminile, a zitella bisbetica.

«Ciao, ti va di partecipare alla colletta alimentare?» mi propone un tipo.

Giro il capo verso l'individuo in questione. Capello lungo, castano chiaro e lievemente ondulato. Gli occhi sono azzurrini, appena più scuri nel contorno dell'iride, come se in quel punto Madre Natura avesse calcato la mano con il colore; indossa una maglietta gialla con sopra scritto a caratteri cubitali Fai la spesa per chi è povero.

«No, guarda non è giornata.»

Lo sto chiaramente evitando come la peste.

«Be', se ci pensi, non è mai giornata quando si tratta di pensare al prossimo...» Butta la frase così, e la trovo irritante quel tanto che basta a farmi nascondere dietro un velo di indifferenza.

Ignoro la proposta e tiro dritta per la mia strada. Giro per i reparti, prendo delle verdure fresche sperando di trovare il tempo – e la voglia − per cucinarle. Mi fermo al banco del pane e mentre sono in fila ripenso alla frase del tipo fuori dal supermercato. Più qualcosa mi dà fastidio, più la testa si ostina a pensarci.

Cereali, un pacco di Gocciole, del tonno, fusili e pennette. Poi me ne vado in cassa, porgo la Tessera Fedeltà e il bancomat. Riempio la busta caoticamente, e quando le porte scorrevoli del negozio si aprono, butto un occhio fuori sperando che il Buon Samaritano della colletta alimentare sia così impegnato da non badare a me. La fortuna mi assiste, ma solo per metà, perché proprio quando sto caricando la spesa nel portabagagli, mi accorgo di essermi dimenticata di comprare l'acqua.

Impreco silenziosamente un paio di volte prima di tornare sui miei passi e ritrovarmi faccia a faccia con il Buon Samaritano dalla maglietta gialla.

«Ci hai ripensato?»

Sgancio un sorriso sornione. «Ho dimenticato una cosa.» L'acidità nel tono di voce non sembra desistere.

«Però hai sorriso, e anche se il tuo più grande desiderio è quello di farmi sparire, io te lo propongo lo stesso: vuoi aiutare chi è più sfortunato?» Mi porge una busta.

Conscia del fatto che non riuscirei a sopportare me medesima sapendo di aver fatto l'indifferente, nonché la taccagna, gli strappo la busta dalle mani e rientro nel supermercato. Dopo aver riempito il sacchetto di cibi in scatola, latte a lunga conservazione, pasta e legumi, prendo le mie tre casse di acqua, pago e torno da lui.

«Tieni.»

Il tipo spalanca lo sguardo e sorride enfio di gratitudine. «Sei stata gentilissima. Grazie.»

Spingo il carrello in direzione del parcheggio e mi sento chiamare, di nuovo.

Adesso che vorrà? Una trasfusione di sangue?

«Scusami...»

Faccio mezzo giro su me stessa.

«Hai una faccia conosciuta...»

Toh, ecco il biondino col metodo di abbordaggio più antico del mondo.

«Ma davvero? Ho fatto la controfigura di Daenerys Targaryen» blatero sbuffando e allontanandomi.

Si vede che sono reduce da una maratona serale de Il Trono di Spade?

«Spero che tu abbia comprato del miele da prendere la mattina prima di uscire di casa» mi grida dietro.

Se gli rispondessi alimenterei un patetico teatrino.

Salgo in auto e sfreccio verso casa.

Mi sembra abbastanza evidente che qui il problema sia io e non gli altri. Che passare da uno stato cronico-depressivo a uno cronico-antisociale non mi è di grande aiuto.

È chiaro che perseverare nella mia castità, al pari di una monaca di clausura, sta palesando seri effetti collaterali. E sì, forse anche io, dopo un anno di digiuno dalla parte più animale che possa esistere in un essere umano, devo riconsiderare la mia posizione con il sesso opposto.


***


Nei giorni appena precedenti al mio trentaquattresimo compleanno, inizio a formulare tutta una serie di teorie in merito alla data della mia nascita: il sette aprile.

Ora, devo ammettere con sincerità che nel corso degli anni, nella stessa data, si sono susseguite tutta una serie di circostanze che mi obbligano a pensare quanto dietro di essa si celi una strana maledizione.

Il sette aprile del '92, cadendo da un albero di ulivo − neanche troppo alto − nella campagna dei miei nonni materni, mi sono rotta un braccio.

Nella stessa data, ma diversi anni dopo, come ben si merita la mascotte delle adolescenti sfigate, sono stata mollata dal mio primo fidanzatino. Quello a cui avevo concesso l'opportunità di assaggiare la mia bocca e allungare la mano sotto la maglietta.

Nel 2012 mi si è rotta la macchina sulla tangenziale di Milano, nel bel mezzo di un temporale che aveva del catastrofico. E, come ciliegina sulla torta, quello stesso giorno, ho avuto la brillante idea di provarci col mio ex tutor – a oggi ex fidanzato – Flavio Solina. Aggiungendo alla mia personalissima collezione di figure di cacca, anche l'inobliabile rifiuto di lui.

Solo un anno fa, precisamente l'otto aprile, ma nella circostanza assimilabile al festeggiamento posticipato del mio compleanno, si è verificata la più grande sciagura della mia vita: ho tradito Flavio, anche se non fino in fondo, con quell'Irresistibile Canaglia che va sotto il nome di Gabriel Sala.

Ora, come posso anche lontanamente nutrire speranze che quest'anno le cose vadano diversamente?

Di certo non verrò scaricata da nessuno, né dovrò ammettere colpe di qualsivoglia genere, eppure anche solo il ricordo degli avvenimenti dello scorso anno ha un non so che di luttuoso.

«Tanti auguri zia Giuditta!» Gaia sorride raggiante dallo schermo del computer, tiene in braccio Matilde che somiglia sempre di più al papà e sempre meno alla mia migliore amica.

Sono felice di vederle, ma devo ammettere che al momento mi riesce ancora difficile l'interazione con i bambini molto piccoli, un po' come se i poppanti da zero a dodici mesi rappresentassero un tabù.

«Quando torni a trovarci?»

«Non lo so...»

Non saprei che altro dire.

Parliamo per una decina di minuti, lei mi chiede come sto e io le rispondo «alla grande». In fondo è una mezza verità. Non starò proprio alla grande ma ce la sto mettendo tutta per indirizzare la mia esistenza verso mete, se non stupende, almeno apprezzabili.

Alla sua telefonata segue quella di mia sorella che lo scorso marzo ha sfornato un pupetto tutto pieghe e gorgheggi. Lo adoro, come del resto adoro Matilde, ma non riesco a lasciarmi andare come avrei voluto e come avrebbe fatto la Giuditta che esisteva un tempo. Me ne rammarico anche se so che la mia famiglia e Gaia hanno captato il mio malessere e lo accettano arrendevoli, convinte che un giorno, presto o tardi, questa piaga dell'animo possa rimarginarsi.


***


Trattenere la Birthday Planner che si agita in Adele è stata un'impresa titanica. Alla fine, siamo giunte a un compromesso: pizza con la solita comitiva nella taverna di Salvo, il suo amico cavernicolo ma simpaticissimo.

Prima di uscire fuori di casa, però, assecondo un desiderio che mi zampilla dentro come farebbe il sangue che fuoriesce da una ferita.

Il computer è sopra il letto, acceso. Apro Facebook e commetto un errore con cui farò i conti nelle prossime ore. Nella barra di ricerca inizio a digitare il suo nome con l'esitazione di chi è conscio di sbagliare in maniera eclatante. L'incertezza mi fa sostituire la V con la C. Flacio Solina. Cancello. Sono quasi sul punto di rinunciare. Anche il caso mi sta avvertendo con un silenzioso: dangerous.

Pericolo.

Pericolo.

Pericolo.

Ma la curiosità prevarica il buon senso.

Digito Flavio Solina, questa volta correttamente, con la stessa emozione in corpo di un'adolescente che cerca informazioni sul ragazzo che le piace. Questa volta non commetto errori.

Il cursore è sulla lente d'ingrandimento. Un click e l'inesorabile ricerca dà come risultato diversi omonimi. Il primo, per ovvie ragioni di algoritmo, è quello che mi interessa. Quando apro la sua pagina, mi accorgo che non rientro nella schiera dei suoi amici. Siamo due perfetti sconosciuti. Tra le info di base figura la Kingstone University e la sua attuale città, Londra. Una serie di foto, ma in nessuna ci sono io. Le ha cancellate tutte. Scorro nel flusso di informazioni e vedo diversi post in cui è taggato. Alcuni, i più vecchi, lo ritraggono con i suoi ricercatori. Nei più recenti, invece, viene taggato da una donna: Chloe McLean che compare in diverse foto con lui. Solo con lui.

Non saprei spiegare il mio stato d'animo. Il pensiero che quella donna possa essere la sua donna mi annienta. Poi il cervello fa delle rapide associazioni di immagini, scendo nel feed, poi risalgo, lo faccio diverse volte e dopo aver comparato varie foto, mi accorgo che quella tale Chloe è nel suo team.

Se la fa con una del suo team.

Ha una relazione con una del suo fantasmagorico team.

Cosa ti aspettavi, Giuditta?

Niente, non mi aspettavo niente. Ma vederlo con un'altra mi brucia come un'ustione.

Lo cerco ancora nei miei pensieri, nelle mie azioni, nel mio vivere quotidiano, questo è evidente.

Sono le sette di sera quando Adele, con due colpetti di clacson, mi esorta a uscire di casa.

Nella Taverna ci siamo proprio tutti, anzi c'è anche qualcuno in più che sgamo subito anche se girato di spalle.

«Ma guarda un po', abbiamo una guest star stasera!» esclama Adele prima ancora che "l'infiltrato" volti la schiena per mostrarmi la sua identità. Quando lo fa, però, mi prende un colpo e sì, preferirei scavarmi una fossa e ficcarmici dentro.

Il Buon Samaritano non ha la T-shirt gialla, ma un maglioncino di filo blu aderente che esalta un busto asciutto, il pantalone in tessuto Jacquard scende morbido sui fianchi.

I due si salutano con slancio, io ne approfitto per svignarmela dall'altra parte della stanza con la scusa di posare sull'appendiabiti il mio nuovissimo blazer rosa cipria. Ma per quanto io possa sperare di diventare trasparente o modificare l'aspetto dei miei connotati fisici, devo arrendermi e augurarmi che lui non si ricordi di me.

L'illusione persiste per poco più di dieci secondi.

«Wow! La controfigura di Daenerys Targaryen, ma quale onore...» Il suo tono pungente e quasi beffardo trasforma il mio viso in qualcosa di molto simile a un ravanello rosso.

Adele corruccia la fronte. «Ma vi conoscete?»

Fortunatamente, a parte lei e Salvo, gli altri sono troppo impegnati per gustarsi la scena.

«Certo che sì. Ti ricordi... la colletta alimentare? Ah, l'hai preso, poi, il miele?»

Il ragazzo è dotato di un'ironia sopra la media.

Allunga il braccio verso di me, mi tende la mano e io la stringo con riluttanza. Che ci posso fare se l'acidità si è impadronita del mio essere?

«Piacere, Lorenzo.»

I capelli mossi sono lunghi quel tanto da conferirgli un aspetto selvaggio, gli occhi piccoli e chiari sembrano attraversati da un guizzo curioso.

«Giuditta, piacere mio.»

Sul pollice ha un anello di acciaio con disegni geometrici.

Adele si intromette tutta euforica. «Lui è mio cugino, quello che fa uccel di bosco. Te l'avevo detto, no? Lei invece è Giuditta, la nuova Dottoressa del nord.»

Dopo le presentazioni del caso, ognuno riprende possesso dei propri spazi, io aiuto le altre ad apparecchiare mentre i ragazzi vanno a prendere la pizza.

In un momento di tranquillità, Adele mi racconta che Lorenzo è un fisioterapista, fissato con le buone azioni, sembra che non possa proprio vivere senza aiutare il prossimo. Il che mi sconvolge un po'. Da una persona tanto sarcastica non mi aspetto l'animo del filantropo, ma come la vita mi ha insegnato, niente è come sembra e il guscio esterno delle persone spesso nasconde volti che non immaginiamo neanche.

Dopo essermi ingozzata di arancini, pizza margherita e una generosa dose di birra, mi abbandono sul divano estraniandomi da tutto il resto. Che io stia pensando incessantemente alla ricerca fatta su Facebook qualche ora fa, è cosa certa. Come è altrettanto certo che il leggero stato di ebrezza e la pesantezza di stomaco mi assicureranno una nottata di pessima qualità.

Prendo il pacchetto di Marlboro dalla borsa, infilo il blazer e vado fuori a fumare. A metà della mia sigaretta, il portoncino si apre e Lorenzo, con il quale non ho socializzato affatto durante la serata, esce fuori con le chiavi dell'auto in mano.

«Non pensavo fumassi... Voglio dire, non hai la faccia di una fumatrice» pronuncia giocando con il portachiavi.

«Per parecchi anni ho smesso, effettivamente» rispondo mogia. Ricominciare non è stata proprio un'idea salutare.

«Da dove vieni?»

«Milano.» Alzo gli occhi e incontro i suoi, piccoli ma a loro modo magnetici.

«Pensa che ho dei colleghi che scalpitano per un trasferimento al nord.»

«Punti di vista, io qui sono rinata per certi aspetti. La frenesia di certe città alla fine finisce per fagocitarti.» Nel dirlo ho spostato lo sguardo verso i sampietrini sul vicoletto. Non lo penso davvero, ovviamente. O meglio, non è questa l'unica ragione della mia scelta.

«Io vado. Ci si vede, Daenerys.» Mi strizza l'occhio e si allontana.

«Ehi, mi chiamo Giuditta» borbotto.

Lui ridacchia, poi scompare dietro la curva della viuzza.


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