FRAGOLA E LIMONE
GIUDITTA
Basta davvero poco per sentirsi felici. La fatina Trilly, stanotte, è passata di qui e ha lanciato su di noi la sua polvere magica.
Io e Flavio abbiamo fatto l'amore sulla spiaggia, ci siamo arrotolati sulla sabbia fredda, abbiamo riso, ci siamo rincorsi sulla battigia con la luna riflessa nel mare. Siamo caduti, ci siamo rialzati e abbiamo ricominciato, fino a vedere gli argentei raggi lunari spegnersi e lasciare spazio all'aurora.
Quando la luce è diventata troppo forte per i nostri occhi stanchi, siamo tornati a casa. Nella vasca abbiamo ricominciato ciò che l'arrivo del giorno aveva interrotto; non abbiamo mai parlato. Solo frasi sussurrate, parole masticate male tra un bacio e l'altro. Ci siamo riempiti del contatto, solo di quello. Poi, col cuore gonfio di euforia e il corpo stanco per il ricongiungimento, ci siamo addormentati.
Adesso che ho riaperto gli occhi, mi chiedo se di quella polvere magica, di cui immagino Trilly abbia fatto un uso parsimonioso, ce ne sia rimasta ancora un po'. Perché se fosse finita e io venissi rispedita nel mondo di prima, quello fatto di una quotidianità in cui Flavio non è compreso, potrei impazzire.
Finché il corpo, il mio, è rimasto confinato nella dimensione dell'amore platonico, è stato semplice fare quello che ho fatto: accettare la possibilità di sconfitta. In quel frangente l'amore di Flavio era una possibilità priva di concretezza. Il sentimento era aleatorio, troppo astratto per definirsi nitidamente. Ora, però, ora che il corpo e la mente hanno raggiunto il medesimo stato dell'essere, sono fregata.
Io, Giuditta Piras, sono fre-ga-ta.
E se Trilly non mi darà un secchio di polvere scintillante da spargere su di noi perpetuando questo stato di benessere, per me sarà la fine.
Tra un'elucubrazione e l'altra, Flavio apre gli occhi e mi dà il buongiorno. Oh, per quanti mesi ho sognato questo buongiorno...
Sono in overdose d'amore stamattina.
«Ciao...» sussurra.
Sembra persino più dolce del Flavio Solina che conoscevo.
«A Londra hai scoperto qualche sostanza che interferisce con il gene che codifica per la proteina della rigidità del dottor Solina?»
Lui corruccia la fronte contrariato. «Io non sono rigido...»
«Oh, sì che lo sei. Tu sei il capostipite degli uomini rigidi, non esageratamente affettuosi, tendenzialmente intransigenti sotto ogni aspetto.»
«Non sono molto d'accordo con la tua teoria, ma se riduci la mia precisione a una mera espressione genica... be', diciamo che il mio gene ha subito una mutazione.»
Gli faccio il verso, imitando la sua austerità nel parlare, lui poggia le mani alla base del collo e mi spinge indietro, di nuovo sul morbido cuscino. Si ricomincia.
Facciamo colazione che è ora di pranzo e solo dopo aver stabilito un giusto compromesso tra il suo perpetuo desiderio di toccarmi e la mia totale arrendevolezza alle sue mani, mi rendo conto di non sapere quanto ancora si fermerà a Cefalù.
«Quanto resti qui?»
Lui alza gli occhi sopra la parete, l'orologio segna le due e trenta del pomeriggio.
«Cinque ore e mezza, più o meno.»
«Riparti stasera?» chiedo con una punta di delusione, che poi non è solo una punta di delusione, ma una gigantesca delusione.
«Domani lavoro...»
Già, siamo adulti e abbiamo le nostre responsabilità, anche se mi piacerebbe immaginarmi in solitudine con lui sopra un atollo disperso nell'oceano, a migliaia di chilometri di distanza dalla civiltà. Io e Flavio come Emmeline e Richard nel film Laguna blu.
Ci prepariamo in fretta e usciamo; raggiungiamo il porto della Baia di Presidiana, e lì, su un pontile galleggiante circondato da imbarcazioni da diporto, ci sediamo. Io incastrata tra le sue gambe, lui incollato alla mia schiena. E così, mentre Flavio gioca con i miei capelli, io gli faccio una domanda che mi balena in testa all'improvviso.
«Perché non hai mai detto ai tuoi genitori il motivo per cui ci eravamo lasciati?»
La mia domanda non lo scompone. Le sue dita sono sempre intrecciate nei miei capelli.
«Perché non sarebbe cambiato nulla, e per quanto ti odiassi, forse non volevo che finissero per odiarti anche loro... Poi, però, l'ho raccontato ad Andrea, molti mesi dopo. Ovviamente, lui non ha minimamente pensato di perorare la mia causa.»
Non gli dico niente. Non serve che io gli spieghi che quasi un anno fa, in preda a un delirio psicotico, ho preso la macchina e mi sono presentata dalla sua famiglia.
«Andrea mi ha detto che sei andata da loro...»
Appunto. Il fatto che lui lo sappia non mi sorprende affatto.
«Vuoi sapere com'è andata?» gli chiedo.
Lui mi piega la testa all'indietro, la tiene salda tra le sue mani, si china, mi bacia. «Non è importante, Giù.» farfuglia confuso sulla mia bocca.
Il suo respiro è il mio ossigeno. Le sue labbra sono il mio atollo disperso nel mare, a chilometri di distanza dalla civiltà.
«Posso farti un'altra domanda?» chiedo ancora, avida di informazioni.
«Sono tutt'orecchi.»
«Hai deciso di tornare in Italia perché avevi finito il tuo dottorato?»
Mi molla un bacio tra i capelli. «Se ti rispondo cosa mi dai in cambio?»
Mi volto, il suo sguardo non tradisce malizia ma compostezza, come al suo solito. Torno a guardare il mare.
«Tu cosa mi chiederesti come pegno da pagare?»
«Ci devo pensare...»
«Sì, ma io la risposta la voglio adesso. Se ci metti troppo tempo rischio che tu parta senza avermi risposto.»
All'idea che lui vada via, sento un tuffo nello stomaco. Non è una sensazione piacevole.
«Ho deciso di tornare quando mi hanno proposto un contratto come docente alla Kingstone.»
Credo di non aver capito. Mi slaccio dal suo abbraccio e mi accovaccio di fronte a lui.
«Cos'hai detto?»
Flavio sembra appagato in maniera quasi perversa.
«Che ho rifiutato una cattedra alla Kingstone» pronuncia senza allentare il mezzo sorriso che ha disegnato in faccia.
«Perché?»
«Perché avevo bisogno di capire... È lo stesso motivo per cui sono venuto a cercarti.»
«E se fossi emigrata al circolo polare artico? Oppure, se mi fossi sposata con un altro uomo... o se non avessi più provato nulla per te?»
«Sarei venuto al circolo polare artico, se ti fossi sposata con un altro uomo avrei incassato il colpo e sarei tornato a Milano. Se non avessi più provato nulla per me e io avessi scoperto di amarti ancora come ho appurato... avrei cercato di riconquistarti.»
La sua mano è sulla mia guancia rossa.
«Ti stai scottando, Piras...» sussurra.
«Non chiamarmi Piras...»
Mangiamo un gelato. Io lecco il suo, lui il mio. Mi sporco la maglia bianca, lui mi dice che sono la solita pasticciona. Gli tiro un pugno sul petto ma lui lo afferra e mi trascina a sé, mi bacia ancora. La sua bocca sa di fragola e limone. La mia di cioccolato e menta. Gusti agli antipodi, come sempre.
Davanti casa, mentre è lì a caricare il bagaglio in macchina, improvvisamente mi invade la tristezza.
«Giù, vieni via con me. Torna a Milano» pronuncia.
Per un secondo smetto di respirare.
«Flavio, è complicato...»
«No, non è complicato. Devi solo preparare la valigia, al resto ci penso io.»
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